Il linguaggio belligerante e il diritto di dissentire. Un estratto dal nuovo libro di Matteo Pucciarelli «Guerra alla guerra»

Il nuovo libro di Matteo Pucciarelli (Livorno, 1984). «Un libro reportage per raccontare le storie e i protagonisti di un pensiero critico, alto e silenziato di cui ci sarebbe bisogno oggi più che mai.»

[Esce in questi giorni per i tipi di Laterza il nuovo libro di Matteo Pucciarelli, Guerra alle guerra. Guida alle idee del pacifismo italiano.

Il capitolo 8, di cui riportiamo ampi estratti e che s’intitola «Guerra nelle parole. Il linguaggio belligerante e il diritto di dissentire», è in larga parte imperniato su un’intervista a WM1 realizzata nel settembre 2022 e sul lavoro critico fatto da Wu Ming nel pieno dell’emergenza pandemica, durante un coprifuoco dell’anima durato un biennio. Pucciarelli getta uno sguardo retrospettivo su quel lavoro, lo riconsidera e ne prolunga diverse linee.

Non capita ogni giorno – anzi, non ci era ancora capitato – di veder riconoscere legittimità e valore a quelle nostre riflessioni e prese di posizione in un testo pubblicato da una delle principali case editrici del Paese.

Il fatto che a riconoscerlo sia un giornalista che lavora a Repubblica, il quotidiano che più si mostrò forsennato nella caccia all’untore – ossia, nelle varie fasi: al «furbetto», al «negazionista», al «nomask», al «novax», al «nogreenpass» ecc. – e che oggi ha il primato della retorica guerrafondaia rende l’evento ancor più importante.

Grazie dunque a Matteo, e buona lettura. WM]

di Matteo Pucciarelli

«Narrazioni tossiche»*: è questa la definizione che il collettivo di scrittori Wu Ming ha dato a tutta una serie di distorsioni e mistificazioni di parole, in questa guerra che solo dopo si combatte con i fucili o con i droni telecomandati, con la violenza e la prevaricazione, ma prima è fatta di un sapiente e costante lavoro di decostruzione culturale. Il 1° marzo 2022 sul loro sito, Giap, pubblicarono un lungo articolo. Titolo: Una dichiarazione – politica e di poetica – sul virus del militarismo nel corpo sociale. Scrivevano:

«Oggi militarismo e bellicismo sono totalmente sdoganati, non li mette in questione quasi nessuno. Abbiamo visto due marò accusati di omicidio trasformati in eroi della patria. Abbiamo visto l’esercito schierato nelle strade con compiti di ordine pubblico. Lo abbiamo visto fare propaganda nelle scuole elementari. Soprattutto negli ultimi due anni abbiamo subito la militarizzazione spinta della gestione pandemica, con il ricorso a una retorica bellicista, il tricolore ovunque e un generale in mimetica a rappresentare la campagna vaccinale. L’emergenza pandemica come ‘guerra al virus’»

Il parallelismo tra le guerre vere e quella sanitaria poteva pure sembrare ardito, ma era un fatto: [la pandemia] l’avevamo noi stessi letta, raccontata e vissuta come un’esperienza di tipo militare. C’era stato il coprifuoco, c’era stata la cultura del sospetto verso i nostri vicini di casa (sono per caso usciti senza un valido motivo?), c’era stato il controllo ferreo esterno e autoimposto sui nostri spostamenti,i posti di blocco e la giustificazione necessaria per superarli, c’era stata la ricerca dell’arma finale necessaria per sconfiggere il nemico, c’era stata l’armatura simbolica, cioè le mascherine, anche all’aperto, soli nel parco; c’era stata la campagna vaccinale, e «campagna» cos’è se non un’altra parola di guerra?; soprattutto, alla fine, c’era proprio il nemico e tutto il carico di retorica che questo si porta appresso, poco conta che si trattasse di qualcosa di invisibile e che non puoi toccare.

