Oltre il debunking, ovvero: Perché coinvolgere un prestigiatore nel dibattito sulle fake news?

Anonimo, «Napoleone come illusionista», s.d. [~1802].

di Mariano Tomatis

[Domenica 22 aprile 2018 Mariano Tomatis ha messo in scena una presentazione-spettacolo al Festival letterario Eterotopie #2 organizzato allo Spazio Comune Autogestito TNT di Jesi dalla libreria indipendente Sabot. I tre giorni del festival (20-22 aprile 2018) – cui hanno partecipato tra gli altri Leonardo Bianchi (La gente, 2017) e Alessandro Lolli (La guerra dei meme, 2018) – erano dedicati al rapporto tra verità e nuovi media nell’epoca della «post-verità» e delle «fake news». Nel corso del suo intervento, pubblicato di seguito nella sua versione annotata, Mariano ha ripreso alcuni temi introdotti nel post Esiste un “inganno etico”? (pubblicato sul blog di Quinto Tipo il 23 aprile scorso) e presentato due libri di cui ha recentemente curato la riedizione: Il visionario (1789) di Friedrich Schiller e Roc Maol e Mompantero (1897) di Matilde Dell’Oro Hermil.
Nel corso dell’incontro Mariano ha presentato tre numeri di illusionismo, sotto riassunti in altrettante brevi parentetiche; non è come vederli dal vivo, ma sul blog Barricate di carta è possibile riascoltarne la traccia audio comprensiva dell’introduzione di Giovanni Cacciani.]

Perché coinvolgere un prestigiatore nel dibattito sulle fake news? Per illustrarlo, prendo a prestito un articolo di Christian Raimo uscito sull’edizione online di Internazionale. Forse ricorderete quello sciamano che a Roma, in piazza San Giovanni, aveva promesso di sconfiggere il cancro entro il 2013. Raimo parte da quella sparata per metterne in luce la strategia comunicativa sottostante.

Quando la comunicazione politica è satura di annunci del genere,

quello che conta […] non è mai il messaggio in sé ma – in una perversione del piano performativo – l’effetto. L’effetto sostituisce il significato. Per questo ha senso pronunciare una balla colossale e venire smentiti il giorno successivo: il significato di quella notizia sarà corrispondente alla differenza tra coloro che hanno ascoltato la notizia ma non la smentita. […] L’effetto s’impone come significato. (1)

Lo slogan «Quello che conta è l’effetto» mi provoca un dejà vu perché è anche la regola numero uno dell’illusionismo. Non a caso, quello che il pubblico chiama «numero di magia» nel gergo dei prestigiatori si chiama «effetto». Nello specifico, l’effetto che vuole evocare il prestigiatore è l’effetto magico. Compito del prestigiatore è creare l’impressione che succeda qualcosa di magico, con ogni mezzo necessario.

Aprite un’antologia di giochi di prestigio e vedrete che ogni capitolo è diviso in tre parti: l’effetto, la presentazione e il trucco. Il trucco è quello che succede davvero ma deve restare nascosto; la presentazione è la cornice narrativa della performance mentre l’effetto è l’aspetto sconcertante di ciò che avviene ed è ciò che il pubblico percepisce. La magia si sprigiona quando trucco ed effetto sono alla massima distanza; ecco perché conoscere o intravedere il trucco rovina l’esperienza. Da secoli l’arte magica mette a punto bugie sempre più sofisticate e impercettibili in grado di creare effetti sorprendenti e misteriosi.

Per consentirvi di vivere in prima persona quella esperienza, ho portato un mazzo di carte.

[Mariano presenta l’effetto di lettura del pensiero descritto nel capitolo «L’aura» del libro Te lo leggo nella mente (2013). A sinistra, Giovanni Cacciani.]

Quello che avete visto è in gran parte falso, ma se ho lavorato bene, il confine tra vero e falso non è chiarissimo. L’effetto che cerco di creare non ha niente a che vedere con la realtà. In superficie, un esercizio del genere dimostra che sono in grado di leggere i segnali del corpo in modo particolarmente raffinato. In realtà sto sfruttando un trucco descritto in un libro del 1593. Chi volesse impararlo lo trova nel mio libro Te lo leggo nella mente.

