Note sul #referendum, i social network e il “popolo della rete”

[A proposito di alcuni discorsi post-referendum che ci sembrano pericolosi, oggi abbiamo detto alcune cose via Twitter. @diariominimo ha raccolto tutti i messaggi, li ha montati in sequenza e ne è venuto fuori un intervento ready-made. Lo riproponiamo qui, al volo. Per leggere anche botte-e-risposte con altri utenti, potete visitare il nostro profilo su Twitter.]
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Il problema dell’esultanza di questi giorni sul ruolo “della rete” e del “popolo della rete” è la riduzione del molteplice a Uno: “LA rete”, “IL popolo della rete”… Come se Internet fosse una cosa, e chi la usa fosse un blocco sociale contrapposto a un altro. Quindi “la TV” (cioè… Berlusconi) sarebbe stata sconfitta da “la rete” (cioè il popolo onesto e libero). Anni e anni di analisi sulla “convergenza” sostituiti da una sorta di “mito tecnicizzato dei social network”.
Internet è un coacervo di pratiche contraddittorie: alcune sono pratiche di liberazione, altre producono nuovi assoggettamenti. La dicotomia “TV vs. Internet” è superata in tempi di convergenza, in Italia la sua retorica resiste perché c’è Berlusconi a curvare lo spazio. A meno di non pensare che la TV sia ancora il televisore, oggi TV e rete sono innervate e saranno sempre meno distinguibili. Ormai dire “la rete” significa dire tutto e niente. TV, radio e giornali sono on line, hanno profili sui social network, fanno crowdsourcing. Scambiare Minzolini, Fede o Mimun per “la TV” e dire che la rete buona li ha sconfitti non aiuta granché a capire.
E quando “la rete” è agita da pratiche non liberanti ma mostruose (pogrom virtuali, manifestazioni d’odio), il “popolo della rete” chi è?
Tra l’altro, non c’è parola più ambigua di “popolo”. E’ ancora una volta l’Uno anziché il molteplice. Come se ci fosse la Volontà Generale.
Insomma: Berlusconi, finché sta in mezzo alle balle, “berlusconizza” e mantiene arretrato (perché reattivo) ogni discorso. Berlusconi non ha prodotto solo altri partiti-persona e culti della personalità (cfr. Grillo, ma il “vendolismo” non è immune): Berlusconi ha prodotto retoriche che rimandano sempre a lui. E se lui è “la TV” ed è vecchio e “analogico”, allora la rete è sua nemica. Così ci libereremo finalmente di Berlusconi, ma la nostra ricostruzione della sua caduta sarà sballata, feticistica, tecno-utopica. Penseremo che a buttar giù Berlusconi sia stato Twitter. “La crisi? Quale crisi?” E sopravvaluteremo l’impatto di alcune pratiche, penseremo che fare un mash-up sia moooooolto più che fare un mash-up.
Internet non è un altro mondo, è questo mondo. C’era chi voleva darle il Nobel per la pace, ma Internet fa anche la guerra. Internet è lavoro oggettivato. La rete è relazioni di produzione, di proprietà, di potere. Usiamo strumenti di proprietà di multinazionali. Internet è un luogo di conflitti. Come un posto di lavoro (è anche quello), un terreno su cui si specula (idem), un teatro di guerra.
Fine del pippone. Scusate la lunghezza.

***

Già che ci siamo…

GIROLAMO DE MICHELE, “FILOSOFIA”
Presentazione del libro Filosofia di Girolamo De Michele (Ponte alle Grazie, 2011), svoltasi il 15 giugno alla libreria Zanichelli/Feltrinelli di Piazza Galvani, Bologna. A discutere con l’autore c’è Stefano Bonaga, che si è specializzato con Gilles Deleuze a Parigi e insegna Antropologia filosofica all’Università di Bologna. Si parla di “buona vita”, Spinoza, Kant, Deleuze, David Foster Wallace. Si dà del “ciarlatano” a Hegel, e c’è anche un ritratto di Jacques Lacan come boss camorrista!
A un certo punto interviene Wu Ming 1, che dice un paio di cose su Platone – non il Platone delle volgarizzazioni, compresa la volgarizzazione più celebre, quella di di Karl Popper, ma il Platone scettico, “solare” e spiazzante che De Michele propone nel libro – e pungola De Michele e Bonaga a una riflessione sullo steccato che ancora divide la filosofia “analitica” da quella “continentale”.
Riassunto così, alla brutta vigliacca, sembra un dibattito specialistico e incomprensibile. Vi assicuriamo che non è così. Il dibattito non è infedele al sottotitolo del libro: “Per capire che la filosofia non è in cielo, ma nelle nostre teste, e che siamo tutti un po’ filosofi”.
Durata: un’ora e sette minuti.

***

ON THE ROAD

Con il calendario siamo agli sgoccioli. Come il tamburino Duracell, WM2 è l’ultimo a fermarsi, quindi è l’ultimo di noialtri che avrete occasione di vedere prima che ci ritiriamo in semi-clausura!

Infine…
Il 25 giugno, a Roma, commemorano il 90esimo della fondazione degli Arditi del Popolo (gente che, all’epoca, usò la parola meno a sproposito!). Proiettano Il ribelle, film di Giancarlo Bocchi su Guido Picelli, grande combattente antifascista prima in Italia e poi in Spagna. Mettetevi il pugnale tra i denti e andate a rendere omaggio ai primissimi che combatterono il fascismo armi alla mano.

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185 commenti su “Note sul #referendum, i social network e il “popolo della rete”

  1. Eravamo vicini come pensiero, soprattutto su quella che definite crowdsourcing:
    http://www.kpolis.it/la-rete-mobilita-non-orienta.html

  2. TV vs. rete è di certo una semplificazione, ma sintetizza bene quello che è successo.
    La televisione, come viene fatta in Italia con il monopolio di Rai & Mediaset, è ormai anacronistica ed esiste solo in Italia, perchè, come mi disse un responsabile di produzione TV una volta: “noi facciamo un prodotto, i programmi televisivi, ma ne vendiamo un altro, gli spazi pubblicitari”. Se in Italia si ampliasse l’offerta reale di televisione (via cavo, via web, via digitale, via satellite) si inciderebbe sulla raccolta pubblicitaria. In soldoni, si metterebbero le mani nelle tasche di Berlusconi, che sono la cosa per lui più importante di tutto.
    Relativamente al “popolo” della rete e al comportamento che il “popolo” del referendum ha avuto, trovo sempre più realizzate le teorie di Antonio “Toni” Negri contenute in Impero.
    Il popolo si sta muovendo secondo un principio di “biopolitica” e utilizza la rete come strumento.
    E scusate se pure io mi sono dilungato.

  3. E’ vero: “popolo della rete” non significa nulla. Butto la’ una provocazione: anche “popolo del si'” non significa nulla, o perlomeno e’ una semplificazione che non aiuta a capire. Ne discutevamo ieri qui su giap. Dietro a ciascuno dei quattro “si'” ci sono spinte molto diverse, a volte persino incompatibili tra loro se fatte interagire su altre tematiche.

  4. Allora premesso:
    1) che noi internettari continuando parlare di Internet corriamo il rischio di finire come Mentana che fa lo splendido non parlando di Avetrana ma tutte le sere si sente in dovere di informare su cosa ha detto l’editorialista del Giornale in risposta all’editoriale del FQ e persino sugli spostamenti di scrivania di V. Feltri.
    Vorrei ora ripetere alcune altre cose ovvie:
    2) per tutti coloro dotati un minimo di comprensione dei fenomeni tecnologici e mediatici in atto *da anni* (e sì voi siete arrivati con le BBS, max rispetto) il popolo di Twitter e FB, oltre ad avere il piccolo difetto di non esistere, ha vinto i referendum esattamente come il referendum sul divorzio è stato vinto dal popolo dell’elenco del telefono (miei parenti mi dicono infatti che all’epoca chiamarono senza tregua amici e conoscenti per favorire il NO…). Se qualcuno, per scrivere l’articolessa, vuole fingere che ci sia la “Rete” iperurania faccia pure, e se qualcuno -siamo tutti peccatori- tende a sopravvalutare il proprio ruolo su Internet continui nella propria illusione.
    3) l’intervento è ottimo quando scrive: “Anni e anni di analisi sulla “convergenza” sostituiti da una sorta di “mito tecnicizzato dei social network” “(tra parentesi questo è il concetto di aura tecnologica che Sanguineti ha elaborato a partire da Benjamin), e quando nota che “c’è Berlusconi a curvare lo spazio.”
    Ma appunto da noi lo spazio è curvato, “Minzolini, Fede o Mimun sono “la TV”” per decine di milioni di italiani (e in simbolo va riletto quel bel pezzo di Gilioli su B. che si fa stampare gli articoli usciti contro di lui su Internet). Per quello zoccolo duro del b.ismo che guarda e si informa solo con Minzolini e compagnia, per quelle donne anziane in piccole città convinte che B. sia un martire massacrato dal comunismo giudiziario (questa caratterizzazione un po’ stramba non è mia, viene da J. Prideaux nello special report dell’Economist). Il sito del Tg1 non è “Internet” è il Tg1, esattamente come Aniene di Guzzanti con lo spot sui referendum è “Internet”, ovvero YouTube, anche se va su Sky1 (qui bisogna essere onesti e riconoscere che A. Grasso, pur non a noi simpaticissimo, ha parlato in modo molto pertinente del fenomeno).
    Insomma è un momento di grande confusione sotto il cielo e il cielo è curvato. E qualcuno prende per assalto una scampagnata…
    4) La “Rete” sotto i referendum è stato comunque *anche* un luogo di effettiva controinformazione, che oggi viene fatto sui blog Twitter FB e YouTube invece che col ciclostile e il Super8. Che poi qualcuno ci marci e persegua la propria agenda è altro discorso, media tradizionali non Rai e Mediaset compresi.
    5) Ma da noi un po’ per carogna, un po’ per stanchezza e sfogo, un po’ perché è più facile ci si scatena soprattutto con le beffe. #sucate e compagnia.
    6) Chi insulta su Internet Brunetta perché nano, dovrebbe sfanculare Leopardi e Gramsci perché nani e gobbi. Non per questo Brunetta rimane meno condannabile per le sue esternazioni e azioni. E comunque a tutto c’è un limite: quando Ferrara piange perché S. Guzzanti (I’m not a big fan, by the way) gli dice che è obeso e quindi lo maltratta in quanto “disabile”, io mi fermo nella difesa. Non perché è Ferrara, ma perché con R. Gervais dico “not a disease, you love to eat” (e sei è il caso di specificarlo, non sono esattamente anoressico…).
    7) RMS non usa Twitter perché non è FOSS. Chi non comprende gli acronimi non ha bisogno di comprenderli e comprendere questo punto (scusate il punto l33t e lulz ma ci vuole nel contesto).
    8) E comunque anche il mito dell’open source interpretato in chiave anticapitalista non regge quasi più neanche da noi. Per fortuna o per disgrazia, fate voi…
    9) “Usiamo strumenti di proprietà di multinazionali. Internet è un luogo di conflitti. Come un posto di lavoro (è anche quello), un terreno su cui si specula (idem), un teatro di guerra.” Questo rimette sulla loro materialistica testa le dichiarazioni demenziali di Stracquadanio.
    10) Per concludere su una nota più leggera, si potrà usare #pippone su Internet per ogni vostro futuro proclama al popolo:)?

  5. […] Note sul #referendum, i social network e il “popolo della rete” […]

  6. Sono d’accordissimo che parlare di popolo della rete abbia poco senso. In generale trovo che parlare di popolo di qualcosa abbia poco senso.

    Invece sono convinto che tra lo strumento rete e lo strumento TV ci siano differenze significative che rendono la rete utilizzabile a scopi “positivi”. Non credo tanto nella teoria della convergenza.
    La TV intesa come sistema di canali televisivi è intrinsecamente asimmetrica. Proprio a partire da come avviene la comunicazione (in broadcast) basata su un punto centrale che trasmette a oggetti ricevitori. Ci saranno anche i televoti e menate varie. Però il paradigma di comunicazione resta quello forndamentalmente unidirezionale. Ci mettiamo il fatto che in italia soprattutto (ma anche da altre parti) il numero di canali è stato fino a poco tempo fa limitato da limiti tecinci, quello che accade è che i contenuti li mettono solo grossi gruppi editoriali. In Italia di fatto due con un terzo che cerca di spuntare. Di fatto sono sempre pochi.
    Altra caratteristica portante della TV è il fatto che si impadronisce del tempo, decidendo quando le cose vanno in onda e ciò fa molta differenza. Certo si può videoregistrare eccetera ma il sistema TV si basa nel suo complesso sulla gestione del tempo, le cose sono pensate per essere fruite in una scaletta temporale predeterminata, che so le info sui referendum date a tarda notte.
    La rete per sua natura ha un tipo di comunicazione multilaterale ogni dispositivo riceve e trasmette e la potenza di trasmissione è parificata.
    Secondo me queste differenze non sono solo dettagli tecnici ma determinano anche il tipo di informazioni che girano e come girano. Diciamo che con la rete si abbatte completamente l’importanza del canale distributivo (diventa illimitato) privando i gruppi editoriali di una importante parte del loro potere. Diventano più importanti i contenuti, infatti non è un caso che i siti di informazione più importanti espressione del mondo editoriale in rete siano quelli dei giornali e non delle tv.
    Da questo punto di vista secondo me è vero che la tv stia declinando in virtù di qualcosa di migliore.

    Il tempo che la gente passa davanti alla scatola cala=> il potere dei gruppi editoriali televisivi cala.

    I social network in qualche modo hanno accentuato la capacità del singolo di essere produttore di contenuti e informazioni. E quindi sono anche un nuovo strumento per fare informazione e veicolare le idee. Sono uno strumento sui cui contentui per ora nessuno ha un controllo deciso. E questo comunque secondo me è bene.

    p.s:
    scuasate the pippon

  7. @ pedrilla

    questi – scusami, non vorrei sembrare liquidatorio – sono discorsi con cui ci riempivamo la bocca negli anni Novanta, sono cose assodate, e sono ovvietà da tempo.
    E io credo che siano superate.
    Secondo me sono superate, ma in Italia non ce ne accorgiamo perché la necessità di lottare contro il conflitto d’interessi berlusconiano ha gettato sulla tv e sulle pratiche di rete una coltre di retorica. *Questo* è l’oggetto del post nato come mega-tweet.

    “Convergenza” non è una “teoria”, è una situazione che esiste già da tempo. “Convergenza” è anche, come faceva notare @pinolo su Twitter, il fatto che la rete stessa oggi sia pervasa di logiche “televisive”, di sintassi televisiva, di antropologia del telespettatore. Di “interpassività”, se vogliamo tornare a scomodare il termine. E che la TV stessa oggi sia in rete.

    Centinaia di migliaia di persone i cui sguardi convergono sul talk-show di Santoro ieri sera – propagandato come grande evento “della rete”, in alternativa alla TV del duopolio etc. e in realtà del tutto televisivo nel formato, nella sintassi, nella concezione, e tra l’altro trasmesso anche su canali televisivi – e che commentano su FB e Twitter “Grande Travaglio!”, “LOL”, “Applausone!”, “Questa non si può sentire”, “rotfl”… Questa non è “rete vs. TV”, questa è convergenza rete-TV.

    Questo vale anche per il “RAIperunanotte” dell’anno scorso, ma vale anche per *qualunque* puntata di “Anno Zero”, e per molti altri programmi. Credo che, sotto questo aspetto, “Vieni via con me” sia l’esempio più clamoroso. Ma potrei citare anche Sanremo etc.

    Twitter e FB sono, durante l’evento o mega-evento televisivo, *un modo di fruire la TV*.