Non ci eravamo chiesti le origini di quel male, di quel virus, né se avessimo avuto delle colpe nel crearlo e nel diffonderlo;non volevamo neanche domandarci se le politiche decennali di smantellamento della sanità pubblica a favore di quella privata avessero avuto un qualche peso in quel trovarci impreparati, ridotti al collasso; ma ci sentivamo in trincea, impegnati nella nostra guerra, non c’era tempo per farsi domande. Giornali, radio e televisioni: trincea, guerra, combattere, eroi sul fronte con il loro supremo sacrificio. Quando c’è da vincere una guerra il dissenso è d’intralcio, gli spazi di democrazia si riducono: decretazione d’urgenza e sospensione dei normali diritti.

Quei due anni di virus potevano essere stati dei complici, degli alleati, nell’altra guerra, quella delle parole che stavamo vivendo adesso, dove dissentire sull’utilizzo delle armi pareva proibito pena lo stigma sociale? […]

Era strano, perché i sondaggi all’inizio della guerra in Ucraina dicevano che la stragrande maggioranza degli italiani era contraria ad inviare armi all’esercito di un altro paese. Eppure questa era un’opinione sottorappresentata: nelle piazze, in televisione, sui giornali, in Parlamento, l’idea prevalente era un’altra e opposta. Dobbiamo farlo, è giusto farlo, non farlo sarebbe criminale: armi, armi, ancora armi. Provare a chiedersi perché la stessa solerzia non c’era stata in altri conflitti, a favore di altri popoli egualmente minacciati, non era ammesso.

Gli spazi per i contrari all’escalation militare venivano appaltati invece a chi perorava posizioni completamente opposte, in difesa delle ragioni di Putin. Il dibattito si stava polarizzando esattamente com’era avvenuto con il Covid-19, quando la società doveva essere per forza suddivisa in due categorie: i sì vax e i no vax; c’erano quindi i pro-Ucraina e i pro-Russia; il bene e il male; noi e il nemico. Bianco o nero. Né allo sforzo di comprensione aiutavano le sovrapposizioni, per cui molto spesso se eri un no vax, oggi tifavi Russia; se non ti eri posto alcun dubbio sulla gestione pandemica, assistendo senza batter ciglio a tutte le innumerevoli contraddizioni logiche e operative delle autorità, adesso non te ne ponevi nessuno sull’approccio del governo e del mondo occidentale al conflitto.

Sui social andavano di moda le bandierine a fianco del proprio nome, come fa un esercito – come in guerra, di nuovo –, quando bisogna uniformarsi e quindi mettersi la divisa, radunarsi attorno al simbolo, ai propri colori, riconoscersi grazie a quelli. In uno schema del genere, ripetuto mese dopo mese, c’è spazio per l’approccio critico, per la pace, per la diserzione, per il rifiuto, per i signornò? […]

Fatte le premesse [sul definirsi non «pacifista» ma «antimilitarista», NdR], Wu Ming 1 arriva all’oggi, al «disarmo psicologico» che sta vivendo il pensiero radicale e alternativo che rifiuta guerre e militarismo. «C’è un rapporto di causa ed effetto ricorrente: il riemergere del pensiero, delle parole, dei gesti nazionalistici si porta dietro, sul breve e sul medio termine, tensioni e pulsioni belliciste», ragiona. Breve riepilogo storico per capire come siamo arrivati fin qui: «Cade il muro di Berlino, evento simbolico che consideriamo spartiacque della storia. Subito dopo in Italia “Mani pulite” spazza via i partiti che avevano governato ininterrottamente fino ad allora in un contesto di divisione bipolare del mondo, dove la Dc e gli alleati garantivano il posizionamento del nostro paese. Se la divisione bipolare non c’è più, il sistema perde il proprio collante».

