«Volodja», di Wu Ming 1. Testo, audio, intervista e link assortiti

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Quest'autunno cambia il mondo

Wu Ming 1 legge Volodja alla “Casa nel parco” di Mirafiori Sud, Torino, 12 novembre 2011 (18’04”)
Wu Ming legge Volodja alla “Casa nel parco” di Mirafiori Sud, Torino, 12 novembre 2011 (18’04”)

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Per [gli operai] la poesia perde fatalmente ogni significato. Non resta loro che il linguaggio. I padroni non gliel’hanno tolto, hanno troppo bisogno che lo conservino, ma l’hanno castrato per privarlo di ogni velleità d’evocazione poetica, riducendolo al linguaggio degenerato del «dare» e dell’«avere».
Benjamin Péret, «La parola a Péret», 1943

[…] Obiettivamente | descriverò un uomo | del sistema: | il «burocrate». | In cima la calvizie, | in basso i talloni, | insomma un organismo come un altro. | Ma dentro | al posto della voce ha | un apparecchio per il conio |  di alcune locuzioni.
Vladimir Majakovskij, «Uomini artificiali», 1926

B. B. Маяковский

B. B. Маяковский

 

Le giornate furono diverse, dopo che il poeta si accampò in fabbrica. Che tra l’altro, esattamente dove si accampò non lo sa nessuno, non lo sapeva nessuno nemmeno allora, potevi al massimo tirare a indovinare, comunque non c’erano dubbi sul fatto che dormisse in fabbrica, gettato in qualche anfratto o sgabuzzino, o in una stanza chiusa da chissà quanto, qualche angolo dimenticato da tutti… Doveva per forza dormire lì, perché nessuno lo aveva mai visto entrare o uscire. Invece, sbucava nei reparti a ogni turno, di giorno e di notte, con la giacca stazzonata, la camicia gialla che si potevano sbirciare gli aloni di sudore sotto le ascelle, tutto spettinato, la barba ormai di molti giorni. Pareva un accattone, un vagabondo, ma con un bel portamento. Delle volte sbucava da un sottopassaggio, può darsi che dormisse là, perché lungo quei cunicoli ci sono delle porte che chissà cosa c’è dietro. Ad ogni modo, si piantava dove tutti potessero vederlo e declamava, declamava, declamava e, gira che ti rigira, prima o poi passava in tutte le sezioni. Aveva una voce squassante. All’inizio lo avevano preso per matto, gli avevano chiesto: – Ma tu chi sei?
Aveva risposto di chiamarsi «Valodia», «Volodia», una cosa del genere.
– Strano cognome che c’hai, cos’è, gallurese?, di certo non calabrese, e comunque, compagno, ci fa piacere quello che dici però dài, non stare a fare il matto, taglia la corda prima che ti caccino a pedate.
Lui però aveva detto:  – Tranquilli, non mi possono vedere.
E noi: – Come sarebbe a dire, non ti possono vedere?
Eppure era vero! Lo vedevano e sentivano soltanto gli operai, non importava il cosa e il dove: lo vedevano i gruisti, i carrellisti, quelli delle Presse, quelli dei torni, della Lastroferratura… Ma solo gli operai, non i capi squadra, non i capi reparto, men che meno i capiofficina e i guardioni, figurarsi i pezzi più grossi, che comunque non li vedevi quasi mai. E nemmeno quegli impiegati della palazzina che ogni tanto passavano con fasci di carte, di corsa, perdendo graffette (cazzo, me le ricordo quelle graffette, stavano ovunque: sul pavimento, dietro le porte, sotto le scarpe).
Nemmeno i crumiri vedevano Volodia, benché fossero operai pure loro. Insomma, tagliamo la testa al toro: Volodia lo vedevano e sentivano soltanto i compagni, per giunta senza distinzioni settarie: sindacato ma non necessariamente, PSIUP, gruppettari (non ricordo se li chiamavamo già così), filocinesi (qualcuno li chiamava già «emme-elle») e perfino Ameduri, che si definiva «libero pensatore», e Bovenzi, che mezzo scherzando si diceva un «comunista generico», cioè senza sigle. Gli altri non vedevano Volodia perché non era nel loro mondo, punto. In fabbrica ci sono due mondi, mica uno, e Volodia era nel nostro.
Se c’era una «zona grigia»? Operai che non erano compagni né merde? Ma certo! Solo che, quando si va – anzi, si torna – al dunque, ma davvero davvero al dunque, il mondo si divide in due: ci sono gli sfruttati, e ci sono gli sfruttatori. Noi lo abbiamo capito più tardi, che Volodia era lì perché il mondo della fabbrica tornava al dunque. Volodia era venuto a dividere il mondo in due. E il sintomo era: qualcuno lo vedeva, qualcun altro invece no.
Una volta, addirittura, quella merda di Pirasto, un feldmaresciallo dell’Officina 22, era passato attraverso Volodia, come se il poeta fosse fatto di vapore. Era diventato evanescente per una frazione di secondo, poi, quando Pirasto lo aveva superato, era tornato come prima. E pareva che manco lui se ne fosse accorto, perché non aveva perso una battuta del poema, stava dicendo: Anche Lenin / ha cominciato / dall’ABC, e fai conto che Pirasto gli è passato in mezzo fra l’A e la B. Quel giorno lì, devono esserci rimasti a bocca aperta – si fa per dire – anche i pistoni e gli alberi motore.
Siccome all’inizio una delle domande era: – Ma dov’è che mangia, quello lì? («quello lì» nel senso di Volodia, non di Pirasto), perché di certo non veniva alla mensa, bene, dopo quell’episodio di Pirasto l’abbiamo capito che Volodia stava nel nostro mondo ma non proprio come ci stavamo noi. Lui veniva nel nostro mondo, e non andava in quello dei padroni e dei leccaculi, ma diciamo che… Insomma, era nel nostro mondo, non del nostro mondo. Quindi, secondo noi non aveva proprio bisogno di mangiare. Cos’è che hai detto? Ah, sì… Eh, forse. Noi quella parola lì non l’abbiamo mai usata, «spirito». Gli operai non parlano degli spiriti, o almeno non a quei tempi. Gli spiriti son roba da borghesi che fanno le sedute spiritiche, fanno ballare i tavoli e tutte quelle robe lì. Al massimo, una volta, ho sentito un tornitore che diceva «fantasma», ma lo stava dicendo a un compagno che era molto dimagrito, gli diceva: – Pari un fantasma, pari, ma mangi?
Comunque dicevo: le giornate furono diverse dopo che Volodia si accampò a Mirafiori (che poi lo siamo venuti a sapere dopo, che «Volodia» in russo è il diminutivo di Vladimiro).