    In apparenza, può sembrare che questo sia un altro livello, una conversazione orizzontale tra spettatori-non-più-tali che democraticamente si confrontano sui contenuti di ciò che viene trasmesso in quel momento. E a volte può pure succedere, sia chiaro.
    La mia esperienza di “osservatore partecipante”, però, mi dice altro, e cioè che quella conversazione sia inevitabilmente subordinata a quanto viene trasmesso, e fatta nella maggior parte dei casi di plauso o di facile “Buuuuu” verso il cattivo di turno, di risposte prevedibili e pre-determinate, anche pavloviane.

    La rete, in queste occasioni (che non sono affatto rare, si ripetono ogni giorno), non è affatto *alternativa* al linguaggio televisivo: ne viene pervasa.
    Tanto che alcuni programmi hanno incorporato quella “conversazione”, a volte tecnicamente (di fianco allo schermo dello streaming c’è la colonna coi commenti), a volte solo retoricamente (durante la trasmissione spesso si comunica il numero di tweet collezionati dall’evento, si saluta “chi ci segue su Facebook” etc.)

    In uno scenario così, prova a distinguere tra TV e rete.

    In uno scenario così, tu prova a dire che il referendum lo ha vinto la rete “contro la TV”. A meno di non dire che le trasmissioni di Santoro sui quesiti referendari (seguite da milionate di persone), per il fatto di aver generato grandi quantità di tweet con hashtag “#annozero”, siano “rete” anziché TV.

    Solo chi pensa che la TV sia il televisore non si è accorto di quel che è successo.

  8. @ paco

    “Se in Italia si ampliasse l’offerta reale di televisione (via cavo, via web, via digitale, via satellite) si inciderebbe sulla raccolta pubblicitaria.”

    A parte il “via cavo”, in realtà descrivi una situazione già esistente. L’offerta televisiva in Italia è enorme, tra il bouquet di canali offerti via satellite, le web TV, il digitale terrestre. TV locali, canali tematici, canali dedicati di YouTube… Soltanto sul portale della RAI puoi vedere una quindicina di canali diversi (RAIStoria, RAIEdu etc.)
    Tendiamo a non accorgercene perché il conflitto d’interessi distorce lo spazio intorno a sé, e le giuste invettive contro Minzolini fanno comunque inquinamento segnico. E la raccolta pubblicitaria è “drogata”: gli inserzionisti si rivolgono a Mediaset anche se perde costantemente telespettatori, semplicemente per ragioni politiche, cioè in obbligato ossequio al premier.
    Non appena Berlusconi cadrà (speriamo il prima possibile), ci renderemo conto che descrivevamo con termini vecchi (i termini della lotta a Berlusconi) una realtà socio-tecnologica già mutata.

  9. Insomma: i milioni di persone che mentre stanno su Facebook contemplano Santoro, la sua compagnia di giro (absit iniuria: è di fatto una compagna di giro), il suo spettacolo d’indignazione etc. sono “popolo della rete” contrapposto al “popolo della TV”? No. Sono popolo della TV *e* della rete nell’epoca della convergenza.

  10. @WM1
    Beh, sì, il cuore del problema è la raccolta pubblicitaria e i termini del ragionamento non possono prescindere dalle condizioni al contorno. La difesa, da parte di Berlusconi, dello status quo della televisione è la difesa della raccolta pubblicitaria, cioè, in termini marxistici, la difesa del capitale e del profitto che ne consegue.
    Lo stesso risultato del voto amministrativo e/o del referendum può essere spiegato partendo dalle stesse basi culturali, con una analisi che sostituisca, nei ragionamenti, al termine “popolo” il termine “classe”.
    Fuori di dubbio, la realtà socio-tecnologica si muove molto più velocemente di quanto ci racconti l’informazione mainstream. Certamente che degli over 50 (a volte over 60 e 70) debbano spiegare che cosa hanno prodotto le capacità cognitive di ragazzi non aiuta a far emergere mezzi e contenuti continuamente in evoluzione.

  11. Sono ovviamente d’accordo, e la nota mi pare sacrosanta.
    Detto questo, facendo un po’ di chimica delle idee, queste continue reductio dei fenomeni che si danno nel dominio dell’opposizione sociale a parole-concetto omnicomprensive(indignados, onda, internet, ecc.ecc.ecc.) è segno di una scelta di linguaggio e di categorie di ricezione e narrazione. Dare un nome alle cose serve ad identificarle, e le letture frontalistiche e bipolari (mi verrebbe da dire, dialettiche) sono i pattern più condivisi del contesto di spazio e di tempo in cui viviamo. E’ sempre quell’effetto elastico della postmodernità: laddove si frantumano alcuni nodi di riduzione ideologica della molteplicità a dialettica, si registra paradossalmente un’ansia riduzionista ancora più forte di prima. Dai sistemi elettorali alle ricezioni giornalistiche, la contrapposizione e la narrazione bipolare è un dispositivo per garantire chiarezza e governabilità, e anche per favorire un’autopoiesi sempre evemenziale, che innervi una sorta di ciclo narcisista delle identità. Pur non trascurando una certa ansia genuina di capirci qualcosa, di dare nomi per capire.
    Detto ciò, anche guardando alle esperienze nordafricane (sono stato in Tunisia con Unicommon e sui muri l’ho visto con questi occhi scritto “Thank you facebook) dovremmo cogliere comunque il fatto che una moltitudine come quella nordafricana scelga essa per prima di enunciarsi nella questione del web 2.0, che insomma internet, pur pena la fallace riduzione di cui sopra, venga individuato come un elemento di significazione delle proprie pratiche e della propria soggettivazione. C’è certamente un “fascino internazionalista” nell’annullamento delle distanze dell’informazione, al di là dell’effettiva efficacia nella rivolta. Comunque, è una questione molto spinosa.

  12. @Wu ming1

    Beh è chiaro che se Santoro fa un talk show e lo trasmette in streaming il risultato sarà un prodotto televisivo. Fa lo stesso talk show da 25 anni in RAI non potrebbe fare una cosa diversa anche se volesse. Non è Santoro in streaming ciò che differenzia la rete. Il fatto che la TV cerchi di inglobare i social network come tutto il resto esiste. Ma se gli togli l’esculsività del canale distributivo e gli togli il concetto di palinsesto, togli tanto. Togli gran parte del succo. Il fatto che la gente si veda youtube gli spezzoni cambia parecchio le carte in gioco. Quanti spezzoni di pezzi di anno zero sono visti su youtube? Una marea. Quanti spezzoni di domenica in? credo zero. Ma con l’audience il rapporto non sarebbe quello.
    Se per TV intendi produrre video con una certa serialità allora si converge, ne esistono anche tante via web esculsivamente. Se per TV ci vedi il sistema di canali editoriali, mostra la corda.

    Non credo che il referendum lo abbia vinto la rete contro la TV. Però per la prima volta la rete è stato un importante punto di discussione/informazione per molta gente, quasi metà della popolazione. E non è poco. E forse ha avuto un peso pari a quello della TV. Lo ha avuto un oggetto non controllato da nessuno. Questa e`una grossa novità nel panorama mainstream italiano.

  13. @ Bruno
    benvenuto, e grazie della testimonianza. Lo so che mi rendo molto antipatico quando faccio queste “mozioni d’ordine”, ma, ecco: cerchiamo di essere un tanticchia meno “gergali”, non siamo mica su Uninomade! :-)

    @ pedrilla
    secondo me il concetto di “palinsesto”, coi suoi limiti e le sue rigidità, ha cominciato a metterlo in crisi la TV stessa quando, diventando “pay TV”, ha introdotto la programmazione “on demand”, su richiesta. E’ una fase che qui da noi è iniziata solo col satellite, ma ha un suo divenire di lungo corso.
    Quanto alla visione differita e asincrona per mezzo del videoregistratore, già negli anni Novanta le guide TV e i siti dei canali televisivi cominciarono a pubblicare i “codici showview”, cioè i numeri corrispondenti ai diversi programmi televisivi, che servivano a programmare i videoregistratori. Oggi non si usano quasi più, ma sono la testimonianza che la TV stessa, ormai da molto tempo, incoraggia una visione *fuori dal palinsesto*.
    Altrimenti perché terrebbero on line l’archivio delle puntate di una trasmissione?

    Insomma, secondo me la TV può tranquillamente, alla bisogna, fare senza palinsesti. Alle TV non frega tanto del palinsesto, quanto – come dicevamo con Paco – della raccolta pubblicitaria, e
    1) spazi pubblicitari li puoi creare anche fuori dei palinsesti (vedi gli spot che partono sul sito RAI ogni volta che vuoi vedere qualcosa in streaming);
    2) a questo fine l’importante non è mantenere il palinsesto, l’importante è la “fidelizzazione” del cliente nei confronti di un “divo”, di un programma e, più in generale, del linguaggio televisivo stesso (quindi non necessariamente del televisore);

    Sul fatto che certe pratiche su Internet abbiano avuto un ruolo importante nelle vittorie amministrative e referendarie, penso possa concordare chiunque non sia fuori dal mondo. Ma sono *certe pratiche*. In rete ne esistono altre, di segno totalmente diverso. Se poniamo l’accento sulla rete anziché sulle pratiche, rinfocoliamo una retorica su Internet che sarebbe liberante di per sé. Non a caso abbiamo citato la campagna “Internet for peace” di Wired (rivista interamente basata sulla feticizzazione di Internet).

  14. Ma la gente discuteva e si scambiava informazioni anche quando la rete non c’era. Forse sembrera’ strano a chi oggi ha vent’anni, ma io che ne ho quaranta ricordo molto bene di aver discusso e di aver scambiato informazioni con altre persone anche durante i primi vent’anni della mia vita :-)

    Per esempio quando non c’era twitter, se si voleva chiacchierare con un amico, si andava a casa sua e si suonava il citofono, e quello ti faceva salire, oppure scendeva lui, e poi si andava a zonzo per le strade, e cosi’ via. Ma penso che anche prima del citofono le cose funzionassero piu’ o meno cosi’ :-)

    In realta’ e’ vero che la rete e la telefonia mobile hanno provocato dei grandi cambiamenti sociali, ma questi cambiamenti non andrebbero cercati nelle modalita’ con cui si sono svolte la mobilitazione referendaria o le rivolte nordafricane . Io guarderei piuttosto, che so, ai villaggi rurali in Africa, dove finalmente grazie alla rete e alla telefonia mobile le donne possono chiamare il medico quando devono partorire, possono chiedere informazioni di tipo sanitario, possono tenersi in contatto tra loro e con i mariti che lavorano in europa, ecc.. Io penso ad esempio che se vogliamo valutare il peso della rete nelle rivolte nordafricane, dobbiamo andare a vedere non tanto il modo in cui i manifestanti hanno usato twitter per comunicare tra loro (come ha fatto notare qualcuno, le rivoluzioni si son fatte per secoli anche senza twitter), quanto piuttosto il modo in cui l’uso della rete ha modificato la vita quotidiana (materiale) delle persone (soprattutto delle donne) negli ultimi anni.

  15. Io ci provo, al massimo mi manderete a fanculo.
    In tutto il mondo scientifico moderno, per descrivere un fenomeno si cerca di “linearizzarlo”, ovvero trovare una grandezza che lo rappresenti e attraverso una funzione matematica descrivere come raddoppiando quella grandezza, si raddoppia l’output della funzione.
    Il discorso che stiamo affrontando che pesa l’importanza del web rispetto ai suoi contenuti e all’uso che se ne fa, è un esercizio di questo tipo, cioè si cerca di “linearizzare” il fenomeno sociale.
    L’output è il successo dei referendum, le grandezze possibili sono appunto il web in quanto tale, i contenuti, l’uso che se ne fa, ecc. In ciascuno di questi interventi ognuno sta attribuendo ad una di queste grandezze un valore di riferimendo, cercando di linearizzare il fenomeno.
    Tutto ciò è sbagliato. E’ quello che normalmente si definisce “un modo di semplificare” cioè è quello che viene usato per dare spiegazioni da servizio di telegiornale: “i referendum hanno vinto grazie ad internet”.
    I sistemi complessi, con più variabili, possono essere semplificati quando ciò è utile (per esempio controllare un rubinetto per capire quanta acqua esce, posso approssimare che aprendolo il doppio uscirà il doppio dell’acqua, anche se non è vero) ma non sempre è possibile e non sempre corrisponde alla realtà.
    Ora, se già non ho perso tutti su questo ragionamento a cavallo tra scienza e filosofia, bisognerebbe parlare dei modolli a più dimensioni. Ve lo risparmio, però quello che stiamo vivendo è un periodo in cui ci vuole elasticità mentale per affrontare i problemi e trovare soluzioni.
    Voglio solo aggiungere che avendo tre variabili (web, contenuti e utilizzo della rete) le possibilità di intervenire per “perturbare” il sistema sono almeno nove.
    Ecco perchè non è che più web comporta automaticamente più democrazia.
    Una domanda: il blog “fake” dell’attivita siriana omosessuale che in realtà era gestito da un ragazzo americano, è più democrazia?

  16. Ehi ehi ehi Paco, la scienza non e’ proprio quella roba che dici tu. Ad esempio Galileo scopri’ che la legge oraria del moto di un corpo in caduta libera e’ quadratica (e non lineare, come riteneva Aristotele) E non e’ che ci si sia fermati li’, eh, mi dicono che in questi quattrocento anni si sia fatta anche qualche altra scoperta :-)

  17. Infatti non ci sono riuscito… almeno non hanno mandato a fanculo.
    Ma se devi spiegare quanto dura una giornata, diresti 24 ore oppure cominceresti a spiegare come Galileo ha scoperto che il sole sta in uno dei due fuochi dell’ellisse che costituisce l’orbita della terra intorno al sole.

    Promessa solenne: la finisco qui!

  18. Quello era Keplero ;-)

  19. Ribadire che il “popolo della rete” non esiste è fondamentale. Forse interpreto in modo eccessivamente rigido, ma mi sembra che la coniazione di questa espressione rappresenti soltanto l’ennesimo tentativo di installare nel discorso politico un soggetto unito e trasversale, tendenzialmente identificabile con la cosiddetta middle-class, e avulso da tutte le inevitabili divisioni che nascono all’interno della società come conseguenza di reazioni forti all’ingiustizia (lotta di classe, rivendicazioni di genere ecc.).

    Questa forma di discorso politico prende appunto il nome di “populismo”. Un populismo che, nel caso particolare, si tinge di una forte coloritura “liberale”: è infatti la manifestazione dell’eterna aspirazione, da parte di alcuni settori della società, a creare un movimento liberale “di massa”, fondato sul malcontento borghese, sulla denuncia della scollatura fra partiti, istituzioni e cittadini e su una prospettiva di superamento dei limiti del modello rappresentativo in chiave liberale, tutt’altro che insensibile alle sirene liberiste, mitigate solo (per fortuna…?) da una certa inerzia conservatrice di fondo (…di cui il successo ai referendum…).

    Prima che i tempi fossero maturi per parlare di “Popolo della Rete”, in Italia, a questo soggetto di massa si è dato il nome di Folla (qualunquismo) e Società Civile (movimento delle liste civiche). Ma l’idea di fondo, forse, è sempre la stessa. E il soggetto, direi, altrettanto inesistente.

  20. Eheh, e’ interessante leggere questa riflessione del vercovo di Trst sul referendum (il vescovo di Trst e’ un catto-cattolico con strabismo a destra)

    “Si vota sull’acqua ma le ripercussioni politiche aprono (o chiudono) altre porte. Può capitare che uno pensi di andare a votare per l’acqua insieme ad associazioni che promuovono i diritti umani. Poi però si accorge che quelle associazioni che promuovono i diritti umani e votano con lui per l’acqua sono anche a favore dell’aborto, lo sostengono teoricamente e lo promuovono praticamente. Il voto sull’acqua non è stato solo un voto sull’acqua. Di quel voto altri ne approfitteranno per fare cose che ai cattolici non dovrebbero andar bene. ”

    qua c’e’ l’articolo completo:

    http://www.vitanuovatrieste.it/content/view/5621/1/

    E’ interessante perche’ 1) fa sempre piacere vedere un vescovo infelice; 2) da’ un’ idea della molteplicita’ ed eterogeneita’ dei soggetti che formano il cosiddetto “popolo del si”.