Allora serve trovarne un altro in fretta e dal cilindro magico viene ripescato l’antico ma sempre valido nazionalismo / patriottismo, su larga scala e su piccola. Basti pensare al nome della nuova prima forza politica della Seconda Repubblica: “Forza Italia”, l’incitamento da stadio per la propria squadra, per il proprio paese, per la propria bandiera. L’altra nuova forza, la Lega Nord, propone una sorta di nazionalismo in salsa locale, un indipendentismo senza una reale base storica a cui appoggiarsi, cucito su misura per l’area più ricca del paese, e anche qui è un trionfo di simboli e bandiere identitarie, che fossero posticce poco importava. In questo febbrile ritorno al passato, a cui va aggiunto l’arrivo dei postfascisti di Alleanza nazionale al governo assieme a Forza Italia e Lega Nord, si accodano alcune iniziative portate avanti dalla massima istituzione, la presidenza della Repubblica.

L’analisi di Wu Ming 1 è che prima con Carlo Azeglio Ciampi e poi con Giorgio Napolitano – figure per le quali, durante il nostro colloquio, esprime un netto disprezzo – si sia spinto su iniziative e retoriche di stampo patriottico, riuscendo nell’intento: la celebrazione dell’unità nazionale e della Grande Guerra con il relativo recupero di simbologie e liturgie pubbliche. Un esempio è il diverso destino delle feste del 2 giugno e del 25 aprile: il 2 giugno era ritenuta da Ciampi una festa centrale, ripristinata con una legge nel novembre 2000. Un evento con la parata militare in via dei Fori imperiali a Roma trasformata nel momento di autocelebrazione più importante nel calendario civile italiano, con le Frecce tricolori – aerei agghindati a mo’ di spettacolo pirotecnico, ma pur sempre mezzi militari utilizzati per cosa, se non la guerra? – nuovo simbolo unificante […]

In quegli anni ci sono anche vicende minori che però entrano nell’immaginario, creano egemonia: ai mondiali di calcio del 1994 negli Usa non c’era un calciatore che cantasse l’inno nazionale né lo cantava il pubblico. «Ciampi – ricorda Wu Ming 1 – fece suo questo invito a darsi la carica con l’inno». C’è voluto qualche anno, ma poi l’inno all’inizio delle partite è diventato un momento nazionalistico per eccellenza, con i calciatori a cantarlo a squarciagola e il pubblico anche.

Bologna, stadio Dall’Ara, 19 giugno 2019. La nazionale Under 21 canta l’Inno di Mameli prima di affrontare la Polonia (e perdere 0 a 1).

Trenta anni di nazionalismo, parola “cattiva”, e di patriottismo, parola “buona”, sono confluiti nella stesso fiume carsico […] L’occasione dei festeggiamenti per i 150 anni dall’unità d’Italia amplifica queste caratteristiche, dove è però vitale oscurare i passaggi più dolorosi della nostra storia […]

Si arriva così alla pandemia militarizzata, a milioni di persone recluse in casa che cantano l’inno nazionale dai balconi («siam pronti alla morte, l’Italia chiamò», il che strideva un po’ con la voglia di vivere, con la speranza di uscirne sani e salvi…) e mettono fuori il tricolore dalle finestre; restiamo sgomenti di fronte alla bare di Bergamo portate via con i camion dell’esercito in mimetica, agli elicotteri della polizia con la diretta televisiva in corso in cerca di ribelli che in solitudine prendevano il sole in spiaggia, quest’ultima una scena che rivista oggi appare comica ma è invece una distopia che abbiamo realmente vissuto.

Se tutto diventa la simulazione di una guerra, la pace che fine fa? Se le parole e i gesti sono mutuati da quelli bellici, dove si esige il pieno e convinto sostegno all’autorità, se la legge di fronte ad ogni emergenza diventa marziale, come puoi praticare l’obiezione di coscienza e scegliere di non essere irreggimentato?

Anche perché in quei due anni di crisi sanitaria entra in scena un’altra figura ancora, quella del disertore, del pusillanime.