Victor Sklovskij

Stanotte ho sognato Victor Sklovskij. Eravamo a Norderney, vestiti di chiaro, sulla spiaggia. Il mare invitava a viaggi primordiali, viaggi sognati per lunghi mesi quand’eravamo feti e poi scordati, ma ogni tanto… Come una scossa, un sussulto, barlumi di memoria pre-individuale: l’arca di Noè, la spedizione degli Argonauti, la nave di Odisseo, il liquido amniotico… Il mare era un invito a nascere di nuovo. Eravamo su un’isola a Nord, si parlava tedesco. Sklovskij e io catturavamo granchi. Eravamo innamorati di qualcuno. C’era già stata la rivoluzione, vivevamo una parentesi di quiete. Sklovskij era arrivato da Berlino, io non so più da dove. Non eravamo soli. Non sapevamo ballare. La sera, nel salone dell’albergo, guardavamo le evoluzioni di madri con padri, padri con figlie già sposate, madri con figli adolescenti. Pensavamo alla Russia, tutti i giorni, sempre, anche mentre catturavamo i granchi o ci struggevamo per le amate. Correvano storti, i granchi. Le chele sembravano guantoni da boxe. Li rigettavamo nell’acqua bassa. La rivoluzione mi attendeva, sbuffante. Dovevo tornare, fare il mio dovere. Non ricordo come andò a finire: ho un buco nella memoria. So che sono morto, questo sì. So che questo è l’avvenire, questo sì. C’è ancora lo sfruttamento, c’è il capitale. Ci sono amori infelici. Sono in Italia. Non oso domandare della Russia. Farò anche qui il mio dovere di poeta. Ricordo il giorno della partenza da Norderney, il sorriso triste di Sklovskij. Ce la prendemmo comoda, perdemmo il treno. Nel sogno questo non succede. Corsi dietro alla locomotiva, e Sklovskij con me, da buon compagno, anche se andavamo in posti diversi. Catturai il treno, tornai puntuale all’appuntamento con la Storia e con la sorte. A Sklovskij, mentre correva, si ruppe l’orologio. Chissà se rimarrò sempre qui. Chissà se mi risveglierò altrove. Chissà se questo è un sogno. Non importa: sogno o realtà, farò il mio dovere. Questi operai hanno bisogno di poesia.