  21. Ciao,

    io sono fondamentalmente d’accordo con quello scritto nel post iniziale, e con la risposta di WM1 a Pedrilla.

    Detto ciò, volevo solo dire che per me blogs e twitter sono stati e sono tuttora utili come fonte controinformazione. Se avessi la possibilità di vivere il movimento reale, là fuori, probabilmente l’utilità del web non sarebbe per me la stessa. Vivo all’estero, possibilità quotidiane di confronto faccia a faccia su questi temi sono pressoché nulle, soprattutto con altri italiani. Quindi, blogs e twitter. (Facebook è patetico, e il regno della retorica e dello spettacolo. Sarà colpa dei miei “amici”, non so che dire, ma per me è così.)

    Per inerzia spesso guardo puntate dei soliti programmi tv italiani, annozero e ballarò. Quello che penso *ogni volta* è che sono indietro anni luce, sia a livello temporale che di pensiero. E non perché io sia particolarmente brillante, ma perché seguendo discussioni in rete mi ritrovo ad un livello di consapevolezza, sintesi, critica, nettamente avanti a quello che viene detto in questi studi televisivi. Ripeto, spesso questa sintesi e critica non è fatta da me, ma o leggo ottimi post/commenti (come su questo blog), o seguo scambi su twitter; a volte partecipandovi.

    Esempio concreto: qualche puntata fa ad annozero si è parlato di nucleare, con chicco testa, battaglia, etc. Le posizioni degli anti-nuclearisti erano indietro rispetto al livello della discussione generale che mi ritrovo a seguire su internet. Ma di brutto anche. Poi Celentano. Io avevo le mani nei capelli.

    Queste posizioni che critico si ritrovano anche sul web, ma si filtrano facilmente; trovi spesso un commento su un blog che ti fa un po’ aprire gli occhi; o un rt o reply su twitter che metta in luce la mistificazione e il linguaggio spettacoloso.

    E tutto questo che sto dicendo, c’entra poco con il fatto che la rete sia bidirezionale mentre la tv no. Esempio: questo blog lo seguo regolarmente, ma non ho tempo di stare dietro ai commenti e a partecipare al botta e risposta, quindi commento molto raramente; lo uso in modo unidirezionale: ogni tot, leggo il post, leggo i commenti, penso, fine. (e magari mi sposto su twitter).

    Sottolineo: probabilmente avrei raggiunto lo stesso obbiettivo di controinformazione e sintesi se avessi avuto la possibilità dei partecipare ai movimenti su territorio italiano, con magari un po’ di sano contatto umano in più che non può che aggiungere in positivo, ma non poteva essere così per me.

    Ora, da questa mia complessivamente positiva testimonianza personale sulla rete, ad affermare che internet dovrebbe avere il nobel per la pace per internet, o che i referendum li abbia vinti internet, o che internet sia un luogo di rivolta, ce ne passa, e tanto. Internet è un luogo di guerra. Twitter è luogo di insulti gratuiti e volgari, battute brutte copie di Spinoza, di capitale sociale al lavoro per produrre, prima o poi, un qualche profitto che ripaghi i vari investitori.

    Ciao

    (@mtbhs)

  22. Credo sia sbagliato chiedersi se è stata la rete a vincere i referendum.

    La domanda è retorica. E’ ovvio che la risposta è no.

    Bisognerebbe chiedersi invece quanto utilizzare internet ha aiutato a vincere.

    Secondo me molto.

    Non penso ci sia un “popolo della rete”, come sono convinto che non ci sia mai stato un “popolo dei fax” .

    C’è però della gente, non faticherei a definirla un “blocco sociale”, che comincia a usare un determinato strumento, facendolo diventare la cassa di risonanza delle proprie rivendicazioni.

    Nulla di nuovo. Nel corso della Storia è sempre successo. Forse, se ai tempi di Lutero ci fosse stata la Repubblica, i luterani sarebbero stati definiti il “popolo del torchio”.

    Con la differenza che internet è infinitamente più potente.

    Il problema è che non è internet il centro, ma quanto avviene nella società.

    In Italia c’è fermento. A volte resta sotto traccia, a volte viene fuori in maniera dirompente .

    In questo contesto la rete sta diventando uno strumento per diffondere le ragioni della lotta e il mezzo tramite il quale le varie lotte, dai No Tav agli operai di Termini imerese, entrano in contatto tra loro.

    Non mi sembra poco.

    E’ scontato che se nelle strade non ci fosse la gente che protesta non si parlerebbe di internet in questi termini. Ma che se ne parli in questi termini secondo me non è del tutto negativo, è semplicemente un modo sbagliato di fotografare la realtà.
    Niente di nuovo, pare che i giornali li abbiano inventati apposta….

    Che un maggior numero di persone utilizzi la rete per informarsi e tenersi in contatto non è di per se segno di una coscienza sociale più diffusa.

    Lo è però l’apertura verso un certo tipo di notizie con le quali in rete, soprattutto grazie ai social network, si entra in contatto.

    E, tra i social network, se twitter è il caffé letterario, facebook è la piazza. Bar malfamato compreso.

    Con twitter si ha la possibilità di influenzare gli opinion maker, con facebook è possibile diffondere, anche sfruttando i media ufficiali, le proprie istanze.

    Non è un caso che le parole con cui Brunetta definiva i precari la “parte peggiore d’Italia” siano state diffuse da Repubblica tv , prima di circolare viralmente per la rete.

    E non è un caso che l’occupazione del teatro Valle a Roma non abbia avuto la stessa risonanza.

    Grossa parte del “popolo della rete” cerca ancora il sensazionalismo, proprio come il “popolo della tv”.

    Ma non è neanche un caso che alla propaganda politica si stia agganciando la réclame tout court.

    Gli istituti di marketing, o i pionieri del marketing online, hanno registrato un cambiamento d’opinione diffuso, e cercano, in maniera ancora rozza, di sfruttarlo commercialmente.

    Anche Grillo si è reso conto che qualcosa sta cambiando, e cerca di intercettarlo .

    E’ l’#italianrevolution?

    Macché! E’ solo un movimento di stanchezza più che di opinione, che per il momento si è espresso per lo più secondo il vecchio schema elettoralistico e premiando, Grillo a parte, i partiti tradizionali.

    Può diventare qualcosa di più?

    Forse si… Magari un segnale lo danno la Banda Bassotti e Zulù che cantano insieme, la scena hip hop italiana degli anni’90 che si riaffaccia su twitter lanciando eventi reali, i centri sociali che utilizzano massicciamente la rete…

    Boh? Staremo a vedere.

    Se nella società avviene qualcosa ne sentirete parlare su twitter e su facebook.

    Se il movimento sarà davvero dal basso prima su facebook che su twitter…

  23. Credo sia importante non dimenticare che in Italia la raccolta firme per un referendum si fa ancora con carta, penna e banchetti per strada. Senza le persone che si sono date da fare in quest’impresa molto novecentesca, non saremmo nemmeno andati a votare. Un grazie a loro, quindi, prima di ogni altra valutazione sull’impatto dei social network e di YouTube.
    Ma se in futuro si aprisse la possibilità di raccogliere le firme anche in rete? Che succederebbe? Tutto uguale a prima? Oppure l’istituto referendario ne uscirebbe potenziato, capace di coinvolgere fin da subito molte più persone? E magari qualcuno avrebbe nostalgia del tempo in cui “ci si sbatteva davvero”, quando incontravi la gente nelle piazze e non bastava buttare lì un “mi piace” come nel tanto denigrato clicktivism? E di quanto bisognerebbe innalzare, a quel punto, il numero di firme da raccogliere?

  24. @Benedetto Pietraviva
    “E’ l’#italianrevolution?

    Macché! E’ solo un movimento di stanchezza più che di opinione, che per il momento si è espresso per lo più secondo il vecchio schema elettoralistico e premiando, Grillo a parte, i partiti tradizionali.”
    Puoi spiegarmi come sei giunto a questa conclusione?

    Per il resto, sono perfettamente d’accordo con Wu Ming 2: il referendum è stato possibile grazie a gente che s’è sbattuta stando fisicamente per le strade e nelle piazze a raccogliere le firme prima e a fare campagna poi.

  25. @Adrianaaaa

    A dire il vero quella che citi non è la conclusione ma l’ipotesi dalla quale sono partito…

    Sono convinto che in Italia sempre più persone sono stanche della condizione e del contesto in cui sono costrette a vivere.

    E’ un disagio che si manifesta in vari modi, ma che non è ancora esploso in tutto il suo potenziale.

    Un movimento vero e proprio non è ancora nato. Ci sono tanti, piccoli o grandi, movimenti specifici: gli studenti, i no tav, gli operai, i precari (che spesso sono operai), ecc.

    Ma si fatica ancora a fare rete (non nel senso di internet). Anche se il 14 dicembre e la manifestazione della Fiom in ottobre sono state un bel passo in quella direzione.

    Per il momento non c’è ancora una rottura netta. Molti sperano che venga un messia a liberarci, sia esso Grillo, Vendola o Bersani.

    Sono i postumi del berlusconismo. Prima o poi passeranno, almeno spero.

    Ma, di fatto, nel paese qualcosa si muove.

    @Wu Ming 2

    Non metto in discussione il lavoro fatto da chi ha raccolto le firme per i referendum.

    Ho un immaginario talmente novecentesco da essere ancora convinto che quello che è successo in Italia tra ottobre e dicembre sia di gran lunga più incisivo e innovativo di quanto successo in Spagna.

    Ma sono anche convinto che un “mi piace” su facebook non è poi così semplice e scontato.

    Se lo fosse, anche nel periodo di raccolta delle firme i contenuti, che comunque i comitati postavano, sarebbero circolati con la stessa frequenza del periodo immediatamente precedente al referendum.
    Così non è stato.

    Dietro quei “mi piace” non c’è la rivoluzione, ma una presa di coscienza minima, che magari ti porta a votare Pisapia o De Magistris, sì.

    E’ poco, pochissimo. Soprattutto vedendo Tabacci nella giunta milanese, o il Torquemada napoletano in quella partenopea. Ma c’è.

    Se in futuro si aprisse la possibilità di raccogliere le firme in rete io sarei contrario a un innalzamento della soglia. Non è poi così scontato raggiungere le 500mila firme. Dipende dai momenti.

    Però penso che tu, più che il futuro, descrivi quello che Wu Ming 1 chiama “presente invecchiato”.

    Parli di un futuro condizionato da un berlusconismo infinito, che non può che portare le persone a essere imprigionate nella rete dopo essere state prigioniere della tv.

    Non mi piace.

    Io vedo, forse sbagliando, qualcosa di diverso.

    Quei “mi piace” spesso si trasformano in una partecipazione attiva all’evento specifico, altre volte portano a un’emulazione sul proprio territorio di pratiche e iniziative lontane chilometri e di cui non saresti mai venuto a conoscienza, almeno non in così breve tempo.

    Altre volte ancora si tramutano semplicemente in chiacchiera da bar o da pausa caffé. E non è poco, anche quello contribuisce a “fare opinione”.

    Se andasse a finire nel modo che descrivi, sarebbe una fine disastrosa.

    Ma, secondo me, saremo in grado di capire che il semplice attivismo da tastiera, senza la protesta diffusa (e l’assedio ai palazzi del potere che quanno ce vo’ ce vo’) non serve assolutamente a niente. Anzi fa il gioco dell’avversario.

    Poi, ovvio, non siamo ancora fuori dal berlusconismo.

    Anzi, ti dirò di più: il prossimo Berlusconi sarà di Bari e avrà l’orecchino. :-D

  26. Il problema è che, quando si affronta quest’argomento, la “macchina mitologica” dei nostri discorsi (alimentata dall’ideologia che, volenti o nolenti, respiriamo tutti i giorni) ripropone un mito, una narrazione tossica: la tecnica come forza autonoma, realtà che si evolve da sola, spontaneamente, teleologicamente. Quindi non si vedono i rapporti di classe, di proprietà, di produzione: se ne vede il feticcio.
    [E il feticcio della rete trasforma ogni discussione in un confronto tra presunti “apocalittici” e “presunti integrati”.]

    E allora torna utile il Marx delle pagine sul feticismo della merce (corsivo mio): “Quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto fra cose è soltanto il rapporto sociale determinato fra gli uomini stessi”.
    “Forma fantasmagorica di un rapporto tra cose”. Un po’ come i computer interconnessi a livello mondiale. Ma dietro c’è un rapporto sociale determinato, e Marx intende: rapporto di produzione, rapporto di sfruttamento.
    Aspetti del reale che la retorica sulla rete tende a occultare.

    Infatti, si può parlare per ore, giorni, mesi de “la rete” sfiorando solo occasionalmente il problema di chi ne sia proprietario, di chi detenga il controllo reale dei nodi, delle infrastrutture, dell’hardware. Ancor meno si pensa a quale piramide di lavoro (anche para-schiavistico) sia incorporata nei dispositivi che usiamo (computer e smartphone), e di conseguenza nella rete, come ricordava qui Tuco tempo fa.

    Tutto questo viene occultato in quella nuova forma di “feticismo della merce” che è la retorica sulla rete come mondo-a-parte e/o come strumento di liberazione.
    Ci sono multinazionali che tutti i giorni, in rete, espropriano ricchezza sociale, eppure sono considerate… “meno multinazionali” delle altre. Finché non ci si renderà conto che Facebook è come la Monsanto, che Google è come la Novartis, che fare l’apologia di una mega-azienda (come spesso vedo fare ai devoti di Apple) è la pratica narrativa più tossica che ci sia, si tratti di Google o FIAT, di Apple o Nestlé… Finché non ci si renderà conto di questo, non ci sarà “liberazione” che tenga.

    Anch’io ho un Mac, e ho un iPod. Ma, a differenza di altri, non occulto lo sfruttamento che sta a monte di questi prodotti. Non occulto il lavoro senza tutele né diritti sindacali (“Made in China”: ogni tanto ci pensiamo a cosa significhi *davvero*?) incorporato nella macchina che sto usando. Mi sforzo in ogni momento di *de-feticizzare*, e so che è uno sforzo improbo, ma bisogna compierlo.

    E’ per colpa del tecno-feticismo che ogni giorno si pone l’accento solo sulle pratiche liberanti che agiscono la rete (pratiche su cui, per essere chiari, noi WM scommettiamo tutti i giorni da vent’anni), descrivendole come *la regola*, implicitamente derubricando come “eccezione” la plètora di pratiche assoggettanti: la rete usata per sfruttare e sottopagare il lavoro intellettuale, usata per controllare le persone, per identificare e omologare, per imporre nuovi idoli e feticci, per alimentare nuovi conformismi, per veicolare l’ideologia dominante, per gli scambi del finanzcapitalismo che ci sta distruggendo etc.
    [E invece sono “regola” tanto quanto le altre. Anzi, a voler essere precisi, sono “regola” più delle altre, se rintracciamo e risaliamo la *genealogia* di Internet, che nasce come rete militare…]

    Il dilemma non è se la rete produca liberazione o assoggettamento: produce sempre, e sin dall’inizio, entrambe le cose. E’ la sua dialettica, un aspetto è sempre insieme all’altro. Perché la rete è la forma che prende oggi il capitalismo, e il capitalismo è in ogni momento contraddizione in processo. Il capitalismo si affermò liberando soggettività (dai vincoli feudali, da antiche servitù) e al tempo stesso imponendo nuovi assoggettamenti (al tempo disciplinato della fabbrica, alla produzione di plusvalore). Nel capitalismo *tutto* funziona così: il consumo emancipa e schiavizza, liberazione che è anche nuovo assoggettamento, e il ciclo riparte a un livello più alto.

    La lotta allora dovrebbe consistere nell’acuire la contraddizione: far leva sulla liberazione per combattere l’assoggettamento. Moltiplicare le pratiche liberanti e usarle contro le pratiche assoggettanti. Ma questo si può fare solo se si smette di pensare alla tecnica come forza autonoma e si torna a vederla come plasmata e indirizzata da relazioni di potere e rapporti di produzione.