«Con l’arrivo dei vaccini, l’asse della metafora bellica sembra spostarsi dal virus (un nemico esterno) al disertore-traditore che non si vaccina (nemico interno). E fa scoppiare la guerra civile, che apre la strada alle vendette personali e lascia ferite difficili da cicatrizzare», scrive [Francesca Capelli nel suo Wargasms. Orgasmi di guerra. Come la comunicazione pandemica ci ha insegnato ad amare l’emergenza, Transeuropa, 2022].

Copertina di Wargasms

Wargasms, l’importante libello di Francesca Capelli.

Anche in quei mesi porsi in una condizione critica e di ascolto, di comprensione delle paure seppur nella diversità di vedute, era un esercizio rischioso: bastava un attimo, una frase più sfumata del solito, un punto interrogativo in più, per finire a propria volta nella lista dei sospettati fiancheggiatori di no vax e assimilati. Riscoperta del sentire nazionalistico e parole di guerra applicate alla pandemia: ecco che la successiva guerra vera si trasforma così in inevitabile, nell’unico approccio possibile per risolvere l’emergenza, perché gli “anticorpi” sono ormai terminati.

Gli effetti distorsivi generati da questo mischione di rivisitazioni storiche, patriottismo e un rinnovato virile spirito di combattimento, di voglia di imporre le proprie idee e la propria supremazia […] crea dei cortocircuiti sbalorditivi che in pochi, in quelle settimane dopo l’inizio dell’invasione russa in Ucraina, riescono a cogliere.

Quindi mentre i principali organi di informazione spingono senza dubbi di sorta il nostro paese a difendere quello aggredito inviando armamenti e aumentando la spesa militare, in un clima generale dove c’è ampio spazio per le dimostrazioni pratiche di russofobia, esattamente in quei giorni il Parlamento italiano (con un solo voto di astensione) istituisce una giornata della memoria che commemora una battaglia di aggressione dell’esercito italiano fascista: il 26 gennaio.

«Scopo del provvedimento – così il dispositivo di legge – è quello di tenere vivo il ricordo della battaglia di Nikolajewka, combattuta dagli alpini il 26 gennaio del 1943 e di promuovere “i valori della difesa della sovranità e dell’interesse nazionale nonché dell’etica della partecipazione civile, della solidarietà e del volontariato, che gli alpini incarnano”».

Per ricordare di cosa si stesse effettivamente parlando, ovvero di un gigantesco ribaltamento della realtà, gli storici Francesco Filippi, Carlo Greppi ed Eric Gobetti scrivono:

«Ogni giorno in cui i soldati italiani hanno combattuto sul fronte russo, prima avanzando e poi ritirandosi, è stato un giorno in più in cui i cancelli di Auschwitz restano sprangati sull’orrore. E in cui si permette alla guerra d’aggressione dell’Asse di mietere milioni di vittime» […]

Solo dopo la contestazione degli storici il partito del centrosinistra – quel Pd che negli anni precedenti si proponeva di diventare il «partito della nazione», a proposito di stilemi nazionalistici – ammetterà di aver fatto un grave errore di valutazione storica. Una dissonanza cognitiva spiegabile solo attraverso le lenti del nazionalismo, di un racconto pubblico teso ad esaltare le virtù passate del proprio «popolo», rimuovendo ogni aspetto disdicevole, e insieme l’attuale presunta superiorità economica, culturale e morale del mondo occidentale, di cui l’Italia fa pienamente parte.

C’è infine un altro fattore che può spiegare la tempesta perfetta che rende incredibilmente realistica la minaccia nucleare e assieme la debolezza pacifista nel riuscire a proporre un modello di approccio completamente diverso da quello messo in campo da istituzioni e grandi media. Il funzionamento dei social media, un argomento che il collettivo Wu Ming ha affrontato in più occasioni, sembra fatto apposta per acuire le differenze, avvelenando il linguaggio.