Era la primavera del ’69. Declamava i suoi versi per noi. Qualcuno dei compagni sospettava di conoscerlo.
– Vi dico che è lui! Ci sono i suoi libri, alla sezione di Corso Sicilia. C’è la foto. No, non so come si chiama, perché i libri sono in russo, le lettere sono diverse dalle nostre. Ricordo che prima del cognome c’era scritto «B. B.». – Bibì? Ma non ha detto che si chiama Volodia? – Poi un compagno che un pochino ne sapeva (o meglio, aveva orecchiato qualcosa) disse che in russo la «B» si legge «V», e allora quel «B.B.» era «V.V.», e allora ci stava che il nome fosse Volodia. – Ma glielo dobbiamo dire a quelli del partito che in officina è comparso questo tizio? – chiedevano in diversi. Si decise che era meglio di no, c’era il rischio di esser presi per matti. E poi, mica era detto che chi non lavorava in officina lo potesse vedere. Forse era lì solo per noi. Un giorno il compagno che dicevo prima portò il libro, in copertina c’era scritto proprio così, come mi hai fatto vedere tu: «В.В. Маяковский». – Ma sì, cazzo, è Maiacoschi! – disse qualcuno, con un tono che nemmeno stesse parlando di suo fratello, come per dire: – Ignoranti! Non lo conoscete Maiacoschi! – Oddìo, conoscerlo conoscerlo no, ma in diversi l’avevamo sentito nominare. Mai letto niente, però. E di sicuro nessuno si era mai aspettato di vederlo a Mirafiori!
Continuò ad apparire fino a poco dopo l’Autunno Caldo, poi svanì. Nessuno l’ha più visto, e nessuno ne ha più parlato. Te l’ho detto: c’era il rischio di esser presi per matti. L’ultima volta che l’ho visto? Me la ricordo sì. C’era un corteo interno e…

Volodja declamaCORTEO INTERNO 1969

Compagno fischietto! Punzecchia
la Cartagine di cartilagine
dell’attenzione!
Volo di zanzara d’Ilio,
puntiglione-pungiglio
che tràpana
(o forse «trapàna»? Perdonatemi, tovarisch,
sono russo!)
la fortezza dell’indolenza!

Compagno megafono! «Magnificasuono»
significa il tuo nome
la voce operaia rimbalza tra macchine e pareti.
Sobbalza, il crumiro,
chiamato al corteo per le officine.

Compagna ramazza! Tu batti sui cassoni,
tu batti, caos suoni
di losanghe di tuoni conficchi le punte
nelle bianche e rosse coccarde
dei capi squadra.

Compagni tamburi di Mirafiori! Compagne corde!
Voi cingete i tentennanti come vitelli
sarchiate i capi reparto come erbacce
scrollate medagliette bianche e verdi
trascinate con voi chi non marciava.

E voi sarchiati, compagni-a-forza,
costretti a brandire bandiere vermiglie
Voi vessavate berciavate bersagliavate
per conto di Agnelskij
guardatevi ora!
Ripetevate gli ukase del padrone
come tanti parrocchetti
vi vedesse adesso il parroco, che figura!
(Già, ma che vi parlo a fare?
Perché mi rivolgo a voi?
Non mi vedete né sentite.)