    In parole povere:
    smetterla di feticizzare “la rete”, di raccontarla solo come insieme di pratiche liberanti. Tornare a chiedersi: chi sono i padroni della rete? E chi sono gli sfruttati *dalla* rete?
    Rispondere non è poi tanto difficile: basta leggere le “Norme di utilizzo” dei social network a cui siamo iscritti; basta leggere le licenze del software che utilizziamo; basta digitare su un motore di ricerca l’espressione “Net Neutrality” e vedere che po’ po’ di dibattito ci sia stato in materia negli ultimi anni.

    E poi, altro interessante esercizio mentale: andare a vedere quale sia il ciclo produttivo del litio grazie al quale funzionano i nostri computer e telefonini…

    Etc. etc.

  27. L’alchimia è perfetta. Gli ingredienti ci sono tutti, e il tempo è adatto. Da oggi si entra di nuovo in fase acuta di collasso finanziario, e quest’ultimo giro di giostra (è sempre l’ultimo) prevede che stavolta al centro ci siamo noi.
    Ne avevo accennato qualche settimana fa, e oltre un anno addietro qui da qualche parte avevo esternato la convinzione che l’ovvia preda finale (sono sempre finali) dell’onda speculativa sul debito euro, terza fase del big crash 2.0., non potesse che essere l’italia.
    Troppi interessi convergenti, e condizioni ideali: la torta degli interessi sul debito molto appetitosa per molti, la più succulenta; il pilastro più debole, ma sempre pilastro, da attaccare per far crollare davvero la delicata impalcatura europea; una congiuntura politica terminale, con una leadership, un governo e un’intera classe dirigente giunta al massimo del discredito, dell’anacronismo e della palese inadeguatezza ad affrontare le dinamiche internazionali.
    I venti e passa milioni di cittadini che con il doppio voto hanno mostrato voglia di coinvolgimento devono sapere che non basterà. Si tratta di uno sforzo propedeutico, ma ben lontano dall’essere sufficiente. Ben altre prove si affacciano come imminenti.
    Se fossi stato Sbancor – cazzo se mi manca,- avrei descritto nel dettaglio le mosse appena avvenute e quelle a venire, la direzione precisa verso cui muovono i flussi, e cifre, e aneddoti tanto divertenti quanto agghiaccianti.
    Ma non lo sono, dunque affidatevi al vostro istinto, annusate l’aria, state in campana.
    Si discute molto, ed è anche giusto, dell’importanza dei social network, ma sottovalutare che nello stesso tempo impiegato da un tweet si trasferiscono decine di milioni, che diventano centinaia, che diventano migliaia, sarebbe letale.
    Solo la propaganda e i trucchi contabili hanno negato finora la natura strutturale e profonda della recessione in corso.
    Siamo nel pieno del “double dip”. E altre ondate seguiranno.
    Il ’29 durò dieci anni, e venne risolto da una guerra mondiale.
    In questo ci siamo appena entrati.
    Il meteorologo inarca il sopracciglio. Piovono pietre, uscite con l’elmetto giallo.
    L.

  28. Oggi abbiamo WM1 nella sua versione luddista…

    Battute a parte è fuori di dubbio che “la rete” è uno strumento e non uno stato (mentale, fisico, di aggregazione, sociale, ecc.) perchè se non partiamo da questo assunto il rischio è quello di cambiare solo giogo.
    Per esempio mi sembra aberrante (marxisticamente parlando) che l’ipad 2, non abbia hard disk e si possano immagazzinare i propri lavori su un frame di un server Apple. Facile comprendere quali possono essere le conseguenze ultime sui vincoli che si vengono a creare.

  29. @ Luca

    “sottovalutare che nello stesso tempo impiegato da un tweet si trasferiscono decine di milioni, che diventano centinaia, che diventano migliaia, sarebbe letale”

    Esatto! Ed è *rete* anche quella. E’ una delle pratiche che più “agiscono” la rete, solo che il capitale è un deus absconditus, il denaro è una divinità nascosta in tutte le cose, talmente implicita e innervata nel sociale (non è mica roba da santoni della finanza: *tutti* spostiamo soldi con un click, basta avere un conto corrente on line!) che a *questa* pratica non ci pensiamo.

  30. A proposito di pratiche suppostamente liberanti che invece si rivelano escludenti:
    “Anche la ragazzina goffa che sono stata ha il diritto di sopravvivere.”
    Lara Manni sul “darwinismo sociale” in rete
    http://bit.ly/in9nae

  31. @Wu Ming 1

    Condivido in pieno quanto hai scritto.

    Ma non trovi che sia già una contraddizione il fatto che le stesse multinazionali mettano a disposizione strumenti mediante i quali è possibile far circolare un messaggio diverso?

    E non è forse una contraddizione che i modelli matematici utilizzati per *pianificare* l’attività delle loro aziende siano stati ideati nei paesi del socialismo reale?

    Non è una contraddizione produrre “on demand” quando si ha bisogno di incentivare sempre più i consumi al fine di garantirsi maggiori profitti?

    Forse la crisi che Luca sente nell’aria è anche (ma non solo e non principalmente) frutto di queste contraddizioni.

    Forse anche definire il contemporaneo “capitalismo maturo” è “presente invecchiato”.

    E se fossimo in una fase ancora di transizione? E se il capitalismo non fosse ancora maturato del tutto perché i capitalisti non hanno un’idea ben chiara di cosa voglia dire maturità per il loro sistema?

    E se invece quell’idea la hanno, ma confligge con quella di altri capitalisti?

    E’ inevitabile la nostra sconfitta e il dominio della loro ideologia in una fase simile?

    Credo di no. E nell’aria oltre che crisi sento il profumo del cambiamento possibile.

    Non è scontato. Ma non è scontato neanche prendere l’ennesima scoppola.

  32. Niente è scontato.
    Ci sono masse di centinaia di milioni di persone in movimento.
    Non si fermeranno, qualunque cosa accada qui che, pur essendo il nostro buco del culo, è sempre un bucodiculo.
    Il capitalismo non è maturo. Il ‘presente invecchiato’ del capitalismo odierno è l’idea che ha di ‘futuro decrepito’.
    Che non ha alcuna possibilità di reggere l’impatto con la realtà sistemica e complessa che è in moto. L’ossessione totemica per la crescita, giunta fino alla superstizione, produce rovina. Le guerre non destinate a finire.
    Sono in corso scontri alla fine della galassia, si odono sordi boati e cupi lampi baluginano. Il senso stesso di vicino e lontano si contrae, e provoca brividi e vertigine.
    Bisognerà accettare di remare, o nuotare, senza vedere costa, per un pezzo.
    Ci vuole una certa dose di coraggio. O anche solo essere capitati per sbaglio sulla barca.
    L.

  33. Che anche in rete ci siano multinazionali è un dato di fatto, sono ovunque nel nostro mondo.Di fatto viviamo in un mondo capitalista in cui tendono a crearsi grosse corporation. E la produzione di tecnologia informatica è un ambito come un altro, nessuno ha mai detto che sia la realizzazione del comunismo. Mi sembra che in rete forse l’influenza e l’importanza del meccanismo proprietario sia inferiore che in altri ambiti. Rimane per la parte hardware, ma molto meno per quella software, che per tanti versi è quella più importante.

    Poi chiaro che ci sono anche delle cose negative. Secondo me quella più pericolasa è google. Mooooolto peggio di Microsfot e Apple. Ma poi perchè tutti ce l’avranno con la Microsoft? Anche questo Zizek “Steve Jobs is no better than Bill Gates” Perchè qualcuno ha mai pensato che lo fosse?

  34. @pedrilla

    “Mi sembra che in rete forse l’influenza e l’importanza del meccanismo proprietario sia inferiore che in altri ambiti. ”

    ti faccio solo un esempio che conosco bene: l’ editoria scientifica.

    Gli articoli scientifici che io (come chiunque altro faccia ricerca) pubblico su riviste Springer o Elsevier sono in vendita online a 35$. Di questi 35$ sai quanti mi spettano? esattamente 0$ (zero dollari). Okay, io sono pagato dallo stato ecc. Ma ad esempio un ricercatore a contratto? Questo per dire (tra l’altro) che i precari della ricerca avrebbero forse piu’ motivi per prendersela con Springer che con Gelmini. La rete e’ uno strumento ormai imprescindibile per chi fa ricerca scientifica: i database permettono di fare in pochi secondi ricerche bibliografiche che fino a vent’anni fa avrebbero richiesto settimane. Ma contemporaneamente la rete ha permesso alle multinazionali dell’ editoria di fare profitti incredibili sfruttando di fatto il lavoro intellettuale di chi fa ricerca (per tacere dei tipografi indiani…)

  35. @tuco mi riferivo a un altro aspetto. A quello della “produzione” del mondo rete. In tutti gli aspetti della nostra vita molto di quello che utilizziamo è prodotto da multinazionali. Se bevi un caffè, se mangi un panino, se prendi un treno, ecc. Molto di ciò è basato su produzione capitalistica con sfruttamento della manod’opera ecc. Dicevo che nell’ambito rete questo aspetto è forse meno preponderante che in altri ambiti. Buona parte di quello che c’è (nel software) non viene da quella catena di produzione. Un po’meno comunque di quello che c’è nella produzione di altre cose.

  36. @tuco

    tra l’altro credo che l’industria editoriale coi supporti elettronici festeggerà ben bene per un po’e poi rischia la fine di quella musicale…

  37. @Pedrilla: forse non sai come vengono prodotti una grandissima parte dei contenuti che trovi in rete, come funziona “l’indotto” di un bestione come google. Prendi l’industria dei SEO, che deriva direttamente dagli algoritmi di Google. Non ho idea di quante persone impieghi, ma so, per esperienza personale, che è gente che lavora a cottimo, in outsourching, per cifre ridicole. Ed è un tipo di attività fondamentale in rete, in cui qualunque sito commerciale deve investire. Qualunque ricerca di prodotti tu fai su google, ha comportato questo lavoro, sfruttatissimo.

  38. @ pedrilla

    il tuo penultimo commento io, devo dire, non l’ho capito.
    Dici che in rete forse gli assetti proprietari “contano meno”. La mia netta sensazione è che contino *molto di più* che nell’industria tradizionale. Praticamente, sono l’unica cosa che conti davvero. Se gli assetti della proprietà intellettuale non garantissero alle grandi corporation di parassitare l’intelligenza collettiva profusa ogni giorno in rete da centinaia di milioni di persone, non esisterebbe il NASDAQ-100:
    http://en.wikipedia.org/wiki/NASDAQ-100

    Facciamo conto che tu sia uno dei settecento milioni di utenti che ogni giorno usa Facebook. Ogni giorno immetti contenuti nel network: contenuti di ogni genere, non ultimo contenuti *affettivi e relazionali*. Sei parte del “general intellect” brulicante su Facebook. Insomma, Facebook esiste e funziona grazie a quelli come te. Di cos’è il nome Facebook se non di questa intelligenza collettiva, che non è prodotta da Zuckerberg e compagnia, ma dagli utenti?
    Tu su Facebook di fatto *lavori*. Lavori senza essere pagato. Sono altri a guadagnare dal tuo lavoro.
    Zuckerberg ogni giorno si vende il tuo pluslavoro (e su FB il tuo lavoro è tutto pluslavoro, perché appunto non vieni pagato), cioè si vende la tua vita (i dati su di te, i pattern della tua navigazione etc.) e le tue relazioni, e guadagna circa nove milioni di dollari *al giorno*.
    Ogni giorno Zuckerberg espropria una consistente fetta del tuo essere sociale.

    Tutto questo perché lui è il proprietario, tu no.
    Alla faccia degli assetti che non contano!

    Aggiungici che quando si dice “multinazionali in rete” non si intendono solo i “titoli tecnologici” in senso stretto. Sono multinazionali in rete PayPal, MasterCard, American Express, Deutsche Bank, Barclay, tutte le corporation finanziarie e bancarie. Ma in generale *tutte* le multinazionali hanno ormai imprescindibili articolazioni sul web, e al web devono gran parte della loro “operatività”.

    Sul perché tutti ce l’abbiano con Microsoft…

    Forse perché, nonostante i suoi prodotti siano in gran parte scadenti e non esattamente lo “stato dell’arte” in nessun settore, Microsoft trae enormi profitti per pura forza d’inerzia, grazie a primordiali espropriazioni d’intelligenza, antiche “recinzioni” del sapere colettivo, vetuste posizioni dominanti negoziate col potere politico.

    Per fare un esempio, Microsoft, accordandosi con classi dirigenti arretrate e/o corrotte (e in ogni caso leccacule), da decenni impone i suoi scrausi prodotti alle amministrazioni pubbliche del mondo, anche a quelle di paesi poveri e poverissimi, facendo pagare onerose licenze. Si tratta di risorse finanziarie sottratte a investimenti ben più importanti, quando invece il software libero farebbe risparmiare.
    Mi risulta che la sola Pubblica Amministrazione italiana, nel 2009, abbia speso 27 milioni di euro in licenze Microsoft. Figurarsi quanto si è presa l’azienda in vent’anni e passa. E figurarsi quanto si prende ogni anno a livello mondiale, contando tutto l’indotto dei corsi di aggiornamento, degli upgrade etc.

    Se si parla di parassitismo, Microsoft è la quintessenza del parassita. Le modalità in cui il software, da libero quale era in origine, divenne proprietario, dipendono in gran parte dall’operato di Bill Gates, a partire dalla sua “Lettera aperta agli hobbisti” del 1977.

    Sul fatto che nessuno abbia detto che Internet è il comunismo:
    fidati, che qualcuno a suo tempo lo ha detto eccome :-)
    E comunque, il comunismo no, ma di retorica sull’equivalenza Internet = libertà, Più Internet = Più democrazia etc. ne abbiamo piene le tasche. Per i motivi che ho cercato di spiegare, io non ritengo affatto vero che “Più Internet” sia *automaticamente* “Più libertà e democrazia”. Solo chi crede che la tecnologia sia una forza autonoma può pensare una cosa del genere. E per questo viatico si giunge a narrazioni del futuro orrende, di “totalitarismo soffice”, come quella del video della Casaleggio & Associati linkata qualche giorno fa.
    Saranno dei conflitti durissimi a determinare se alla crescita di Internet corrisponderà un primato delle pratiche di liberazione su quelle di assoggettamento.

  39. @pedrilla

    beh, ma la creazione dei database, la scannerizzazione di tutto il cartaceo pregresso ecc. *sono* produzione del (oltre che nel) mondo rete (tra l’altro, buona parte del pregresso sovietico e’ rimasta fuori…).

    comunque per l’editoria scientifica non andra’ come per la musica, perche’ per vincere i concorsi o ottenere finanziamenti per i progetti bisogna pubblicare su riviste che abbiano un “rating” elevato. e qui comincia tutto un altro discorso, quello della “valutazione oggettiva” (esticazzi). tutta la baracca del rating e’ stata messa su quando le case editrici si sono rese conto che la comunita’ scientifica, grazie alla rete, avrebbe potuto autogestire il processo di revisione e pubblicazione.

  40. Ricollegandomi a quel che scriveva piu’ sopra wm1: un altro esercizio utile e’ chiedersi dove vadano a finire i nostri feticci tecnologici quando diventano obsoleti (cioe’ in media dopo sei mesi di utilizzo)

    http://www.terranauta.it/a1791/rifiuti_e_riciclo/i_nostri_rifiuti_tecnologici_armi_di_distruzione_di_massa.html

  41. “immateriale” un cazzo!

  42. @ tuco

    Infatti. Il lavoro incorporato in una merce elettronica comprende anche quello (indegno, nocivo, ai limiti del disumano) che occorrerà per “smaltirne” la carcassa. E il ciclo è sempre più veloce, l’obsolescenza di un computer (o di un tablet, telefonino, palmare, iPod etc.) è pianificata su tempi brevissimi, praticamente sono “vecchi” appena svoltato il primo angolo.