Sulle grandi piattaforme inventate e possedute da una manciata di plurimiliardari

«la logica prevalente» [riflette Wu Ming 1] «è quella dello scontro, del non sapere ascoltare, dell’istinto, [sono] luoghi dove gli utenti si ritrovano fomentati dalla fretta, incalzati dall’algoritmo. Discussioni dove prevale la sollecitazione del paleocervello. Senza dimenticare che poi ci sono operazioni fatte ad hoc, con troll di agenzie diverse e contrapposte che alimentano la polarizzazione. Il bilancio per le nostre società, dopo l’invasione di questi strumenti, è estremamente negativo: hanno fatto un deserto e l’hanno chiamata comunicazione, hanno isolato le persone, le hanno atomizzate facendole credere parte di comunità, dovevano aiutare a parlare e a capirsi e invece le distanze sono aumentate».

Il nostro studio, la nostra cameretta, la nostra postazione in ufficio, i nostri venti minuti di viaggio in metropolitana con lo sguardo fisso e immerso nello smartphone: la piccola trincea quotidiana nella guerra delle parole, dello scontro sistematico, delle idee inconciliabili, delle bolle rassicuranti dalle quali si esce in avanscoperta per azzuffarsi con quelle altrui, “colpisci e affonda”, “asfalta” il nemico.

Se la pace è un percorso di mediazione, ascolto, accettazione e comprensione della complessità, se la pace è una risposta meditata e faticosa mentre attorno tutti urlano, se la nonviolenza è un approccio che comporta la cura dell’altro, del diverso, dello sconosciuto, esercitare quotidianamente queste qualità in spazi pubblici dove la sete di dopamina ci spinge a fare il contrario rappresenta una difficoltà doppia rispetto al passato […] La dimensione storica dell’impegno va completamente persa; i social chiedono un coinvolgimento qui e ora, una risposta prima di subito, un commento sul fatto del momento prima degli altri. Un dispendio di energie emotive sul brevissimo percorso che abitua quindi a pensieri e pratiche mordi e fuggi, allontanandoci dalla fatica e dalla complessità di processi di cambiamento sul medio e lungo termine.

Eppure, continua nella sua analisi Wu Ming 1, anche un movimento pacifista, antimilitarista e nonviolento giù di morale come può apparire quello attuale,

«per il potere è ancora troppo. E allora bisogna inveirgli contro preventivamente, trollarlo, intimidirlo, ridicolizzarlo. Chi comanda sa che il sistema è fragile, che le persone fanno fatica ad arrivare alla fine del mese e anche quel poco che c’è che aspira a un modello economico e sociale diverso è pericoloso e va tenuto sotto controllo. Nei movimenti tendiamo a sottovalutarci perché invece la consapevolezza diffusa può davvero portare alla ribellione e a un rovesciamento dello stato di cose. Altrimenti perché il sistema di potere dovrebbe investire così tanto in sorveglianza, negli algoritmi, nelle videocamere ovunque, nelle analisi predittive? Semplice: è la dimostrazione di un sistema che sa bene di essere debole, di non avere un reale sostegno da buona parte della popolazione».

La conversazione con Wu Ming 1 si conclude così, con un auspicio di rivolta e consapevolezza, alla ricerca di forme e metodi nuovi, ma anche se non soprattutto linguaggi, per spezzare l’incantesimo militarista.

[…]

■ Guerra alla guerra su Bookdealer, su Goobook e sul sito di Laterza.

Una “spigolatura”: il titolo Guerra alla guerra riprende il celebre motto ma anche, più nello specifico, il titolo di un altro libro, il grande classico assemblato e pubblicato da Ernst Friedrich nel 1924, di cui le edizioni WoM hanno appena pubblicato una nuova, curatissima edizione. La consigliamo vivamente.

* Postilla: una definizione di «narrazione tossica»

Narrazione tossica. Storia raccontata senza varianti, sempre dalla stessa angolatura, omettendo gli stessi dettagli e aspetti, gli stessi elementi di contesto e complessità, secondo una coerente logica di selezione e rimozione, con l’esito di intossicare l’immaginazione e prevenire ogni altro approccio all’oggetto del narrare.