Si parla di «illusionismo» perché ciò che viene percepito è, appunto, illusorio: in ambito teatrale, chiamiamo illusionista chiunque ricavi un’esperienza estetica dallo scostamento tra la verità di ciò che accade e ciò che viene percepito. Quando andiamo a vedere un mago, gli concediamo di mentirci perché – quando è bravo – ne ricaviamo un’esperienza di meraviglia. Come scriveva Karl Germain, «quella dell’illusionista è l’unica professione onesta: promette di ingannarti e lo fa». Con i prestigiatori instauriamo lo stesso patto finzionale che ci fa piangere al cinema, dove – pur sapendo che Leonardo Di Caprio non muore tra i ghiacci – lasciamo che la cornice narrativa agisca su di noi dal punto di vista emotivo. Quando è fatta bene, la fiction è un tipico caso di bugia dagli esiti terribilmente autentici.

Togliete all’illusionista l’esperienza estetica e avrete Salvini, Grillo e Trump. Anche loro si muovono su un palcoscenico, ma l’obiettivo delle loro bugie è creare consenso, manipolare le coscienze, rimuovere le contraddizioni e offrire nemici facili da riconoscere. A rendere velenoso il tutto è che, nel loro caso, non c’è alcun patto con il pubblico: l’esistenza di un trucco, di una consapevole manipolazione della realtà, resta nascosta. Non a caso da tempo si usa la metafora del prestigiatore per riferirsi ad alcuni personaggi politici: l’immagine del mago mette a nudo l’aspetto ingannevole e illusorio di una comunicazione basata sulla attiva distorsione della verità.

All’inizio dell’Ottocento, molte vignette satiriche ritraggono Napoleone nei panni di un prestigiatore. In un’incisione del 1802, si esibisce davanti al pubblico nel classico gioco dei bussolotti usando – al posto dei bicchieri – delle piramidi.

Per nascondere le mosse sospette, Napoleone acceca gli spettatori buttando loro della sabbia negli occhi; il riferimento è alla campagna d’Egitto, una manovra che è servita per distrarre l’opinione pubblica dal colpo di stato che lo farà diventare Primo Console. Nel nostro paese accade a Cavour, ritratto accanto a Bartolomeo Bosco, il più grande illusionista dell’epoca: sono entrambi torinesi, ma mentre il secondo fa sparire delle palline sotto i bussolotti, l’altro fa sparire i fondi pubblici. [2]

Uno degli accostamenti più sofisticati tra illusionismo e politica si deve a Thomas Mann. Nel 1926, mentre è in vacanza a Forte dei Marmi, lo scrittore assiste allo spettacolo di un mentalista e ne resta impressionato. Il modo in cui l’ipnotizzatore Cesare Gabrielli manipola il pubblico e ne soggioga la volontà gli ricorda la figura di Mussolini e l’inquietante accostamento è alla base del racconto Mario e il mago, un cupo resoconto autobiografico della vicenda pubblicato quattro anni dopo.

Se vogliamo evitare la pistola che Mario scarica addosso al mago fascista, quali antidoti abbiamo contro questi illusionisti?

A un primo livello, una pratica virtuosa è quella del debunking: l’analisi e il disvelamento pubblico dei trucchi retorici impiegati dai manipolatori della verità. Una guida imprescindibile l’ha pubblicata recentemente il collettivo Nicoletta Bourbaki, un gruppo di ricerca sui falsi storici nato nell’alveo della Wu Ming Foundation. Si intitola Questo chi lo dice? E perché? Per illustrarne gli intenti, Wu Ming cita la contrarietà di Marx agli illusionismi [3]:

Ho curato con Fabio Camilletti la riedizione de Il visionario di Friedrich Schiller perché è un libro che offre un contributo eccezionale al dibattito sul rapporto tra illusionismo, politica e letteratura. Questo romanzo è tante cose insieme. Esce nel 1789, un anno chiave per le vicende politiche europee. È il primo capolavoro del gotico tedesco, ed è – tra le altre cose – un libro di debunking.