    Chi dice che oggi non vale più la teoria del valore-lavoro, ultimamente fa l’esempio dell’iPad, e dice: il lavoro fisico compiuto dall’operaio per assemblare un singolo tablet è davvero poca roba, il valore del tablet è dato esclusivamente dal software e dalle applicazioni che ci girano sopra, quindi dal lavoro mentale, di ideazione e programmazione. Lavoro che non è scomponibile in procedure misurabili, quindi non è quantificabile in termini di ore-lavoro.

    Questo metterebbe in crisi l’idea marxiana che – taglio con l’accetta – il valore di una merce sia dato dalla *quantità* di lavoro che essa incorpora.

    Io non sono un esperto di economia politica, ma mi sembra che i due livelli coesistano, e che la teoria del valore-lavoro venga liquidata troppo in fretta. Il suo nocciolo di senso (il suo nocciolo “filosofico” e concretissimo) permane anche col mutare delle condizioni.

    Il problema è che, pur essendo il lavoro molto più “socializzato” che ai tempi di Marx e pur essendo i processi produttivi più complessi (e il capitale più condizionato da limiti esterni, cioè ambientali), nel fare quest’esempio si *accorcia la filiera* e si *isola l’atto dell’assemblaggio*, prendendo in considerazione l’assemblaggio di un singolo iPad.

    Invece bisognerebbe prendere in considerazione la mole di lavoro lungo l’intero ciclo produttivo di un’intera infornata di tablet (o di laptop, o di smartphone, quel che vi pare): dal reperimento sempre più problematico di una materia prima come il litio (c’è in pochissimi posti al mondo, in quantità limitate, e per giunta ci sono problemi geopolitici) fino al lavoro di merda di chi si avvelenerà per smaltire le carcasse (trattandosi di obsolescenza *pianificata*, quel lavoro è già incorporato nella merce), passando per il lavoro senza tutele degli operai cinesi, per le nocività esperite da chi lavora nell’industria petrolchimica che produce la plastica etc. etc. etc.

    Prendendo in considerazione *tutto questo* (e io credo che prenderlo in considerazione sia inevitabile), si vedrà che un iPad di lavoro *fisico* (lavoro di merda, sfruttato, sottopagato, nocivo etc.) ne incorpora un bel po’.
    Se poi sia quantificabile in termini di tempo, io questo non sono in grado di dirlo. Probabilmente no. Ma quando buttiamo via un telefonino perfettamente funzionante perché il nuovo modello ha più funzioni, teniamo conto che stiamo buttando via ore e ore e ore di vita rubata a lavoratori, sovente pagati con due lire e un calcio nel culo.

  43. @ tuco

    io intendevo l’editoria in generale. Ora secondo me si sollazzano con l’idea di farti pagare gli ebook con un margine maggiore di quello che hanno sui libri di carta senza grosse spese, ma poi mi secondo me verrano un po’travolti come l’industria musicale. Ecoo il bello della rete da questo punto di vista è che secondo me è che si spezza il potere che c’è sulla distribuzione, su cui tante realtà campano

    @ wu ming 1

    Non mi sono spiegato bene o forse il tuo “non l’ho capito” era un eufemismo per dire che ho detto una vaccata :)

    Quello che volevo sottolineare è che mentre in quasi tutti gli ambiti (trasporti, energia, medicina, alimentare, abbigliamento,ecc.) la stragrande maggioranza delle cose sono il risultato di produzione di tipo capitalistico con sfruttamento del lavoro ecc. Nel software non è così. Ci sono *anche* parecchie cose venute fuori in altro modo (protocolli di comunicazione, free software, web servers ecc.) Poi anche li ci sono multinazionali e ci sono imprese. Mica dico di no. Però mi sembra uno dei pochi campi in cui quello che viene usato in massa non è solo quello.

    Sulla Microsoft la mia era un po’una battuta, nel senso che ho incotrato una marea di gente che odiava la Microsoft ma era fan di Apple (la frase di Zizek mi ha stimolato) o addirittura di IBM (!!!!) e alla fine mi sembra che l’odio verso di loro sia un po’ ingiustificato. Alla fine si sono sempre occupati di vendere software che non mi sembra una cosa pessima. Qualche volta avranno anche sfruttato posizioni dominanti sul mercato, molto del loro software era più scadente di alterative anche free, ma questa non mi sembra una grandissima pecca. Le amministrazioni pubbliche lo usano per tanti motivi. Tra cui la necessità dell’assistenza, facilità d’uso, arretratezza di chi fa scelte, volontà di pararsi il culo delle amministrazioni ecc.

    Sui social network hai ragione. Siamo noi utenti che facciamo i contenuti e qualcun’altro li monetizza. Ecco a me non sembra di lavorare quando ci accedo ma comunque qualcuno si arrichisce grazie alla mia attività in cambio dell’opportunità di comunicare e tenermi in contatto con la “rete” dei miei contatti.

    p.s: non lavoro alla Microsoft, ma in un’altra società di software

  44. Non dimentichiamoci anche dell’apertura dell’articolo di Zizek.
    Anche internet, nella sua immaterialità, è assolutamente materiale. I server e i cavi su cui gira internet sono fatti di plastiche e metalli che qualche operaio ha prodotto ed estratto (lavoro di merda). Questi server, e i nostri computer, hanno poi bisogno di energia.

    Imho, tutto ciò mostra come il feticismo e la mistificazione siano forti e ci nascondano quasi del tutto i rapporti sociali tra noi!

  45. Salve a tutti.
    Alcuni commenti sull’interessante dissertazione su marxismo e software.
    Alcuni anni fa era diffusa la convinzione che il lavoro informatico di sviluppo software potesse essere assimilato al lavoro artigianale, o di corporazione. Può anche darsi fosse vero, benché dubito che in Italia il fenomeno abbia mai avuto una rilevanza di una certa importanza. Certo serviva abilità, certo era possibile raggiungere buoni livelli di capacità produttiva con una discreta dose di iniziativa e poco investimento capitale. Sia mai stata reale o no questa visione è chiaramente stata superata in fretta dagli eventi. Consapevolmente, direi. La forza lavoro è stata accentrata e la cooperazione, insieme allo sviluppo tecnologico (che è un’altra caratteristica vitale del capitalismo fin dalle origini) ha fatto schizzare in alto la sua produttività. Conseguenze immediate sono state la dequalificazione dei lavoratori di periferia, e l’aumento della percentuale di capitale fisso su quello variabile. Così credo sia corretto definire l’odierna situazione in cui la stragrande maggioranza dei lavoratori ‘scrittori’ di software lavorano adattando pacchetti preprodotti. Il fatto che alcuni di questi pacchetti, possiamo considerali mateire prime o mezzi di produzione, vengano forniti gratuitamente non fa che ritardare le ricadute del fenomeno. Un’altra grande rimozione cui assistiamo, infatti, è l’illusione che tutti dovremmo essere in grado di assemblare e produrre software a vari livelli, in barba al principio della divisione del lavoro (per non parlare del mondo orrendo che sarebbe quello in cui tutti fossimo sviluppatori!). A mio parere insomma, l’industria del software non ha fatto che seguire lo stesso percorso di ogni altra industria capitalistica. Dire microsoft è brutto o steve jones è cattivo non coglie l’essenza del fenomeno. L’illusione è quella che un mezzo di comunicazione possa modificare l’essenza dei rapporti di produzione.

    Ho qualche dubbio sul fatto che FB utilizzi il pluslavoro dei suoi utenti: non è un po’ come dire che l’industria inglese del pennino sfruttasse il pluslavoro degli scrittori di lettere?

    Mi fermo qua, credevo di sbrigarmela molto prima, scusate :)

  46. @ betsasar
    Sul fatto che i social network sfruttino il pluslavoro (lo chiamerei plusattivtà o pluscazzeggio piuttosto) non ci sono dubbi. Nel senso che il loro valore dipende da quanti e di che qualità sono i contenuti. Non dalla piattaforma in se. Cioè se gli utenti non scrivessero niente nessuno guarderebbe e non varrebbero niente. Il pennino valeva in quanto pennino, il prodotto finito che vendevano i venditori di pennini era il pennino. Qui invece è l’accesso.

    Tra l’altro la prossima bolla finanziaria che esplode sono questi, visto che come facciano proprio i ricavi non è chiarissimo

  47. Mi sembra un paragone del tutto fuorviante. Un pennino e’ un mero utensile funzionale, e chi lo vende non mette a profitto le facolta’ intellettive e relazionali di chi lo usera’, ma solo il lavoro che e’ servito per produrlo. Un pennino e’ come una cartuccia di toner, e una cartuccia appartiene a un altro insieme e a un altro ordine di discorsi rispetto a un social network, che e’ un’impresa. Impresa basata su un crowdsourcing non dichiarato, che affida ai suoi stessi clienti la produzione di contenuti e socialita’, senza remunerarli e traendone profitti stellari mai redistribuiti.

  48. @beltasar

    Che il proprietario di FB sia miliardario è un dato di fatto. :) da qualche parte avrà pur tirato fuori il suo plusvalore!

    Che questi meccanismi non siano semplici da conprederee realizzare è un altro dato di fatto. Di FB ce n’è uno, di social network una valanga, ma non tutti stanno facendo profitto. Credo che Twitter non abbia ancora risolto appieno questo problema, ad esempio. Di dati – testo, audio, video, link, geo – ne ha un casino, comunque. Una delle ultime migliorie fatte da Twitter è stata, non a caso, sul suo Search…

    Poi si potrebbe tirare in ballo il discorso delle bolle che il capitale sfrutta, e i social network sembrano appunto una di esse.

    Ciao

  49. @ pedrilla
    Credo che la difficoltà sia nel definire il prodotto, ma quello che tu stai dicendo è soltanto che, quale che esso sia, il prodotto debba avere una utilità sociale. Ma se non l’avesse, non sarebbe una merce. Non è l’uso che crea il valore, ne è soltanto un prerequisito.

  50. @beltsasar
    Non dico che un prodotto debba avere un utilità sociale.
    No quello che dico è che il pennino vale per quello che è indipendentemente dall’uso che ne farà chi lo usa. È un oggetto finito quando esce di fabbrica. Il social network invece è fatto da ciò che ci sta dentro, dai contenuti che la gente ci mette. È questo che ne fa il valore non tanto la piattaforma tecnologica. In questo senso wu ming 1 dice sfrutta il pluslavoro degli utenti

  51. @beltasar

    Le carte clienti dei supermercati che contengono info sul cliente e su cosa compra esistono da tempo in tutti i supermercati. :) Questo per dire che avere info sulle persone a scopi commerciali fa sempre piacere. Su FB la gente mette info personali e indica – con i tasti Like – tutto ciò che interessa loro: musica, film, serie tv, personaggi, marche di vestiti, di computer, etc. Che tutto questo sia allettante è innegabile. E infatti FB, che tra l’altro ti obbliga ad usare il tuo nome reale, è primo.

    Per Twitter non è sicuramente la stessa cosa.

    Il punto generale comunque credo sia leggermente diverso. Il discorso che ho accennato delle bolle c’entra (se ne è parlato recentemente un po’ su twitter recentemente tra l’altro…). “Irrazionale razionalità”, ne parla questo articolo di qualche giorno fa: http://www.newyorker.com/reporting/2009/10/05/091005fa_fact_cassidy
    Chi investe milioni di $$$ nei social network non è sicuro che questo investimento vada a buon fine (= il social network è merce e si estrae plusvalore); però non può non farlo (vedi articolo). Se va bene e tu ci sei, benissimo; se va male e ci sei, son cazzi; se va bene e tu non ci sei, sono cazzissimi.

    Ciao

  52. @wu ming 1
    Ok il pennino serviva a mettere in evidenza l’importanza di un ambiente favorevole e dell’utilità sociale della merce.
    Sto riflettendo sulla quistione, ma c’è qualcosa che non mi torna. In fondo il prodotto social network, creato dalla, appunto, rete degli utenti, non assume mai la funzione di merce. Il social network è gratuito e il suo prodotto visible non viene portato al mercato. Ciò che viene scambiato è, in effetti, la possibilità di pubblicizzare da un lato e estrarre informazioni dall’altro.
    Non tutti i profitti derivano dall’estrazione diretta di plusvalore e dubito fortemente che, per quanto dotati possano essere, gli utenti di facebook abbiano potuto creare valore per centinaia di milioni di dollari ‘cazzeggiando’.

    Spero di non concludere facendo un altro paragone idiota, ma non credo neanche che i profitti televisivi derivino principalmente dal plusvalore estratto da chi per la tv lavora.

  53. Introduco un concetto innovativo: chi possiede il capitale vuole massimizzare il profitto.
    Originale, vero?
    Ok, è come se vi avessi comunicato la scoperta della forza di gravità, però è ciò che devo avere sempre presente quando parlo della caduta dei gravi.
    Allo stesso tempo se parlo di merci devo avere presente che chi possiede il capitale, ha come obiettivo quello di massimizzare il profitto. Inultile cercarne il motivo, è così perchè se qualcuno non lo fa, c’è sempre qualcunaltro che lo farà obbligando il primo ad inseguire lo stesso obiettivo.
    Leggi di mercato, domanda-offerta, soddisfazione di bisogni, bisogni indotti, un po’ di tutto questo.
    Però così come non mi fido di Berlusconi, prima che per il merito politico delle sue decisioni, perchè è un miliardario e in quanto tale, come possessore di capitale, ha come scopo la massimizzazione del suo profitto, allo stesso tempo non mi fido di nessun imprenditore che sostiene di mettere sul mercato una merce, perchè questa “può migliorare la mia vita”.
    Ogni prodotto contiene una quota di lavoro materiale e una quota di lavoro immateriale. Francamente pesare l’uno e l’altro per capire quale dei due sia più importante mi sembra superluo, se si tiene conto che in ogni passaggio della filiera il prezzo di vendita praticamente raddoppia, quindi il costo di produzione diventa irrilevante rispetto al prezzo di vendita.
    Come dire: lo sfruttamento è ad ogni livello, che senso ha spaccare il capello per vedere dove sta la metà?

  54. “Spero di non concludere facendo un altro paragone idiota, ma non credo neanche che i profitti televisivi derivino principalmente dal plusvalore estratto da chi per la tv lavora.”

    Scusa la franchezza, ma non ci sei riuscito. Con tutto il rispetto, sia chiaro, ma le ville, il Milan, le aziende, gli immobili, non sono dei dipendenti di Mediaset (o come cavolo si chiama) ma del padrone.

    Aggiungo.
    Qualche giorno fa intervistavano un rappresentante sindacale della Verlicchi (non so chi abbia seguito la vicenda a Bologna). Si tratta di una azienda che fa telai per moto.
    Bene questo operaio, rappresentante sindacale, diceva, che se avessero i soldi la Verlicchi la comprerebbero loro, perchè è una azienda che ha delle professionalità che sanno fare un lavoro che le altre aziende non sanno fare. Chiaro dove sta il conflitto tra capitale e lavoro?
    Anche nelle televisioni.

  55. @beltsasar
    l’informazione e’ merce. La conoscenza e’ merce. Anzi, nel postfordismo o come diavolo vogliamo chiamarlo, e’ la merce delle merci. E’ forza produttiva e merce al tempo stesso, proprio come la forza-lavoro. La comunita’ che usa FB produce informazione (sui gusti, sui modelli di consumo, sui trend di mercato) che il padrone impacchetta in forma di statistiche e vende a soggetti terzi. Inoltre, lo stesso Facebook (la rappresentazione della piu’ estesa rete di relazioni sul pianeta) e’ una merce. FB puo’ vendere informazione solo se al contempo, e senza sosta, vende quella rappresentazione. Tutto questo e’ prodotto dagli utenti, non da Zuckerberg, ma i profitti se li gode solo lui. Questo e’, tecnicamente, sfruttamento. E quello della comunita’ che usa FB e’ lavoro gratuito. Producono qualcosa che un padrone vende traendone profitto. E’ lavoro invisibile, non percepito come tale, occultato grazie alla perniciosa ideologia della rete “dove siamo tutti uguali e cool”.