Caratteristiche principali di una narrazione tossica:

Sguardo sul mondo totalizzante. Una narrazione tossica è tutta all’indicativo. Nessuna dimensione congiuntiva né condizionale, ovvero: nessun cambio di prospettiva né possibilità alternative, sviluppi imprevisti, ipotesi controfattuali. Al loro posto l’idea
che «le cose stanno così e basta».

Pretesa di oggettività. La narrazione tossica si pretende neutra e imparziale. Se le cose stanno così e basta, ogni altra maniera di raccontare, ogni angolatura alternativa sarà ritenuta «ideologica», «faziosa» o quantomeno «strana». Di contro, l’ideologia che
informa di sé la narrazione tossica – cioè l’ideologia dominante – è costantemente invisibilizzata ed è innominabile in quanto ideologia. L’universalismo è la sua mascheratura.

Deterioramento delle forme del raccontare. Una narrazione tossica non avvelena solo il proprio oggetto e l’immaginario di chi ne fruisce, ma le forme a cui ricorre. Sovente l’antagonista – il «cattivo» – di una storia tossica non è credibile, anche solo a livello di
coerenza interna. Esempi: il «nemico pubblico» di qualunque ondata di moral panic, il «negazionista» durante l’emergenza Covid, ecc. Stessa cosa per le motivazioni che spingono il protagonista della storia – il «buono», e si tratta quasi sempre di autorità, governanti o forze dell’ordine – e per la battaglia che combatte. Le narrazioni tossiche non sono tali solo perché il loro referente è spesso un fattoide, uno pseudoepisodio gonfiato ad hoc, ma perché sono esse stesse narratoidi: la ripetizione identica le fa dare per scontate e sembrare solide, mentre sono inconsistenti. Dopo una lunga esposizione ai narratoidi, le aspettative rispetto alle storie si fanno più modeste, e si tende a credere a storie sempre più scarse.

Eliminazione dei «frattempi». Una narrazione tossica incalza, si apre la via grazie alla fretta. A essere intossicante, per esempio, è l’intero dispositivo delle ultime notizie. I riflessi condizionati, l’incalzare dei cliché, la mancanza di momenti‑cuscinetto, di interstizi temporali – fra‑tempi – in cui rallentare, riflettere e rimettere in prospettiva quanto appena udito o visto, tutto ciò impedisce di inserire nel flusso la dimensione congiuntiva di cui sopra.

Voce scritta collettivamente per il libro di Wu Ming 1 La Q di Qomplotto. QAnon e dintorni;: come le fantasie di complotto difendono il sistema, Alegre, Roma 2021, dove è introdotta da queste frasi: «Narrazione tossica. Da quando, nell’ottobre 2010, avevamo coniato l’espressione su Giap, molte altre persone l’avevano usata, spesso ignorandone la provenienza e in modi più generici rispetto al nostro. In vista del mio libro avevamo deciso, finalmente, di scrivere una vera e propria definizione. Lo sforzo collettivo aveva dato questo risultato.»

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6 commenti su “Il linguaggio belligerante e il diritto di dissentire. Un estratto dal nuovo libro di Matteo Pucciarelli «Guerra alla guerra»

  1. Puntuale come la cagata di un ragioniere di Novara, ecco che la Repubblica del gruppo Gedi comincia a parlare di “voglia di naja”.

    https://archive.is/k5auT

    La lezione del Donbass: ora l’Europa rivaluta la leva obbligatoria
    di Gianluca Di Feo

    In Ucraina sono tornati cannoni, tank e fanti. Contro la sindrome da “caserme vuote” riecco la voglia di naja

    Non bastano la tecnologia, né la qualità: i conflitti totali sono questione di numeri. E la ricomparsa della guerra in Europa sta animando dibattiti che sembravano cancellati dalla Storia e relegati nel libro dei ricordi: dopo la riscoperta dei carri armati e dei cannoni, ecco la discussione sul servizio militare obbligatorio. La naja, incubo per generazioni di ventenni spediti con il fucile in mano a vigilare sulla “soglia di Gorizia”, torna protagonista nel clima bellicoso causato dall’invasione dell’Ucraina.