Scrivendolo, Schiller ha in mente i politici tedeschi come il principe Carlo di Sassonia. Quando muore suo zio, il principe Carlo si convince che il defunto abbia nascosto da qualche parte un’enorme eredità. Ad approfittare della situazione è un mago: Johann Schröpfer si presenta come un necromante e organizza una seduta spiritica durante la quale il fantasma dello zio rivela il nascondiglio. Quello che va in scena è, ovviamente, un sofisticato spettacolo di illusionismo – che però viene presentato come autentico fenomeno medianico.

Nell’epoca di Voltaire e degli illuministi, Schiller è sconcertato dalla credulità del principe e preoccupato all’idea che le sorti del suo Paese siano in mano a individui manipolabili tanto facilmente. La preoccupazione è comprensibile: chiamiamo Età della Ragione quella emersa dall’Illuminismo, ma le vicende umane continuano a essere dominate da spinte e forze irrazionali.

Schiller fa le sue indagini, scopre i trucchi con cui Schröpfer fa apparire i fantasmi accreditandosi poteri paranormali e decide di scriverne un libro. Ma invece di pubblicare un saggio, sceglie la forma del romanzo.

L’autore tedesco sposta la scena in Italia, a Venezia, e racconta la vicenda di un principe completamente soggiogato da un necromante siciliano. Il riferimento è a Cagliostro, che in quegli anni stava seguendo la stessa parabola politico-illusionistica di Schröpfer. Nel romanzo l’illusionista mette in scena una lunga serie di prodigi che il principe attribuisce al sovrannaturale. Culmine dell’inganno è l’evocazione di un fantasma. Ad apparire è lo spirito del Marchese di Lanoy, amico del principe, morto sul punto di rivelargli un segreto terribile.

Al termine della seduta medianica la polizia arresta il siciliano e lo mette in prigione. Qui Cagliostro vuota il sacco, svelando uno per uno i trucchi con cui ha realizzato tutti quegli apparenti fenomeni paranormali. Non vi toglierò la sorpresa di scoprirli da voi, ma sono d’accordo con lo storico del cinema Gian Piero Brunetta quando scrive che – ieri come oggi – si poteva leggere Il visionario come un manuale di giochi di prestigio, contenente le istruzioni per evocare i fantasmi con il trucco. [4]  Schiller approfondisce molti dettagli tecnici, spiegando che il necromante deve allestire una stanza di cui si possano oscurare le finestre, disegnare un cerchio magico per terra per evitare che i presenti si muovano liberamente e nascondere una lanterna magica – un rudimentale proiettore a candela – per proiettare l’immagine del defunto. Usando come schermo del fumo, il fantasma sembra muoversi e ha una consistenza tridimensionale, è dotato di una strana luminescenza ma è impossibile trafiggerlo con la spada o colpirlo con un proiettile.

A sinistra: il frontespizio da Johann Samuel Halle, Fortgesetzte Magie: oder, die Zauberkräfte der Natur, Vol. 1, Bey J. Pauli, Berlino 1784 evidenzia il cerchio da non superare tracciato dal necromante e lo spettro tridimensionale che appare sul fumo. A destra: la tavola 5 da Christlieb Benedict Funk, Natürliche Magie, Bey Friedrich Nicolai, Berlino 1783 mostra il braciere con l’aspetto di una bara da cui usciva il sottile schermo di fumo su cui si proiettavano i fantasmi.

Il siciliano svela come procurarsi un ritratto del defunto per riprodurne le fattezze sul vetrino da caricare nella lanterna magica, come creare un’atmosfera orrorifica producendo artificialmente il rumore della pioggia e dei tuoni, come fare in modo che le candele si spengano da sole e come sfruttare un ventriloquo per far parlare il fantasma. La descrizione della seduta è incredibilmente accurata, e include aspetti che solo un testimone oculare può aver notato; per esempio, se – come me – provate a proiettare delle immagini sul fumo in una stanza chiusa, vi accorgete che dopo due o tre minuti l’aria è irrespirabile. Nel romanzo, il rituale si interrompe dopo qualche minuto quando si spalanca una porta all’improvviso.