  56. I dati personali faccio fatica a darli ai carabinieri, figuriamoci a Zuckerberg!

    http://www.youtube.com/watch?v=HJLGtbJjfL0&playnext=1&list=PL32D0F9B749925170

  57. @ paco
    Probabile che io non ci sia riuscito, ma le tue obiezioni non reggono. Il fatto che in quanto finanziata soprattutto dalla pubblicità la televisione non viva principalmente di estrazione di pluslavoro dai suoi dipendenti non ha nulla a che vedere con la spartizione dei profitti.

    @ wu ming 1
    Io credo che l’informazione possa essere merce. Credo anche che sia una merce particolare, anche se non sono mai stato convinto che abbia effettivamente le caratteristiche che tu gli attribuisci. Ma quello che più mi lascia perplesso è l’utilizzo dei termini pluslavoro e plusvalore in un contesto definito di ‘lavoro gratuito’. In fondo lo sfruttamento del tempo libero per creare profitto non è una novità.

    Probabilmente la mia difficoltà nell’ accettare il tuo enunciato deriva da una mia valutazione diversa dell’importanza dei nuovi fenomeni che appaiono sulla rete.

    Comunque c’è da riflettere.

  58. @ beltsasar
    “pluslavoro” non e’ mica un concetto astruso: significa “la parte di lavoro che, pur producendo valore, non si traduce in salario ma in profitto del padrone, in quanto proprietario dei mezzi di produzione”.
    Ora, che FB in quanto mezzo di produzione sia proprieta’ di Zuckerberg e sodali mi sembra un dato di fatto. Che l’attivita’ degli utenti produca valore da cui il padrone trae profitto, idem. E siccome tale attivita’ e’ svolta gratis, a me pare sensato affermare che *e’ tutta pluslavoro*.
    Ti concedo che siamo sul filo del paradosso, ma e’ la realta’ stessa a sembrare paradossale, quando si esplicita cio’ che l’ideologia dominante mantiene implicito.
    Zuckerberg e’ un giga-miliardario perche’ sfrutta l’attivita’ non remunerata di oltre mezzo miliardo di persone, che producono valore per lui anche nel cosiddetto “tempo libero”. E’ un espropriatore dell’intelletto generale, un parassita.

  59. Tra i paradossi del capitalismo il mio preferito e’ che se uno si schianta con la macchina contro un platano produce valore. Volete che il pil aumenti? salite in macchina e schiantatevi contro il primo platano che trovate (va bene anche un tiglio).

  60. Solo un esempio riguardante la mancanza di percezione lavorativa di FB e dei social network in generale: tempo addietro ebbi una discussione con un mio amico proprio su questo argomento. Io sostenevo le stesse tesi di cui WM1 scrive sopra. Il mio amico, invece, la “teoria del pennino” secondo la quale FB è solo uno strumento di comunicazione tanto quanto un cellulare. Dopo due ore mi sono arreso.
    La cosa mi ha fatto pensare. L’ho trovata un’interessante cartina di tornasole. Milioni di persone che -convinti del fatto che sia fondamentale essere su FB- non si rendono conto del livello di sfruttamento a cui si sottopongono volontariamente.
    Il massimo trovo sia stato il film su Zuckerberg: lui si incamera gratis milioni di dati sui cui fare enormi profitti, gli spettatori (che gli regalano le info di cui sopra), per vedere la sua storia pagano pure il biglietto del cinema…

  61. @ beltsasar

    la tua risposta a Paco mi sembra tremendamente fuori fuoco.

    Le maestranze di una rete televisiva (e qui ci metto dagli attrezzisti ai cameramen ai truccatori ai “negri” che scrivono o sistemano i copioni) lavorano alla produzione e messa in onda dei programmi, alla manutenzione delle strutture etc.
    Senza il loro lavoro la rete non avrebbe programmazione, e quindi non avrebbe spazi da vendere agli inserzionisti.

    Quei lavoratori (tra cui ci sono probabilmente molti precari, interinali, “esternalizzati” senza diritti, gente che è assunta al minimo sindacale etc.) contribuiscono a produrre il valore che i manager mettono a profitto per conto della proprietà.

    Tale messa a profitto si traduce in miliardi di euro all’anno (ricavi di Mediaset dagli spot nel 2010: 2.413,50 milioni), mentre quei lavoratori prendono due lire.

    [Qui comportiamoci come in un manuale di economia: facciamo finta che in Italia la raccolta pubblicitaria delle reti televisive funzioni in perfetto regime di concorrenza. Sappiamo bene che Mediaset raccoglie pubblicità anche facendosi forte di un vantaggio politico. Ai fini del nostro ragionamento, però, non fa differenza: il vantaggio politico permette all’azienda di vendere spazi pubblicitari a scapito di altre reti, ma questi spazi non esisterebbero senza la programmazione, che a sua volta c’è grazie al lavoro di migliaia di persone. Tutto torna sempre al lavoro.]

    La massa di pluslavoro (leggi: la sproporzione tra il salario effettivamente percepito e la ricchezza che si è contribuito a generare) è COLOSSALE.
    Io, precario in una rete televisiva, lavoro da mane a sera per portarmi a casa un pugno di euro, e il mio lavoro rende miliardaria gente che non muove un dito.
    Il mio lavoro, anche se mi aumentassero il salario, sarebbe *sempre e comunque* sottopagato, in virtù di tale sproporzione. Il gap tra quel che prendo e quel che guadagna il padrone è riempito dal mio pluslavoro.

    Questo si chiama “rapporto di produzione”.

    E guarda che non si scappa: dove c’è profitto di un padrone, c’è il pluslavoro di chi lavora per lui.

  62. Vi sono testimoni da queste parti che possono confermare miei interventi in assemblee oltre quindici anni fa in cui sostenevo che il reddito sociale era necessario come forma dovuta di retribuzione per le ore di TV guardate dai cittadini.
    Ne sono ancora convinto. Dunque, con me porte sfondate, figuriamoci zuckerberg e brin, tutta gente che ci deve un sacco di soldi. Una montagna, perchè siamo molti.
    La questione della servitù volontaria è tra le più interessanti, e con il Capitale secondo me ha molto a che vedere con una delle sue più infernali qualità. La capacità, nella mente degli umani, di farsi Natura. E’ il mio più antico pallino.
    Il segreto più intimo e pervasivo del Capitale è presentarsi in una quantità enorme delle sue funzioni come il sole e la notte, come la pioggia o un transito momentaneo di nuvole.
    E’ così che folle sterminate rilasciano gratis opere e prestazioni per ricevere invece le quali devono sempre pagare. E’ un trucco, un illusionismo da grande alchimista.
    Forse non si è lontani dalla realtà se si individua nel gioco di prestigio la sua essenza più profonda.
    L.

  63. Qualche commento sui giochi di prestigio. :)

    Qualche mese fa per il world earth day mi arriva un’email da una casa editrice promuovente gli ebook perché in questo modo si salvano gli alberi, quindi la terra è più verde. E la produzione, hardware e software, dell’ebook? Sony ed Amazon non sono ngo ambientaliste.

    Con ebook, ipad, computer, etc, è – forse – più facile smascherare il giochino, perché sono appunto oggetti concreti che teniamo in mano, che possiamo aprire e vedere quanti componenti ci siano dentro lavoro di svariati operai, manuali e cognitivi. Come leggiamo qui, Internet o fb sono più difficile smascherare proprio perché sono impalpabili, non si possono aprire. Però lo stesso ragionamento si può fare eccome. Anzi, è ancora più interessante farlo perché mostra i nuovi livelli che il capitalismo e l’illusione hanno raggiunto. Sulla home di fb compare “FB helps you connect and share with the people of life” e non “FB is the coolest idea to extract surplus-value from the general intellect”, ovviamente. Però non ci starebbe male.

    Segni e linguaggi del sistema di produzione dominante, dice Debord. E io li rivedo in questi due esempi, e in tutti quelli fatti sopra.

    Solo che poi quando mi metto a ragionare così mi chiedo: “e fin dove si arriva?”. Esempio, non vado su fb e non uso google per non alimentare lo sfruttamento del general intellect. Me ne sto a leggere un libro a casa. Ogni settimana mi compro un libro nuovo – magari su amazon perché li pago meno. Alimento però lo stesso sistema. Quel libro è anche tutti gli impiegati della casa editrice, i lavoratori delle multinazionali che disboscano le foreste, quelli delle fabbriche che producono inchiostro e le macchine per stampare, etc. Solito discorso, si torna lì.

    E potrei fare lo stesso discorso per tutto ciò che mi circonda nella mia quotidianità. E quindi mi chiedo: Dove sta il fuori, se c’è?

    Ciao

  64. @ redview

    sto appunto provando a spiegare, da un po’ di tempo a questa parte, che secondo me le metafore spaziali (come il “dentro” e il “fuori”) risultano inadeguate, perchè è chiaro che se la domanda è: “dov’è il fuori?”, la risposta – o l’assenza di risposta – può solo essere paralizzante. Perchè è già paralizzante la domanda.

    Forse funziona di più se ragioniamo in termini *temporali*.
    Si tratta di capire quanto tempo di vita il capitale ci stia rubando anche e soprattutto *di nascosto* (perché questo furto, come ricordava Luca, è presentato come “natura delle cose”), diventare consapevoli delle varie forme di sfruttamento, e quindi lottare nel rapporto di produzione, nelle relazioni di potere, contestando gli assetti proprietari e la “naturalizzazione” dell’espropriazione, per riprenderci parte del nostro tempo.

    Non è certo una grandissima novità, quel che sto dicendo: una volta si era soliti chiamarla “lotta di classe”. In parole povere: gli interessi del lavoratore e del padrone sono diversi e inconciliabili. Qualunque ideologia che mascheri questa differenza (aziendalistica, nazionalistica, razziale etc.) è da combattere.
    Lavori dodici-quattordici ore al giorno, in condizioni bestiali, e la tua sorte è condivisa anche da bambini che non vedono mai la luce del sole? Rispondi lottando.
    Lotti e lotti e lotti, finché non strappi le otto ore, la remunerazione degli straordinari, le tutele sanitarie, il diritto di organizzazione e di sciopero, la legislazione contro il lavoro minorile. E ti riappropri di una parte del tuo tempo, e affermi la tua dignità, finché queste conquiste non saranno di nuovo messe in discussione, e toccherà lottare di nuovo.

    Già renderci conto che il nostro rapporto con le cose non è neutro né innocente, già trovarci l’ideologia, scoprire il feticismo della merce, è una conquista: “cornuti e mazziati” ok, ma almeno non “cornuti, mazziati e contenti”. Il danno ok, ma almeno non la *beffa* del crederci liberi in ambiti dove siamo sfruttati.
    Trovare sempre i dispositivi che ci assoggettano, e descriverli cercando il modo di metterli in crisi.

    Quindi, se la merce elettronica che usiamo incorpora sfruttamento, diventiamone consapevoli.
    Se la rete si erge su gigantesche colonne di lavoro invisibile, rendiamolo visibile.
    Se uno sfigato diventa un tycoon, andiamo a vedere su quali teste ha camminato per arrivare dov’è, quale lavoro ha messo a profitto, quale pluslavoro non ha ricompensato.

  65. […] di cui parlavo pare affacciarsi anche tra di noi, comunque. Come fanno notare su Giap in una bellissima discussione sui social network, il referendum e il fantomatico “popolo della rete&#… pure Grillo cerca di intercettare il fenomeno. Gia`, sul suo blog c’e` un’intervista ad […]

  66. Tuco, che ne pensi della cosa che segnala Sweepsy sul suo blog?
    A me sembra l’ennesimo elemento aggiunto di fretta e con superficialità al calderone confusionista grillo-casaleggiano. Comunque, se Sweepsy avesse ragione, se fosse vero che “fiutano l’aria” e nell’aria c’è “voglia” di “marxismo”, sarebbe un segnale interessante. E’ però dall’aria che possiamo attenderci qualcosa di buono, non da certe narici :-)

  67. Che il blog di Grillo sia un calderone confusionista e` vero, pero` e` anche vero che in quella confusione c’e` molta “scientificita`” proprio perche` la Casaleggio fa questo di mestiere. Personalmente per quel che so del movimento il post sul marxismo e` indicativo ed interessante anche vedere gli sviluppi, per questo ho dato un’occhiata ai commenti. Ora molti grillini sono “autorizzati” a parlare di Marx (salvo poi venerarlo privatamente come una qualsiasi religione in un paese laico) e sara` divertente vedere i risultati. Ovviamente le narici sono quelle che sono, ma ci sono molti come me che si erano avvicinati a Grillo e poi si sono allontanati perche` la sinistra e` un qualcosa di imprescindibile. Non vorrei essere troppo ottimista, ma credo che il movimento sia gia` in fase calante e che certe tematiche non potranno che accelerare l’implosione, ristabilendo un ordine “politico” piu` efficace. (Sono ottimista anche riguardo l’implosione della lega e del pdl, salvo poi considerare che berlusconismo e leghismo continuano a regnare e crescere in altre forme -_-)

  68. @ WM1
    Grazie della bella risposta. Ripensare a questo discorso in termini temporali lo mette sotto una luce diversa.

    Ciao

  69. @wm1

    La prima cosa che mi viene in mente e’ che i curatori del blog di Grillo forse hanno seguito le discussioni su Giap e ne hanno tratto alcune conseguenze tattiche.

    La seconda e’ che parlare di marxismo e’ cosa diversa dal parlare utilizzando categorie marxiane o marxiste. Come dici tu, mi pare che nel mondo che gravita intorno a Grillo ci sia una notevole tendenza all’ eclettismo. Un po’ di liberismo (eh in Inghilterra si’ che c’e’ il vero mercato, mica come in Italia…), un po’ di ecologismo (com’era bello quando si viveva coltivando la terra), un po’ molto feticismo tecnologico (la rete e’ buona, la rete e’ bella, la rete ci salvera’), un po’ di complottismo che non guasta mai (se siamo in vacca e’ perche’ i banchieri si arricchiscono stampando carta moneta, e poi avete visto quelle strane scie su nel cielo, e “what’s he building in there, he’s hiding something from the rest of us” http://www.youtube.com/watch?v=nMqxNPsfN50 ), adesso magari un po’ di marxismo (da praticare privatamente, pero’, magari chiusi in bagno).

    Pero’ forse e’ vero che si sta ricominciando ad utilizzare alcune categorie marxiane, anche da parte di chi non ti aspetteresti. Qualche tempo fa avevo letto su l’ Unita’ un articolo di Loretta Napoleoni, che analizzava alcuni aspetti della crisi in termini di “caduta tendenziale del saggio di profitto”.

  70. @tuco
    La tua sintesi del movimento di grillo è meravigliosa.

    Io ho una mega domanda che probabilmente è un altro post.
    Cosa intendere oggi con voglia di marxismo, categorie marxiste e marxiane?