    Di più non riesco a copiaincollare perché c’è il paywall, e piuttosto che pagare quelli là mi taglio un piede.

    N.B. “I conflitti totali sono questione di numeri” significa “abbiamo bisogno anche noi di carne da cannone”.

    • E già vedo la ministra Roccella sollecitare le italiche giovani a fornire figli alla patria.
      Personalmente non conosco nessuno che soffra della citata sindrome, ma bisogna pur preparare l’opinione pubblica. L’aria è satura di sindrome, è dovunque, non c’è italiano che non ne patisca, possibile che tu non ne soffra? Scava, scava, vedi che la trovi, e se non la trovi vuol dire che hai qualcosa che non va. Magari sei malato, c’avrai la sindrome.
      Ma del resto ci siamo già passati, e l’articolo ce lo ricorda; nella società della comunicazione la comunicazione è onnipotente, e l’opinione pubblica c’est moi. E io ti dico che la guerra è cosa molto brutta ma bisogna fare la guerra proprio per fare la guerra alla guerra. E smentiscimi, se ci riesci.

  2. Consiglio a tutti di leggere l’ultimo libro del giornalista di guerra Domenico Quirico “Guerra totale. La bancarotta bellicista” Neri Pozza, una delle poche analisi non unidirezionali ed univoche tra il Bene Occidentale e il Male in Orientale, dove vengono elencati gli errori ed orrori di questa inutile guerra (oltre alle guerre per procura, gueera al terrorismo, Siria, Yemen, Afghanistan, Libia eccc..) commessi da entrambi gli schieramenti.

    La guerra in Ucraina appare, in queste pagine, come una bancarotta totale. Per Putin, il piccolo zar con le sue parole consunte, i suoi furori ideologici medievali, è la bancarotta dell’illusione di una vittoria breve, destinata a riaffermare unilateralmente e per decreto la Potenza russa. Per Zelensky, che insegue il mito della vittoria assoluta, la bancarotta del suo Paese, destinato a una miseria e distruzione dalle quali occorreranno lustri per uscire. Per l’Occidente, la bancarotta di un conflitto iniziato senza una strategia di conclusione, se non la nuda e semplice sconfitta del nemico. Una prospettiva di certo presente nelle guerre del passato, ma a dir poco insensata in una guerra in cui esiste la possibilità, dopo l’annessione formale del Donbass alla Russia proclamata dalla Duma, di un apocalittico non ritorno.

    Attraverso pagine veementi, che mostrano la drammatica inadeguatezza di analisti, intelligence e governanti rispetto al compito che la Storia assegna loro, Quirico invita il lettore a riflettere su un conflitto in cui droni e artiglierie spazzano via in un baleno esseri viventi, giovani forti, pieni di vita e di speranze, mostrando quanto sia «fragile ed effimera la vita e quanto criminali siano coloro che per avidità, scombinate ideologie, fanatismo ci hanno costretto un’altra volta a ricordarlo». «La guerra non è mai fatale, ma sempre perduta»: così Gertrude Stein nell’esergo in apertura di questo libro. Da reporter che è stato presente sui principali fronti di guerra del nostro tempo, Domenico Quirico conosce bene la verità di questa affermazione. Ogni guerra accade per decisione deliberata. Ogni guerra è perciò, secondo l’abusata citazione di von Clausewitz, una continuazione della politica con altri mezzi che presuppone sempre una qualche strategia di conclusione.
    Ora, che cosa è la guerra in Ucraina? Una guerra di resistenza del popolo ucraino nel più generale confronto tra democrazie e tirannidi trucide? L’eterno Oriente asiatico contro l’eterno Occidente? Il tentativo di ricomporre la frattura spalancata dalla fine del comunismo e di riavviare la Storia? Oppure una colossale guerra del gas e del petrolio ben camuffata da stantii nazionalismi? E, soprattutto, qual è lo scopo della creazione di una furente opinione pubblica bellicista, propensa a dare mandato senza tentennamenti ai pochi decisori del confronto armato?