«La sala ritornò chiara come prima» [5]

commenta l’autore, ed entra un uomo in carne e ossa, vestito come il fantasma, che si sostituisce alla proiezione. L’ingresso dell’attore ha il duplice scopo di cambiare l’aria e rendere più semplice la conversazione dello spirito con i presenti.

Ma se Schiller avesse voluto fare solo debunking, avrebbe scritto un saggio. La forma romanzo gli consente di confondere il lettore in modo sottile, trasformando il libro stesso in un gioco di prestigio. Mentre il siciliano svela i trucchi usati, ci coglie il sospetto che la spiegazione non sia esaustiva. Come fa notare Fabio nell’introduzione, Schiller ci mette davanti al paradosso del mentitore [6] : possiamo credere a chi dice «sto mentendo»? Cagliostro dice la verità quando spiega l’inganno? È un testimone affidabile? Diverse cose non tornano, la spiegazione dei trucchi non è esaustiva, e scopriamo che il siciliano è manovrato da un personaggio che sembra davvero dotato di poteri paranormali. E dietro questo personaggio c’è una strana setta, i cui riti in maschera ricordano quelli di Eyes Wide Shut. Il visionario richiama – nelle atmosfere – l’onirismo dell’ultimo film di Kubrick ed è un antenato di pellicole come The Prestige o Now You See Me, il cui regista si comporta da prestigiatore tanto quanto i protagonisti.

Stanley Kubrick, Eyes Wide Shut, 1999 (fotogramma).

L’operazione di Schiller è sofisticata, perché non si ferma al debunking: il romanzo è una vera e propria macchina per coltivare il dubbio nel lettore, allenandolo a non fidarsi di alcuna autorità – neppure quella dell’autore.

L’idea di fornire una spiegazione razionale incompleta è un tratto tipico dell’illusionismo del Settecento. Ho portato con me questa houlette per illustrarvi praticamente questa interessante dinamica.

[Mariano presenta una “houlette per carte da gioco”, una macchina concepita nel Settecento il cui bizzarro funzionamento resta inspiegabile anche dopo che ne viene svelata la sofisticata meccanica.]

Per me, illusionista, l’equilibrio tra lo svelare un trucco e conservare la meraviglia è un argomento cruciale. Per spiegarmi meglio, prendo spesso a prestito due termini che descrivono i fan del wrestling: Mark e Smart. I Mark prendono per vero tutto quello che accade dentro e fuori il ring: le botte, gli insulti, le rivalità tra gli atleti, i siparietti dietro le quinte. Per loro, il wrestling è uno sport che premia il perfetto mix tra muscoli, agilità e astuzia. Il fatto di chiamare «mark» i più ingenui deriva dal mondo delle fiere: quando qualcuno si lasciava abbindolare da qualche scommessa-truffa come il gioco delle tre carte, veniva segretamente marchiato con del gesso sulla spalla, in modo che gli altri ciarlatani potessero riconoscerlo e infierire.

Gli Smart sono più avveduti: considerano il wrestling uno spettacolo messo in scena da attori/stuntmen, che recitano una parte in una trama messa a punto da un team di autori. Secondo loro il wrestling è una forma di intrattenimento senza alcuna vera competitività.

La terza categoria, la mia preferita, è quella degli Smark, che prende il meglio dalle altre due. È Smark chi riesce a godere pienamente dello spettacolo pur sapendo che si tratta di una messa in scena.