    Io non me ne intendo tanto, l’ho studiato alle superiori e mi era sembrata un’analisi convincente del sistema dell’ottoceno. Al giorno d’oggi non penso che quell’ analisi sia così esatta a descrivere l’oggi

    SePensate che sia ot o che sia una discussione troppo ampia da iniziare qui port me è ok.

    p

  71. @ pedrilla

    in realtà è vero il contrario: molte anticipazioni di Marx erano parecchio più avanzate del capitalismo realmente esistente ai suoi tempi, e quindi la teoria era spesso supportata da esempi che la “datavano”, oppure restava prigioniera di formulazioni astratte, formulazioni che solo molto tempo dopo hanno trovato tutta la loro concretezza. Guardare alla produzione capitalistica del XIX secolo, attorniata e influenzata com’era da ogni sorta di sopravvivenze premoderne, e parlare di “sussunzione reale del lavoro nel capitale”, beh, quello era più un vaticinio che una descrizione. Infatti è soprattutto negli ultimi quarant’anni, con la “terza rivoluzione industriale”, che molte analisi marxiane (penso soprattutto a quelle contenute nei Grundrisse, i “Lineamenti per una critica dell’economia politica”) hanno toccato il reale e trovato gli esempi adeguati. Avrai certamente notato che in questa discussione abbiamo usato più volte l’espressione “intelletto generale”, descrivendolo come una forza produttiva. Bene, quest’espressione si trova nei Grundrisse, che sono del 1857-58. Questo però è un Marx che a scuola si fa di rado :-)
    Oggi, se vuoi capire come funziona la dimensione “linguistica” della produzione capitalistica, con particolare riferimento alla finanziarizzazione, trovi analisi folgoranti negli scritti di un marxista (“post-operaista”, come si dice in gergo) come Christian Marazzi. E le radici delle sue analisi stanno nei Grundrisse. Poi se ne può discutere, dire che quel sotto-filone del neo-marxismo mette troppo l’accento su un aspetto piuttosto che su un altro etc., ma è un altro paio di maniche.
    Oltre a ciò: nel corso del XX secolo il marxismo occidentale si è evoluto e arricchito di temi, prendendoli da diversi campi del sapere e rielaborandoli. E negli ultimi anni c’è stato un “ritorno a Marx” di cui in Italia si parla troppo poco. Anche filosofi il cui pensiero era a lungo parso estraneo a quello di Marx (penso a Derrida) hanno asserito con forza la necessità di rimettere in gioco le intuizioni del barbuto di Treviri. E prima di decidere di praticarsi da solo l’eutanasia perché stanco di soffrire, Gilles Deleuze stava lavorando a un libro che si sarebbe dovuto intitolare “Grandezza di Marx”.

  72. A proposito di facebook. Dopo aver letto gli spiegoni di wm1, ho avuto un’ illuminazione. Avete presente la storia di Tom Sawyer che deve dipingere la palizzata? Zia Polly ha deciso che, per punizione, Tom Sawyer deve dipingere la palizzata. Mentre dipinge svogliatamente, tutti i ragazzini del paese passano di la’ e lo deridono. Allora gli viene un’ idea. Comincia a fingere di divertirsi un mondo, e dopo un po’ i ragazzini cominciano a pregarlo di lasciar fare un po’ anche a loro. All’ inizio rifiuta, ma poi accetta di farli “giocare” in cambio di una fionda, una pelle di gatto, un ferro di cavallo… A sera la palizzata e’ rivestita da tre mani di vernice, e Tom Sawyer e’ diventato ricco. Cambiamo un po’ la storia. Zia Polly ha promesso a Tom Sawyer che gli dara’ 20$ se dipinge la palizzata. Allora Tom comincia a dipingere, fingendo di divertirsi un mondo. Dopo un po’ i ragazzi del paese cominciano a chiedergli di lasciarli “giocare” un po’, e lui glielo concede, e non si fa nemmeno pagare. A sera la palizzata e’ rivestita da tre mani di vernice, Tom Sawyer e’ diventato ricco, e per di piu’ si e’ fatto la fama di ragazzo generoso.

  73. Salve a tutti, è la prima volta che commento, ma vi leggo da un po’. Mi chiamo Santiago e sono argentino (per cui chiedo scusa di già se faccio qualche strafalcione in italiano, nonostante abiti in italia da tanto tempo ancora sbaglio le doppie :D )

    Volevo dirvi che condivido tantissimo molte delle vostre elucubrazioni sui social network e in particolare sul ruolo della rete, certe idee le condivido in pieno, altre no tanto. Ma mi piacerebbe sottoporvi ad un quesito su una idea che ho ultimamente in testa e non so quanto possa essere corretta.

    Seguendo un corso di Antropologia dei processi culturali all’università sono venuto a conoscenza delle teorie di McLuhan sulla comunicazione di massa e sul possibile effetto dei media nelle persone. Ne sono rimasto parecchio affascinato e trovo sia un argomento abbastanza interessante, ma per una strana ragione trovo che spesso si affronti con una visione poco attuale.

    Proprio appunto ho cercato di scrivere qualcosa al riguardo, ho pubblicato un post ieri intitolato Il Luogo è il Messaggio in cui cerco di spiegare, forse senza riuscirci, cosa penso dell’influenza di internet oggigiorno.

    In parole povere io credo che quello che McLuhan chiamava “il medium è il messaggio” oggi sia un concetto superato dal momento che i mezzi come la televisione o la radio, mezzi tradizionali, si sono evoluti nella Rete, che mi sembra di capire sia un po’ la stessa idea che sostiene WM1 quando dice che “solo chi pensa che la TV sia il televisore non si è accorto di quel che è successo.”.

    Ora, Internet non è soltanto un mezzo, ma anche un luogo, e con ciò intendo che offre uno spazio virtuale in cui qualunque internauta può proiettare la sua persona reale ad una persona virtuale, eliminando così certe barriere di tempo e spazio. Distanze. Questo però, a mio parere, non esime alla rete di essere “migliore” dei mezzi tradizionali, perché resta comunque soggetta ad una logica “occidentale” e per niente “libera” o “democratica”, come vogliono farci credere. Ecco perché io penso che oggigiorno, “il luogo – e non più il medium – sia il messaggio”.

    voi che ne pensate? (scusate “il pippone”, e se ritenete questo messaggio fuori luogo potete anche cancellarlo :) saluti!
    Santiago.

  74. @pedrilla

    Qui c’è un simpatico video di uno studioso e professore marxista, David Harvey, che spiega in termini marxisti le crisi del capitalismo, tipo quella del 2008. Uno: l’analisi di Marx è ancora attuale. Due: oltre che ad essere attuale, fornisce un bella spiegazione, una bella cornice in cui inquadrare la situazione.
    Così, per darti un’altra prova dell’efficace attualità del pensiero di Marx. :)

    http://youtu.be/qOP2V_np2c0

    Ciao

  75. Eh tanta carne al fuoco. E le discussioni qui sono veramente molto stimolanti.
    Il Video è molto simpatico, anche se gli aspett della spiegazione in termini marxisti sono solo enunciati e non spiegati per cui almeno a me non aiutano a capire. Personalmente credo che la crisi sia stata provocata da eccesso di liberismo, deregulation, e truffe. Ne ho studiato un po’ la dinamica su “big short” che descrive bene le dinamiche finanziarie.

    Darò uno sguardo a Marrazzi, pr farmi un po’ un bagaglio, che magari ha già una risposta alle mie perplessità su plus valore e sfruttamento oggi. Vabbeh ormai la butto li anche se potrebbe

  76. *paciugo di formattazione, scusate*

    Anche se potrebbe essere un vaccata

    Se il plus valore misura lo sfruttamento e lo calcoliamo in base alla ricchezza che il lavoro produce per il capitale rispetto a quanto questo viene pagato oggi come oggi risulta legati piú a quanti utili fa una società rispetto a quelle che sono le condizioni di lavoro dei salariati . Oppure se uno fa impresa da solo fa tanti utili, ruba il plus valore di se stesso? Magari sono domande a ciò sono già state date milioni di risposte, ma io non le so , è per questo che chiedo

  77. Segnalo un post su Il Fatto che mi ha colpito solo per il titolo. Passo dalle riflessioni su “come si racconta una rivoluzione” alle certezze su “che cos’è una rivoluzione” e conseguente vaticinio per gli internauti.
    Narrazioni tossiche, appunto. :-)
    Mi spicca sempre l’accostamento Rivoluzione/Obama, con conseguente orticaria.

    Stando alla sua bio però, Orioles dovrebbe essere uno “mani sulla tastiera e culo in strada”, ma potrei anche sbagliarmi.

    http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/06/22/cose-una-rivoluzione-oggi/122148/

  78. @Pedrilla L’estrazione di plusvalore da se stessi è una delle caratteristiche chiave della precarietà attuale. Ne parlava con grande lucidità Emilio Quadrelli in “Andare ai resti” (DeriveApprodi). Cito: “i lavoratori autonomi di seconda generazione” sono “costretti a dover estorcere plusvalore da se stessi, dando vita a forme di autodisciplinamento particolarmente dure e feroci. Un modello di governo dei viventi che non ammette resistenze.” E tutto questo avviene, di solito, in un isolamento desolidarizzato. Il mondo di chi lavora a partita IVA nei settori di comunicazione, giornalismo, web e affini è basato proprio su questo: l’estorsione di plusvalore da se stessi.

  79. Lezione del giorno: cos’è una rivoluzione.
    In Marx we trust.
    Scusate mi sono fatto prendere la mano.
    Comunque sia, usando Marx (strumento di analisi fortissimo quanto le derivate seconde per uno studio di funzione) la differenza tra sottoproletariato e proletariato e la presa di coscienza, quindi l’individuazione di essere sfruttato.
    Per questo WM1 punta così decisamente l’indice su tutte le modalità di sfruttamento del lavoro da parte del capitale, perchè solo prendone coscienza si può passare alla fase successiva, cioè la rivoluzione, la presa di controllo degli strumenti di produzione.
    La rivoluzione è questo, quindi, per lo meno vanno fissati degli obiettivi.
    Trovo lungimirante (per qualcuno può essere opportunistica) il riposizionamento di Bersani tra il primo turno di amministrative e il referendum. Capire che gli obiettivi del popolo sono altri, può essere d’aiuto il tentativo di diventarne il rappresentante.

  80. @pedrilla

    Il video da 10 minuti non può essere esaustivo. Ti mostra però che Marx può essere usato ancora oggi per spiegare il mondo in cui viviamo e cosa sta succedendo. Era per replicare a quanto avevi scritto qui:
    “e mi era sembrata un’analisi convincente del sistema dell’ottoceno. Al giorno d’oggi non penso che quell’ analisi sia così esatta a descrivere l’oggi”

    :) Ciao

  81. Tra le fregature insite nei rapporti di produzione (“come mai, come mai /sempre in culo agli operai”), accanto all’estrazione (o auto-estrazione) di plusvalore, elencherei un altro aspetto, messo in rilievo da filoni del pensiero socialista diversi da quello di stretta derivazione marxista.

    Si tratta dell’alienazione del cosiddetto “prodotto sociale” del lavoro, ben riassunta da Proudhon col famoso esempio dell’erezione dell’obelisco (in “Che cos’è la proprietà?”).

    Poniamo che 100 lavoratori siano in grado di tirar su un obelisco di granito in 1 ora di lavoro collettivo. Poniamo anche che questi 100 lavoratori siano remunerati singolarmente per quella ora di lavoro. Il datore di lavoro avrà pagato, in totale, 100 ore lavorative.

    Si dà il caso, però, che 1 solo lavoratore non sarà mai in grado di realizzare la stessa opera in 100 ore di lavoro, a loro volta remunerate singolarmente. E non sarà in grado di farlo neppure in 1.000 o 10.000 ore…

    La conclusione che si trae dall’esempio è semplice: l’erezione dell’obelisco implica una componente *inquantificabile* di “lavoro sociale” che nasce dalla fattiva collaborazione dei singoli lavoratori all’interno del processo produttivo, che non solo non è remunerata, ma non è neppure presa in considerazione.

    Il pensiero sociale di matrice “liberal” o socialdemocratica ha coniato un concetto ad hoc per promuovere la colonizzazione dal punto di vista capitalistico di questo ulteriore aspetto dei rapporti di produzione: è il concetto di *capitale sociale*, che con il capitale finanziario (moneta e credito), il capitale materiale (macchinari) e il capitale umano (competenze dei singoli lavoratori) definisce quella che si potrebbe tranquillamente chiamare la “tetra-unità” del moderno Capitale.

    Insomma: i rapporti di collaborazione, le reti di relazioni che si creano all’interno dei rapporti di produzione diventano a loro volta un terreno di colonizzazione per la dinamica capitalistica, un mezzo in più per sfruttare i lavoratori non già singolarmente, ma collettivamente, penetrando per giunta in aspetti della loro esistenza che esulano dalla dimensione strettamente lavorativa (nel capitale sociale rientrano attivismo civico, associazionismo, attività di volontariato ecc.).

    Mi sembra (ma forse sbaglio) che la rete poggi in modo significativo su questo “lavoro sociale”, ma che al tempo stesso finisca per negarne l’esistenza in modo ancora più radicale, propagandando l’idea del “rapporto individualizzato” fra lavoratore e committente.

    Pensate possa essere anche questa una linea di riflessione proficua?

  82. @Don Cave

    Non capisco una cosa. Perché dici che ciò è “messo in rilievo da filoni del pensiero socialista diversi da quello di stretta derivazione marxista.” ?

    Marx è chiaro nel dire che la cooperazione (in fabbrica, dice lui) è un punto fondamentale per lo sviluppo del capitalismo.

    Grazie e ciao :)

  83. Sì, infatti, la dimensione della cooperazione sociale “sussunta” ed espropriata dal capitale è quella su cui Marx insiste di più, nei Grundrisse soprattutto, ma in realtà quasi ovunque. Mi sembra che se ne sia occupato ben più a fondo e ben più a lungo di Proudhon. Un concetto come “general intellect” cosa descrive se non questo? L’intero “post-operaismo” su che si basa se non su questo?

  84. Vorrei aggiungere una cosa sulla cooperazione, secondo me importante.

    Premessa per farmi capire meglio dopo: Marx, per quello che ho letto e capito io, insiste molto su tre cose: scambio di equivalenti; nella merce il capitale costante viene trasferito dal lavoratore; il profitto viene solo dal pluslavoro non retribuito degli operai.

    Questa cooperazione di cui sopra non viene gratis o per magia. Del capitale è stato investito per renderla possibile. Ad esempio, investito in una rete informatica per far cooperare gli impiegati, o per farci collegare a fb; oppure in un centounesimo lavoratore che dia ordini agli altri cento su come tirare su l’obelisco, o in mezza-giornata di “formazione” per spiegare ai lavoratori come organizzarsi per tirarlo su. E poi c’è anche la strumentazione: cento persone hanno bisogno di strumenti più complessi di una; che ne so, un gancio più costoso da attaccare all’obelisco che permetta l’azione di cento corde invece che una.

    Secondo me questo punto è importante. Se così non fosse è come se ci fosse una seconda fonte di guadagno, di plusvalore; mentre questo viene solo dal pluslavoro degli operai.

    Avere questo chiaro è importante per eliminare ogni mistificazione e gioco di prestigio.

    Se mi confondo, mi perdo qualcosa o mi sbaglio, correggetemi, per favore.

    Grazie, ciao. :)

  85. @ redview

    è corretto. La cooperazione sociale come forza produttiva è una cooperazione sociale *specifica*, inerente al capitalismo, che non pre-esisteva a esso, perché non pre-esistevano a esso gli operai, il lavoro salariato, le macchine, la società di massa etc.
    Da questo punto di vista, il testo più significativo è il cap. VI inedito del I° libro del Capitale.

    Certo, c’è una “gemeinwesen”, una tendenza dell’essere umano al comune, alla comunità e alla cooperazione, e questa pre-esiste al capitalismo, è un universale antropologico (“compagnevole animale”, così Dante traduce lo “zòon politikon” di Aristotele, lo ricorda Girolamo nel suo ultimo libro), e le neuroscienze stanno dimostrando che noi siamo… *cablati* per la gemeinwesen. Ma nessun modo di produzione ha *sottomesso* e reso produttiva la cooperazione su una scala minimamente paragonabile a quella del capitalismo.

    Da qui l’immagine marxiana della nuova società che sta già nel grembo di quella vecchia, perché il capitalismo, rendendo il lavoro sempre più collettivo, crea condizioni rivoluzionarie etc.

    Il problema è che quest’ultimo passaggio, che Marx non poneva come ineluttabile e che egli stesso sottopose a critica negli ultimi anni di vita e di riflessione, ha dato adito a narrazioni imperniate sul comunismo-che-è-già-qui e se non c’è poco ci manca, ad apologie dello sviluppo etc.