  3. > Il parallelismo tra le guerre vere e quella sanitaria poteva pure sembrare ardito, ma era un fatto: [la pandemia] l’avevamo noi stessi letta, raccontata e vissuta come un’esperienza di tipo militare.

    Ancora più della retorica, io credo che venga quotidianamente sottostimato l’impatto che chiusure dei confini, passaporti e retoriche nazionaliste (o continentaliste, al più), abbiano avuto nel rendere più accettabile la guerra in e tra stati nazionali “moderni” (ci siamo capiti).

    Ogni squallido articolo di Repubblica del 2021 titolato ”ora gli italiani preferiscono le vacanze in italia” andrebbe letto come “ora gli italiani si stanno abituando a considerare San Pietroburgo non come una meta turistica ma come la sede dell’Orco” — e naturalmente viceversa.

    Ogni congresso scientifico internazionale “su Zoom” ha minato e continua a minare la pace mondiale.

    Quando nel 1965 Bobby Fischer ebbe l’idea di partecipare via telescrivente al torneo Capablanca a Cuba, poiché era confinato a New York vedendosi rifiutato il visto da parte del governo statunitense, era ben consapevole che tale rifiuto fosse un atto di guerra.

    • Questa cosa a Trieste e ancora di più a Gorizia l’abbiamo avuta chiarissima fin da subito. Il confine è piombato improvvisamente a dividere il territorio, addirittura la città nel caso di Gorizia, come non aveva fatto mai tranne che per qualche mese nel 1947 e poi nel 1953. Tutti noi che viviamo qua al confine abbiamo in famiglia storie e aneddoti di contrabbando e di sconfinamenti illegali, per necessità o per semplice desiderio di avventura. Durante il “lockdown dell’anima” alcuni di noi hanno recuperato la “tradizione”, e ripercorso vecchie strade, le migliori, quelle che ce n’è sempre una che ti porta dove serve, per boschi, per le sconte. Altri invece, spesso “compagni”, a centinaia di km dal confine, nella ricca Padania o a Roma nord, berciavano chiedendo confini sigillati e quarantene durissimissime per chi varcava i sacri confini della patria. Non avevano niente da dire sulla circolare Piantedosi (sì, quel Piantedosi lì, all’epoca emissario di Lamorgese al confine orientale), che autorizzava la “riammissione informale” (traduzione: la deportazione in Bosnia) dei profughi sorpresi al confine, ovviamente per contrastare il contagio. E niente da dire nemmeno sulle quarantene telescopiche utilizzate per rinchiudere nei CARA a tempo inteterminato i richiedenti asilo. Non mi sono affatto sorpreso quindi a vederli ora, quei “compagni”, intossicati di geopolitica, a tifare chi per Orsini, chi per Dario Fabbri.

      • Ti ricordi quando si parlava dei trincerati che si affrontavano a colpi di ipse dixit? Ad un Burioni si rispondeva con un Montaigne’ e così via. Ed era tutto perfettamente funzionale a scappare a gambe levate dal merito delle questioni, piuttosto le diatribe erano tutte intorno alle singole persone e al loro cv, i loro score accademici. Si trattava cioè di una delle tante manifestazioni del meccanismo di polarizzazione ai due capi della quale veniva riportata qualsiasi posizione, senza mezze misure.
        Ecco, il giochetto degli ipse dixit è ricominciato. Ci sono tanti freak dichiarati – ah, pure i freak quanti ne abbiamo visti – tipo Orsini&c, ma mi pare che nel tritacarne sta finendo pure qualcuno che non se lo merita; l’ultimo in ordine di apparizione è il poro Chomsky.