Diventare Smark richiede un certo impegno: si tratta di coltivare una “credulità distaccata” ed è tutto un gioco di acceleratore, frizione e freno. E si tratta di un’attitudine intorno alla quale ci si interroga anche tra autori. Il dibattito di questi giorni intorno alla non fiction novel è tutto incentrato sulle questioni etiche sollevate dalla possibilità di fare inchiesta intrecciando realtà e finzione, fornendo al lettore gli strumenti per intuire dove finisca l’una e inizi l’altra. Il blog Quinto Tipo dell’editore Alegre sta ospitando una serie di contributi sull’argomento, che hanno preso il via da una recensione del libro 108 metri di Alberto Prunetti. Wu Ming 1 chiama «mostrare la sutura» la pratica di disseminare nel testo degli elementi «marcatori» che permettano a chi legge di capire il lavoro fatto, di cogliere e seguire i passaggi da un registro all’altro.

Riflessioni sull’argomento si facevano già all’epoca di Schiller. In un libro di giochi di prestigio del 1786 Henri Decremps spiega come improvvisare lunghe poesie in versi – come nel moderno poetry slam. Il metodo consisteva nel ricombinare una serie di moduli imparati a memoria (i cosiddetti passe-partout) fingendo di comporre i testi sul momento. Lo stratagemma consente di simulare doti di improvvisazione molto maggiori di quelle effettive – almeno agli occhi degli spettatori ignari della tecnica. Ma cosa si risponde a chi, conoscendo il trucco, chiede apertamente: «Usi i passe-partout per improvvisare?»

Alcuni passe-partout proposti da Henri Decremps nel suo manuale di trucchi «che si possono eseguire senza spesa alcuna», tra cui quelli relativi all’arte «di comporre canzoni impromptu». Frontespizio e pp. 294 e 296 da Henri Decremps, Testament de Jérome Sharp pour servir de complement à la magie blanche dévoilée, Parigi 1786.

Il libro affronta la questione in modo non banale, riconoscendo che si tratta di una domanda imbarazzante. Come si mostra la sutura, come si svela il trucco senza rovinare l’esperienza complessiva?

L’autore sconsiglia sia di ammetterlo, sia di negarlo. Nel primo caso il performer

rovinerebbe il piacere dell’illusione in chi è ormai disposto a riconoscergli doti eccezionali. (7)

Se però negasse di usare quel trucco,

rischierebbe di creare disappunto negli spettatori più colti, consapevoli che è impossibile comporre versi in quel modo senza usare strutture linguistiche pronte all’uso. [8]

La via d’uscita è un sapiente modo di salvare capra e cavoli: l’artista deve dire la verità in versi, ammettendo di usare i passe-partout ma fingendo di improvvisare anche in occasione della confessione – dove in realtà recita un testo in rima memorizzato in precedenza. La performance produce due effetti diversi: gli spettatori più avveduti apprezzano la sincerità e l’originale modalità dell’ammissione; gli altri sentono l’ennesima risposta in versi a una domanda imprevista e ne interpretano il contenuto come una replica ironica. La risposta in rima dimostra, alle orecchie di questi ultimi, l’esatto contrario di quanto afferma – come quando si dice «Sì… sì…» in tono sarcastico, con l’intenzione di negare qualcosa.

Questa idea di “dire la verità in versi” mi sembrava la chiave giusta per affrontare il secondo libro della serata – a prima vista, qualcosa di completamente diverso dal Visionario: un libro di montagna uscito un secolo più tardi. Questa pietra vi consentirà di intuire la continuità che esiste tra i due testi.

Pietra del Rocciamelone (Valsusa, Piemonte).

Si tratta di un pezzo del Rocciamelone, la montagna più alta della Valsusa; un luogo dove

«tutta la terra ed ogni roccia pare solcata e imbevuta di potenza occulta e magnetica, abitata come fu da una razza dotata di facoltà strane ereditate e esercitate a lungo.» [9]

Come avrebbe fatto Cagliostro, proviamo a sfruttarne il magnetismo per far accadere qualcosa di impossibile.

[Mariano presenta un effetto di chiaroveggenza basato sulle doti psicomagnetiche stimolate dalla pietra del Rocciamelone.]