Il corteo spezza la fabbrica
attornia i guardioni e danza in cerchio
«Agnelskij, l’Indocina
ce l’hai in officina!»
«Ho! Ho! Ho!
Ho Chi Mihn!»
(Ricordo quel compagno annamita.
Lo incontrai a Mosca
tante epoche fa.)

Fosse solo per questo momento
ce l’ha il movimento il potere
e adesso si va all’aperto,
Ho! Ho! Ho!

La palazzina degli impiegati:
due ali di operai inferociti
bocche di Bonifacio del «vento dell’Est»
e in mezzo incedono, strattonati, stazzonati,
gli «uomini artificiali»
i burocratchik.

Gettate, compagni, le monete da cinque lire!
Anche i delfini possono volare
è un mare di facce attonite a guardarvi.

Compagni telefoni! Non è più bello
essere usati così
dall’operaio che chiama la madre o la sposa
rimasta al paese, ché tanto paga Agnelskij
piuttosto che per il profitto
piuttosto che per il maltolto?

Compagni, io vi ringrazio!
Perchè da tanto tempo
non so nemmeno da quanto
non marciavo come ho marciato con voi.
Mi ritengo soddisfatto.
La poesia è nelle cose.

Volodja si addormenta
e sorride.

Ricordo che qualcuno lo scrisse sul muro di cinta, hai presente quelle case con la lapide: «Qui ha dormito Garibaldi per sbaglio», «Qui ha dormito Rossini sorpreso da un temporale»… Una mano anonima lo scrisse sul muro, con un pennello rosso, di notte:

IL FANTASMA DI MAJAKOVSKIJ
HA RIEMPITO DI POESIA MIRAFIORI

Credo non fosse passata nemmeno una settimana, quando, uscendo stanchi dalla fabbrica o diretti ai cancelli per l’inizio del turno, la lingua che sembrava uno straccio imbevuto di caffè, fosse giorno oppure sera, da dietro un parabrezza o stretti nei giacconi in attesa dei mezzi, sui muri del quartiere cominciammo a vedere un’altra scritta, sempre quella, e ogni volta ci sembrava cambiare di posto, come se si spostasse da un muro all’altro o qualcuno – impossibile, ovviamente – la cancellasse per riscriverla altrove.
Dopo che hai conosciuto un poeta morto, per giunta un poeta morto compagno!, e ci hai fatto pure un corteo assieme, una scritta che appare e scompare non ti sembra chissà quale mistero: un paio di domande te le fai, chiaro, ma è una cosa che accetti e tiri avanti. Comunque, non era mica un’allucinazione: quella scritta l’abbiam vista tutti, negli ultimi mesi del ’69. La ricordo bene. Diceva:

QUEST’AUTUNNO CAMBIA IL MONDO
LA POESIA È NELLE STRADE

Non è vero che i poeti non scrivono per il popolo. I canti migliori vengono da questo accolti.
I nomi si cancellano, cambiano le strofe, ma il canto viene cantato. Intorno a esso se ne crea uno nuovo che poi ritorna al poeta.
Viktor Sklovskij, «Majakovskij»


Video girato da @uomoinpolvere

Infoaut commenta l’evento e intervista Wu Ming 1 subito dopo il reading
C’è anche una registrazione alternativa di quest’ultimo, con suggestivo crepitio di sottofondo, degno delle registrazioni originali di Majakovskij.

Foto della giornata sul blog “I muri di Mirafiori”

Scarica l’impaginato in PDF del libretto Volodja, con spiegazione dettagliata del progetto. Stampato in 4000 copie e distribuito gratis nei quartieri Mirafiori Nord e Mirafiori Sud di Torino.

Alcuni commenti sulla giornata del 12 novembre

Mirò da forno n.1“Mirò da forno n.2”, pizza creata da @yamunin e @uomoinpolvere al “Kitchen Club” di via F.lli Garrone, Mirafiori Sud, Torino, il 12 novembre 2011. Verdure, formaggi e pesto.

 Grazie, ma davvero grazie, a Edoardo, Francesca, Marco, Christel, Paola, Francesco e a tutte le intelligenze di a.titolo, situa.to e Green Graffiti.

