Sentieri, fantasmi e parole. Irene Cecchini intervista Wu Ming 2 sulle «nuove geografie letterarie»

Frontignano di Ussita (MC), Monti Sibillini, 4 maggio 2019

«Finché parliamo di proprietà private, istituzioni o cimiteri, sembra facile stabilire un confine. Dentro/fuori. Ma già se consideriamo una vallata, una città, o lo spazio che nomino quando dico “qui”, è molto complicato deciderne l’estensione. I luoghi nascono come incroci di percorsi, e quindi sono definiti dalle linee che li attraversano, piuttosto che da quelle che li chiudono. “Abitare coscientemente un luogo” significa conoscere quegli andirivieni, ovvero i movimenti di chi lo vive, senza bisogno di una mappa – mentale o cartacea che sia. Si potrebbe dire che proprio quando inizi ad aver bisogno di una mappa, allora non appartieni più al territorio in cui cammini. Gli autoctoni sono coloro che si orientano in un luogo grazie alle storie, non alla bussola.»

Questa riflessione sui confini compare in una lunga intervista con Wu Ming 2, da poco pubblicata sul blog multilingue Liténature, piattaforma in Rete di un più vasto progetto dell’Università di Gent, dedicato all’approccio “ecopoetico” nella fiction contemporanea francese, italiana, germanofona e anglofona.

Nel dialogo con Irene Cecchini, Wu Ming 2 approfondisce molti temi legati alla produzione “geografica” del collettivo, che va dal Sentiero degli dei a Un viaggio che non promettiamo breve, passando per Cent’anni a Nordest, Il sentiero luminoso, Cantalamappa e il recentissimo Grüne Linie.

«Di recente, con il fotografo Giancarlo Barzagli, abbiamo pubblicato un libro (Grüne Linie) che racconta la resistenza antifascista sull’Appennino tosco-romagnolo, attraverso l’esplorazione di una piccola vallata, sede della 36ª Brigata Garibaldi.
Spesso ci ripetiamo che stanno morendo, una dopo l’altro, gli ultimi testimoni di quell’epopea, ma se il paesaggio è un organismo vivente, allora perché non considerarlo un testimone vivo degli avvenimenti che lo hanno plasmato? Non parlo solamente di tracce riconoscibili, perché se ci limitassimo a quelle tratteremmo il paesaggio come un oggetto, un testo che attende la nostra interpretazione e acquista significato solo quando lo rivestiamo con una coperta culturale, estratta dalle nostre menti. Questo atteggiamento è il contrario di una qualunque prospettiva ecologica. Ritengo invece che si possa conoscere il paesaggio come si conosce un’altra persona. Per farlo, è senz’altro importante capire la sua lingua, ma molto di più passa attraverso l’empatia, lo stare insieme, il rispondere alla presenza dell’altro. Siamo abituati a rapportarci al paesaggio in termini per lo più visivi, dimenticando che camminare in un luogo significa toccarlo ad ogni passo. Il piede risponde alle sollecitazioni di un terreno che è stato modellato dal viavai di moltissimi essere viventi, in epoche diverse. In questo senso, il passato di un territorio è molto più che una semplice iscrizione, che posso leggere se conosco quell’alfabeto. E’ un passato presente. Incide sul mio modo di abitare, e ne rimane inciso.»

Dopo aver parlato di fantasmi, “riabitazione”, cammini e turismo, Wu Ming 2 affronta anche la questione della “lentezza” e annuncia il suo prossimo lavoro nelle terre dell’Alta Velocità ferroviaria.

«La questione della lentezza è centrale per molti motivi: anzitutto, pone il camminare in continuità con le lotte che si agitano nella pancia del capitalismo, dalla rivoluzione industriale fino ai nostri giorni, e che sono, alla radice, lotte per sottrarsi a un tempo imposto, a un tempo omogeneo, a un tempo che cancella altri tempi – altre forme di vita. Al tempo del produci/consuma/crepa, al tempo della fabbrica e dei “tempi moderni”; in secondo luogo perché ribadisce, con un esempio pratico, che è il tempo – e non lo spazio – la dimensione più implicata nell’attaccamento a un luogo. Questo può sembrare paradossale, eppure camminando lo sperimentiamo bene. Come scrivevo prima, chi conosce un territorio non ha bisogno di mappe, cioè di rappresentazioni spaziali. Non ha bisogno di guardare dall’alto, di assumere il punto di vista di Dio, o di un satellite. Sperimenta un’onniscienza diversa, dal basso. Orizzontale, non verticale. Basata sull’accumulazione e non sulla visione d’insieme. Chi ha questa conoscenza si muove nello spazio grazie alle storie: sa come andare da A a B perché ci è andato molte volte, e ha conservato un ricordo di quel movimento. Sa dove si trova perché sa raccontare i percorsi che da lì partono e lì arrivano, a prescindere dalla sua capacità di collocarli in una rappresentazione spaziale. Ma se la sua conoscenza è di questo tipo – storie, non mappe – allora è una conoscenza temporale, perché le storie hanno a che fare con il tempo, sono diacroniche, mentre le mappe sono sincroniche.
[…]
Dopo Bologna – Firenze e Bologna – Milano vorrei andare da Milano a Torino, ma questa volta senza mappe, senza bussole, orientandomi soltanto con il paesaggio e dormendo dove capita, per interrogarmi sull’idea di casa attraverso l’esperienza opposta: quella di muoversi senza punti di riferimento in una terra straniera. La casa, negli ultimi anni, è una metafora politica molto abusata, e si sentono ripetere di continuo espressioni come “a casa nostra”, “a casa loro”, “a casa!”. Se camminare è già un modo per farsi una casa nel mondo, voglio capire meglio come succede e come si può evitare che il senso di attaccamento ad un luogo diventi una forza reazionaria, alleata dell’eterno fascismo.»

L’intervista integrale, a cura di Irene Cecchini, si può leggere qui.

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