Nel 1897 una nobildonna di Susa, Matilde Dell’Oro Hermil, pubblica Roc Maol e Mompantero, un saggio su tradizioni, costumi e leggende della Valsusa. «Roc Maol» è il vecchio nome del Rocciamelone. Mompantero è uno dei comuni che si trovano sulle sue pendici. Il libro viene stampato in poche copie e ha una circolazione molto limitata.

Sarebbe destinato all’oblio ma, negli Anni Settanta, un’associazione di appassionati di dischi volanti, il Gruppo Clypeus, lo ristampa come numero monografico della propria rivista.

Da quel momento diventa un piccolo libro-culto nell’underground ufologico ed esoterico piemontese. Il motivo è presto detto. Cercando di isolare l’elemento che fa di un’opera letteraria un libro-culto, Umberto Eco lo identifica nella «sgangherabilità»: testi come la Bibbia, la Divina Commedia e Il Signore degli Anelli presentano una tale molteplicità di storie, personaggi e registri narrativi da poter essere smontati, studiati alla ricerca di codici nascosti, saccheggiati per farne spin-off e riassemblati in mille modi diversi.

Il libro mi finisce in mano nei primi Anni Duemila, mentre consulto gli archivi del Centro Italiano Studi Ufologici, e la sua sgangheratezza mi salta subito all’occhio: Roc Maol e Mompantero mescola – senza alcun rigore metodologico – evidenze archeologiche, leggende, simboli esoterici, cronache medievali, astrologia, magnetismo, alchimia…. L’autrice vi fa confluire imperatori e contadini, empirici e maghi, professori e ciarlatani, dai frati dell’Abbazia di Novalesa a Dante Alighieri, dalle streghe del Pampalù a Victor Hugo. Il libro traccia percorsi che tengono insieme fantasmi, folletti, UFO ante litteram, apparizioni sinistre, metalli preziosi e portali interdimensionali.

Uno degli elementi del libro di cui si parla ancora oggi in Valsusa è la cosiddetta «città di Rama»: un insediamento ricco e tecnologicamente avanzato, che usava la cima del Rocciamelone come forziere dei suoi tesori e che si sarebbe inabissato misteriosamente, proprio come l’Atlantide. Se fate qualche escursione intorno a Susa può capitarvi di incontrare persone che cercano nei boschi rovine e manufatti dell’antica città di Rama.

L’elemento più spiazzante è il realismo magico che trasuda dalle pagine del libro: le sue vicende non sono ambientate in una terra di mezzo di fantasia, ma a pochi chilometri da casa mia. I protagonisti delle varie storie hanno un nome e un cognome, l’autrice spiega dove abitano con una precisione che ricorda la scritta che apre tanti film dell’orrore: «Tratto da una storia vera».

Un libro del genere si prestava a un lavoro di debunking sistematico: la città di Rama non è mai esistita, il contadino che ha visto il fantasma era ubriaco, la leggenda sulla strega del Pampalù è una fake news, eccetera. Non ero interessato a questo approccio.

Roc Maol e Mompantero mi sembrava il perfetto tapis roulant su cui allenare l’attitudine Smark, ma per farlo funzionare non bastava ripubblicarlo così com’è. Da qui l’idea di affrontarlo in tre.

A sinistra: Mariano Tomatis, Davide Gastaldo, Filo Sottile, Il codice Dell’Oro. Sulle tracce del Rocciamelone, Tabor, Valsusa 2018. A destra: Matilde Dell’Oro Hermil, Roc Maol e Mompantero, Torino, 1897.

Con Davide Gastaldo e Filo Sottile abbiamo scritto Il codice Dell’Oro, una serie di cornici che facilitassero un approccio di credulità distaccata al lavoro della Hermil. Ognuno con la propria sensibilità e da un punto di vista diverso. Davide vive a Mompantero ed è l’autoctono, l’unico che può cogliere certe sfumature nel testo. Avendo vissuto in prima persona il terribile incendio che lo scorso ottobre ha devastato la zona, gli vengono i brividi quando legge del drago di fuoco che – secondo la tradizione locale – avrebbe disegnato i fianchi del Rocciamelone in tempi antichissimi. Il disastro ci ha spinto ancora di più a riproporre un libro che ci consentisse di far conoscere Mompantero in giro per l’Italia.