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14 commenti su “«Volodja», di Wu Ming 1. Testo, audio, intervista e link assortiti

  1. Urca, che silenzio… E’ un racconto così duro da digerire? :-D

  2. @wuming1 no ! e’ solo bello

  3. Digeribilissimo. Molto interessante il Volodja fantasma.

  4. Sto leggendo il .pdf ascoltando questo http://www.youtube.com/watch?v=mtjAmaG7jjA su suggerimento di @Wu_Ming_Foundt via twitter.
    Vediamo che succede…

    (molto interessante anche tutta la parte di spiegazione del progetto contenuta nel .pdf)

  5. Da quando seguo il blog, mi sono sempre limitato alla posizione del lettore “passivo”. Sempre ritratto dal commentare, per timidezza, per pigrizia, che è peggio. Solo ad un componente del collettivo ho scritto in privato. Interrompo la mia ritrosia naturale per dire una cosa semplice semplice: che bello, “wolodja”. Il reading lo è di più. E’ intenso, estremamente intenso, quasi commovente. Quasi eh, che prima c’è da cambiare il mondo. Cosa dice l’ultimo verso? Oppure fare entrambe le cose contemporaneamente: commuoversi e cambiare il mondo, dico. Mi pare che nel racconto facciano capolino alcuni topoi della voce solista di wm1, già esplicitati in New Thing. VVM risuona con il Trane del romanzo, i versi (declamati con futurista, stentorea e ferrarese voce dal loro autore) con le dozens. Era poesia nelle strade anche quella. C’era una lotta nel ’67 americano, ce n’era una nel ’69 italiano. C’erano poeti (o musicisti) a cantare l’una e l’altra. Ecceità del ciclo di lotte, no? Ecceità anche nell’opera di wm1, direi.

  6. Dopo la lettura del racconto (e di tutto ciò che ci stava intorno) mi viene da dire solamente questo: più il punto di vista della narrazione è obliquo, più mi viene voglia di informarmi su quello che sulla pagina è appena accennato. Cortei interni, capi reparto trascinati alla testa del corteo, crumiri.
    E poi la voglia di uscire a cercare quegli stessi muri nella mia città, vedere se si può scrostare un po’ di grigio anche da qua.
    Mi è piaciuto questo poeta dal cognome gallurese (!) e vedrei bene Bovenzi al bar con Bottone.

  7. @ JohnGrady

    funzionava come sottofondo la sinfonia di Shostakovich?

  8. @ Wu Ming 1

    Shostakovich ci sta benissimo.
    Il racconto è bello.
    Del Volodja che io conosco manca una sola cosa: la vodka.

    Dico questo mentre bevo un grappino piemontese alla salute di Volodja.

    P.S. Agnelskij è geniale è la poesia, tentativo coraggioso, la trovo ottima.

  9. …la grappa piemontese mi porta a fare errori di ortografia da ergastolo.

  10. in attesa del prezioso librettino (spero, @yamunin, che la mail ti sia arrivata, che scrivevo con connessione volante…), qualche frammento sparso per dire che questo racconto, @WM1, è pieno non solo di poesia, ma anche di un sacco di musica, e il suo ritmo interno ha bisogno di lettura e lettura e lettura, prima solo con gli occhi, poi seguendo a fior di labbra, poi ad alta voce, poi ascoltando, poi commuovendosi.
    Bello, proprio bello abbandonarsi al ritmo interno della poesia, che poi è anche il nostro ritmo interno, onda, sollevazione, tempesta…
    (perdonate, ma questa pacatezza tutta “nordica” del “nuovo” “governo” mi silenzia come il secondo prima di uno tsunami, e mi far venir voglia, in questo attimo di sospensione, di sentire il soffio della presenza di Volodja e amplificarlo)

  11. Traduzione di “Volodja” in catalano:
    http://www.tigredepaper.cat/wordpress/?p=663

  12. […] 17 settembre, alle h. 17, il fantasma di Majakovskij si rifarà vivo a Torino, al Cantiere25 (via Berthollet 25). A leggere il racconto Volodja di Wu […]

  13. […] Luigi Chiarella legge VOLODJA racconto inedito di WU MING 1 http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=6122 […]