Filo si interroga sulla possibilità di usare il paranormale, il bizzarro e l’alieno per sfidare ciò che ogni giorno ci viene propinato come “normale”. In Valsusa è normale che si proceda alla realizzazione di una grande opera come il TAV, anche quando tutti sono d’accordo sul fatto che è perfettamente inutile e nulla ne giustifica i costi esorbitanti, usando come unico argomento che ormai si è iniziata. In Valsusa è normale che una coppia venga fermata sul confine perché non ha i documenti, la donna perda il bambino che ha in grembo e un uomo venga arrestato con l’accusa di aver aiutato un’altra donna a partorire oltre confine. In Valsusa è normale riproporsi per organizzare le Olimpiadi Invernali 2026 dopo che l’edizione del 2006 ha lasciato un buco di bilancio mostruoso. Se tutto questo è normale, mirare al paranormale non è follia. Come si esortava a fare nel Sessantotto, per essere realisti non solo possiamo ma dobbiamo chiedere l’impossibile.

Io ho trovato stimolante la sfida di affrontare un autore a tratti ripugnante come Matilde Hermil. In alcuni passaggi la signora esprime simpatie proto-naziste, si dichiara apertamente razzista verso mori e saraceni e l’intero libro caldeggia il ritorno a un passato mitico dove a Mompantero tutto funzionava perché i treni arrivavano in orario, non c’era la droga e non si dicevano parolacce. Hermil era seguace di Saint Yves d’Alveydre, teorico della sinarchia – una dottrina politica antitetica rispetto all’anarchia, che auspica una società a caste, basata su un rigido sistema di regole, su un capillare controllo di polizia e sulla totale immobilità sociale. L’idea di rimettere in circolazione farneticazioni del genere non ci faceva dormire sonni tranquilli. Come si evita che retoriche del genere possano stimolare nostalgia ed emulazione, in un’epoca di revival di organizzazioni neofasciste e in una valle già pesantemente militarizzata?

Un modo è quello di far polemizzare l’autrice con se stessa, facendo esplodere le contraddizioni in seno al suo sentire politico. C’è un elemento autobiografico nel mio lavoro. Mio nonno ha fatto la guerra in Valsusa, e come tanti reduci, non è mai riuscito a raccontarne gli orrori. C’era in lui un’urgenza narrativa che non ha mai trovato sfogo. Più volte l’ho sentito dire che avrebbe voluto la capacità di espressione di uno scrittore, perché una rielaborazione narrativa l’avrebbe liberato da molti demoni.

A sinistra: Giovanni Cacciani. A destra: Mariano Tomatis legge un brano di Matilde Dell’Oro Hermil.

A me spiace che sia morto senza conoscere le pagine che Matilde Hermil ha dedicato agli orrori della vita militare valsusina. L’autrice riecheggia l’isolamento di Jack Torrance in Shining quando descrive l’esperienza dei soldati al fronte:

«[Lo vedete] l’elegante ufficiale della città, lindo, attillato, apparentemente leggero e spensierato, bel parlatore in salotto o sorridente alle giovani bellezze, trasformato qui in […] prigioniero […] in lotta col gelo, coll’umido, colla nebbia, col fumo della stufa, sgangherata, colla scarsezza o lontananza dell’acqua, per cui bisogna talvolta accontentarsi dell’acqua piovana o della neve sciolta; coi facili guasti alla casetta e alle strade e ai difficili mezzi di riattamento; colla nostalgia della vita, del movimento, della famiglia, […] della civiltà. Tutto intorno è l’abisso, la solitudine, la segregazione completa da tutti i suoi simili, lo spazio che quasi schiaccia in alto, trascina al basso, manca dappresso e sotto ai piedi; la vita vi è come il luogo: aspra, arida, monotona, con culmini acuti e vuoti, incolmabili paurosi; è stagnante sul luogo, è faticosa ad occorrenza, ad ogni mossa per ogni cosa. […] È troppo, fuggirebbero anche i lupi.» (10)

Se riesci al contempo a sostenere la Sinarchia e nutrire orrore per questa vita, quello che ti sfugge è che una è figlia dell’altra.

L’altro modo che ho usato per bonificare gli aspetti velenosi del libro fa appello all’illusionismo. «Illudere» deriva dal latino in-ludere, dove «in» è un rafforzativo e «ludere» è l’atto di giocare, di scherzare. Da appassionato della saga di Indiana Jones e degli enigmi storici à la Dan Brown, ho trovato nel libro un potenziale ludico ed enigmistico. Il mio contributo si sviluppa intorno a una domanda abbastanza insolita: Roc Maol e Mompantero è, in realtà, una mappa del tesoro cifrata?

Non scendo nei dettagli per non rovinare il piacere della lettura, ma il fatto di virare il libro su un gioco di ruolo alpinistico è un modo obliquo di profanarne la solennità e farlo a pezzi per poterlo ricostruire in mille modi diversi.

Questo era il tipo di debunking che ci premeva fare: portare a galla la cornice ideologica dell’operazione Hermil, farne esplodere le contraddizioni e sperimentare il Gioco e l’Immaginario come strumenti di lotta politica. Se ci siamo riusciti, lo giudicherete voi.

Lettura consigliata

Nel suo articolo “Apologia del complotto” (Not, 5 febbraio 2018) Alessandro Lolli analizza la possibilità che il debunking si traduca in un’acritica accettazione delle narrazioni ufficiali.

Note

1. Christian Raimo, «Un antidoto al veleno della post-verità», Internazionale online, 21.1.2017.

2. «Simile al celebre prestidigitatore Bosco, che appunto nel maggio 1860 dava spettacolo in Torino, anche il Cavour dimostra una destrezza impareggiabile di mano. I ducati dell’Italia centrale, Savoia, Nizza, la Toscana, i portafogli ministeriali, le note diplomatiche… ecco gli arnesi su cui egli spiega la sua valentìa di prestidigitatore» in Augusto Ferrero, Caricature di Teja, Roux e Viarengo, Torino 1900, p. 16.
3. Wu Ming, tweet del 6.3.2018 (link) che cita Karl Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, 1843.
4. «Come non pensare che, per molto tempo, Il visionario non fosse il livre de chevet del giovane aspirante mago, che voleva muoversi nello stesso spirito di Schiller, tra fascinazione e desiderio di smascheramento?» in Gian Piero Brunetta, Il viaggio dell’icononauta, Marsilio, Venezia 1997, p. 314.
5. Friedrich Schiller, Il visionario, Nova Delphi, Roma 2017, p. 58.
6. Fabio Camilletti in Schiller 2017, p. 29.
7. Henri Decremps, Testament de Jérome Sharp pour servir de complement à la magie blanche dévoilée, Chez l’Auteur, Paris 1793 (I ed. 1786), p. 249.
8. Ibidem.
9. Matilde Dell’Oro Hermil, Roc Maol e Mompantero, Edizioni Tabor, Valsusa 2018, p. 12.
10. Matilde Dell’Oro Hermil, «Vita alpina militare» in La vita italiana, N. 17, 10.7.1895, p. 460.

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3 commenti su “Oltre il debunking, ovvero: Perché coinvolgere un prestigiatore nel dibattito sulle fake news?

  1. […] h. 10 – Camminata con Davide Gastaldo e Mariano Tomatis, autori del libro Il codice Dell’Oro (Tabor 2018). Partenza da Venaus in direzione […]

  2. […] usate in modo consapevole per sostenere una causa giusta. Poi, intendiamoci: ho imparato grazie all’attività di alcuni pensatori davvero acuti che l’analisi di una notizia falsa non può fermarsi al debunking (ed è per questo che non […]

  3. […] Cosa si può fare allora? Wu Ming 1 propone il “debunking aumentato”, che ricalca in parte le controinchieste che erano state fatte per i satanisti: svelarne i trucchi del complotto, come fa il prestidigitatore. […]