  86. Tutto quello che abbiamo cercato di dire in questo thread lo anticipava già Marx nel Capitolo VI inedito del Capitale (ed. it. Firenze, 1969, la citazione che segue è alle pagg. 57-58, il passaggio è denso perché è uno di quei testi che Marx non rivide per la pubblicazione):

    «L’incremento delle forze produttive sociali del lavoro, o delle forze produttive del lavoro direttamente sociale, socializzato (reso collettivo) mediante la cooperazione, la divisione del lavoro all’interno della fabbrica, l’impiego delle macchine e in genere, la trasformazione del processo di produzione in cosciente impiego delle scienze naturali, della meccanica, della chimica ecc. e della tecnologia per dati scopi, come ogni lavoro su grande scala a tutto ciò corrispondente […] questo incremento, dicevamo, della forza produttiva del lavoro socializzato in confronto al lavoro più o meno isolato e disperso dell’individuo singolo, e con esso l’applicazione della scienza – questo prodotto generale dello sviluppo sociale – processo di produzione immediato, si rappresentano ora come forza produttiva del capitale anziché come forza produttiva del lavoro, o solo come forza produttiva del lavoro in quanto identico al capitale; in ogni caso, non come forza produttiva del lavoratore isolato e neppure dei lavoratori cooperanti nel processo di produzione.
    Questa mistificazione, propria del rapporto capitalistico in quanto tale, si sviluppa ora molto più di quanto potesse avvenire nel caso della pura e semplice sottomissione formale del lavoro al capitale.»

    Praticamente, qui Marx dice che:

    1) la natura collettiva e cooperativa del lavoro viene realmente sottomessa (a volte si traduce con “sussunta”) al capitale, cioè è una natura collettiva che prima del capitale non esisteva.
    Il concetto di “sottomissione reale” del lavoro al capitale è contrapposto a quello di “sottomissione formale“, tipico degli albori del capitalismo, quando il capitale sottometteva tipologie di lavoro pre-esistenti (la tessitura manuale, i processi del lavoro agricolo etc.)

    2) questa era solo la premessa, ora arriva il “succo”: quanto più è avanzato il processo produttivo (grazie all’applicazione di scienza e tecnologia), tanto più *mistificata* sarà la rappresentazione (oggi qualcuno direbbe la narrazione) della cooperazione produttiva.

    Ora cerchiamo nell’oggi gli esempi di questa formulazione:

    la produzione di senso e di relazioni in Internet non è considerata forza produttiva di lavoratori cooperanti; tantomeno l’ideologia dominante permette di discernere il lavoro del singolo.
    Questa produzione socializzata viene (truffaldinamente, mitologicamente):

    – attribuita direttamente al capitale, allo “spirito d’impresa” etc. Per esempio, dobbiamo a una… “intuizione” di Zuckerberg se oggi grazie a Facebook bla bla bla;

    – altrettanto spesso viene considerata, come dice Marx, “forza produttiva del lavoro in quanto identico al capitale”. Sarebbe a dire: lo sfruttamento viene occultato dietro la facciata di un lavoro in rete autonomo, non subordinato, fatto tutto di auto-imprenditoria e/o libera contrattazione e/o comunque molto più “cool” dei lavori off-line etc., quando invece la rete funziona anche grazie al lavoro precario e subordinatissimo di moltitudini di “negri” che lavorano a cottimo, come racconta Adrianaaaa a proposito di Odesk.com:
    http://lapentoladoro.blogspot.com/2011/06/karl-marx-wants-to-be-your-friend-on.html

  87. Una piccola aggiunta a quel che scriveva piu’ sopra wm1.

    inizio cit. “Chi dice che oggi non vale più la teoria del valore-lavoro, ultimamente fa l’esempio dell’iPad, e dice: il lavoro fisico compiuto dall’operaio per assemblare un singolo tablet è davvero poca roba, il valore del tablet è dato esclusivamente dal software e dalle applicazioni che ci girano sopra, quindi dal lavoro mentale, di ideazione e programmazione. Lavoro che non è scomponibile in procedure misurabili, quindi non è quantificabile in termini di ore-lavoro. […] Il problema è che, pur essendo il lavoro molto più “socializzato” che ai tempi di Marx e pur essendo i processi produttivi più complessi (e il capitale più condizionato da limiti esterni, cioè ambientali), nel fare quest’esempio si *accorcia la filiera* e si *isola l’atto dell’assemblaggio*, prendendo in considerazione l’assemblaggio di un singolo iPad. Invece bisognerebbe prendere in considerazione la mole di lavoro lungo l’intero ciclo produttivo di un’intera infornata di tablet (o di laptop, o di smartphone, quel che vi pare): dal reperimento sempre più problematico di una materia prima come il litio (c’è in pochissimi posti al mondo, in quantità limitate, e per giunta ci sono problemi geopolitici) fino al lavoro di merda di chi si avvelenerà per smaltire le carcasse (trattandosi di obsolescenza *pianificata*, quel lavoro è già incorporato nella merce), passando per il lavoro senza tutele degli operai cinesi, per le nocività esperite da chi lavora nell’industria petrolchimica che produce la plastica etc. etc. etc.” fine cit.

    Un aspetto che secondo me non va assolutamente trascurato e’ quello contenuto nell’ espressione “un’intera infornata”. Infatti uno dei punti essenziali e’ che tutta la baracca non si potrebbe mai mettere in movimento per produrre 100 i-pad. Se ne devono produrre almeno 100milioni, se non di piu’. A prima vista potrebbe sembrare che il lavoro intellettuale necessario per sviluppare il software dell’ i-pad generi di per se’ valore, indipendentemente dal resto del ciclo produttivo. Questo pero’ vorrebbe dire che il valore generato da questo lavoro intellettuale e’ indipendente dal numero di i-pad che vengono prodotti. In realta’ non e’ cosi’. Se non facesse parte di un ciclo che prevede la produzione con modalita’ fordiste di 100milioni di i-pad, quel lavoro intellettuale non genererebbe praticamente nessun valore. Questo discorso, forse un po’ confuso, per dire che il postfordismo puo’ esistere (per il momento) solo come parte di un ciclo in cui il fordismo non e’ per niente scomparso.

  88. Continuando su questo discorso…

    Qualche settimana fa sono stato ad un seminario di Matteo Pasquinelli. Premetto che è stata dura seguire :), quindi quello che ho capito io potrebbe essere qualcosa che lui non ha detto. :D

    Comunque, lui ha basato tutta la lezione sulla formula del saggio di profitto in questa sua slide, http://matteopasquinelli.com/docs/slide2-expansion.png

    Capitale fisso, o lavoro morto, contro capitale variabile, o lavoro vivo. Le macchine contro i muscoli/cervello.

    Quando Marx ha scritto il Capitale queste due parti erano ben separate. Ora no, è difficile fare un distinguo.

    Quindi, è anche più difficile capire il mondo e il capitalismo d’oggi.

    Ciao

  89. @ redview

    prima di tutto: io e il compagno Pasquinelli siamo ex-coinquilini. Nella seconda metà degli anni Novanta condividevamo un appartamento, e per giunta dall’altra parte del pianerottolo viveva WM2.
    Tutte queste direttrici si diramano da un “primordiale” incrocio blissettiano :-D

    Negli ultimi dieci anni Matteo ha intrapreso un discorso interessante che va seguito.
    Una delle differenze rispetto a noialtri è che lui (come del resto molti nostri amici e conoscenti) è *pienamente* dentro il filone della “italian theory” post-operaista etc.
    Nulla di male, non fosse che mi sembra tenda a liquidare in modo tranchant altri filoni teorici. Es. tempo fa sul “Manifesto” faceva un resoconto secondo me frettoloso e ingeneroso di Badiou, Zizek e di certe riflessioni sul populismo che arrivano dall’Olanda.
    Invece, secondo me, Badiou serve eccome, e Zizek è certamente un gigione ma in termini di critica dell’ideologia dà un sacco di spunti che fanno da contraltare agli eccessi di ottimismo di Negri & Hardt etc. Sì, certo, il linguaggio è forza produttiva. Ma è anche altre cose, su diversi piani. Sfugge da ogni parte e non può essere inchiodato da nessuna definizione once-and-for-all. La vituperata “psicanalisi lacaniana di rito sloveno” (cit. Matteo) getta sul linguaggio luci diverse da quelle che ci getta il filone di cui sopra, e ben venga.
    Ancora: Matteo scriveva che Zizek, nel portare avanti la sua critica dell’ideologia del capitalismo avanzato, è troppo influenzato dal suo background nel socialismo reale, e tende a fare parallelismi impropri tra come funziona l’ideologia nel primo e come funzionava nel secondo. Ma siamo proprio sicuro che questi parallelismi siano tanto impropri, e soprattutto che siano inutili?
    Chiusa la digressione.

  90. @WM1

    Che fucina quel pianerottolo. :D

    Beh, le mie letture ad oggi non mi consentono di spingermi così in là nei parallelismi. Da tutte queste persone che hai citato io ho imparato qualcosa e mi hanno fatto pensare; non liquido nessuno. :)

    Quello che ho scritto appena sopra, secondo me si inserisce bene in quello che dice Tuco: non bisogna dimenticarsi della “composizione organica del capitale”. Macchine e persone, lavoro morto resuscitato dal lavoro vivo. Ricordarsi di questo per non farsi infinocchiare dal software immateriale dell’iPad e dall’alto livello di coolness dei lavoratori di google che girano in skate in ufficio. :P

    Ciao :)

  91. @ redview

    “Che fucina quel pianerottolo”

    Pensa che nell’appartamento accanto al nostro viveva un moderatamente celebre chitarrista, che usò l’indirizzo di tutti noi come titolo di un suo album!
    http://it.wikipedia.org/wiki/Via_Zamboni_59
    Oggi, nessuno di noi vive più in quel condominio. Nemmeno il chitarrista :-)

  92. Dopo la mitopoiesi del pianerottolo, a questo punto mi aspetterei il secondo tempo: dall’analisi della situazione alle proposte di soluzione.
    Chi comincia?

  93. @WM1,
    ma perché non riesco a leggere la tua mitopoiesi del pianerottolo?
    [sono curiosa di capire in che modo immaginare lì “Capitan Fede” (il moderatamente celebre chitarrista dell’eccessivamente celebre Ligabue)]

  94. @Paco

    In un mio post sopra mi chiedevo “Dove sta il fuori, se c’è?” . Mi guardo intorno e vedo che *ogni* cosa della mia vita è inserita nel meccanismo che fa girare il capitale.

    WM1 mi ha risposto in un modo che mi è piaciuto molto, dicendo che è meglio pensare in termini temporali piuttosto che spaziali.

  95. @ Paco

    Uffa, scusa mi è partito il post. Non avevo finito. Continuo.

    Qui il pezzo di WM1 che mi interessa:
    “Si tratta di capire quanto tempo di vita il capitale ci stia rubando anche e soprattutto *di nascosto* (perché questo furto, come ricordava Luca, è presentato come “natura delle cose”), diventare consapevoli delle varie forme di sfruttamento, e quindi lottare nel rapporto di produzione, nelle relazioni di potere, contestando gli assetti proprietari e la “naturalizzazione” dell’espropriazione, per riprenderci parte del nostro tempo.”

    E qui il mio post con la risposta sua sotto: http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=4504&cpage=1#comment-6347

    Il discorso del tempo è centrale. Ripenso anche quanto si diceva qui in qualche altro post (quando i WM implementeranno la ricerca nei commenti lo ritrovo :P), sul nucleare e su come il capitalista veda il futuro: un “futuro breve”, non ricordo le parole precise usate. Riprendersi il tempo presente, e non farsi rubare già quello futuro.

    Ora ho finito; volevo solo riprendere questa idea da quanto detto prima, poiché questa idea propone appunto un’azione.

    Ciao.

  96. La mia domanda non era casuale.

    Heardt & Negri dicono che esiste un fuori che viene “colonizzato” progressivamente dal capitale, perchè rappresenta una espansione del mercato.
    Questa espansione avviene in termini di spazio fisico e/o di prodotto.

    E allora mi chiedo: como posso contrastare il capitale che sfugge all’antagonismo del lavoro spostando la produzione? Quali altri metodi (oltre a quelli che posso porre in atto come consumatore) possono essere applicati per tirare la coperta dei diritti dalla parte del lavoro invece che da quella del capitale?

  97. Carmilla ha ripreso un post di Matteo Dean:
    http://www.carmillaonline.com/archives/2011/06/003936.html

    Scrive cose belle, ed emozionanti, sulla comunità “dal basso”, che continuo a pensare come l’unica pensabile cellula-base della società…

  98. Rieccomi.

    Riflessioni interessanti.

    A me questa cosa del profitto che viene solo dal pluslavoro non mi convince perchè a condizioni di lavoro identiche spesso corrispondono profitti fortemnte diversi.

    Un lavoratore della Nokia lavora in condizioni simili a uno di Google per esempio, possiamo con buona approsimazione considerarle identiche (probabilmente quelle a Google sono anche meglio, ma non è la cosa importante). Una delle due società però non fa assolutamente profitto (tra un po’ci lascia il ghigno), mentre l’altra ne fa un sacco.

    @tuco questa cosa che stai dicendo sul software e l’hardware sembra sottointendere che parte del pluslavoro della produzione dell’hardware rimanga negli oggetti e non assorbito dal capitale che li ha prodotti e poi quando qualcuno fa il software succhi questo pluslavoro degli oggetti per ottenere il profitto sul software

    @redview sul filmato certo che non mi aspettavo che spiegasse nei dettagli però la parte di critica marxista la enuncia e basta per lo più in relazione alla crisi greca che mi pare non c’entri quasi niente con quella del 2008. Voglio dire , per come l’ha usata lui poteva usare qualunque cosa.

  99. @ pedrilla

    “A me questa cosa del profitto che viene solo dal pluslavoro non mi convince ”

    Non ti convince perché il concetto non è quello. Dal tuo “controesempio” si capisce che hai rovesciato la catena logica.
    La catena logica è:
    dove c’è profitto, vuol dire che c’è stato pluslavoro.
    Altrimenti, se *tutta* la quota di lavoro fosse stata remunerata in base al valore che ha creato, beh… sarebbe il comunismo! La società senza classi, senza proprietà privata etc. :-)
    E’ chiaro che il padrone deve pagare in salari *meno* di quel che trarrà dalla vendita delle merci. “Profitto” significa questo. Significa pagare ai lavoratori meno del valore reale del lavoro che svolgono.
    Poi, per vari motivi, il padrone può anche non riuscire a venderle, quelle merci. E non realizzare profitti. Ma questo non significa che i lavoratori non abbiano erogato pluslavoro. L’intera società capitalistica è basata su plusvalore e pluslavoro.
    Per una spiegazione “no bullshit” ed estremamente divulgativa del concetto di pluslavoro (con esempi tratti dal calcio!), consiglio il capitolo su Marx del già citato libro Filosofia di Girolamo De Michele.

  100. @ danae

    ehm, non riesco a capire cosa non riesci a leggere. La mia “mitopoiesi del pianerottolo” era un commento. Intendi dire che non riesci ad aprire il link a Wikipedia?

  101. @wu ming 1

    non riesce a leggere il commento in cui spiegavi del pianerottolo perche`sembra che l’html se lo sia mangiato. Io l’ho visto per qualche minuto e poi è sparito. Come era successo l’altra volta. Non porto benissimo ai commenti :)

  102. potremmo pensare che il plusvalore che il padrone non riesce a monetizzare rimane intrinseco negli oggetti/servizi venduti e che se ne appropria il consumatore che li ha comprati? Questo in qualche modo sarebbe un passaggio verso il ragionamento che faceva tuco su hardware/software ma che potrebbe estendersi

  103. @ Danae
    Non so se hai mai letto “La polvere del Messico” di Pino Cacucci.
    Lì si narra di una esperienza dal basso, in cui un gruppo di ex detenuti fondano una comunità agricola guidati, se non ricordo male, per un esperimento di sociologia.
    Il problema è che questi, dopo aver creato una bella e florida fattoria, si rifiutano di condividere quello che hanno realizzato con altri ex-detenuti come loro a cui si vorrebbe dare la stessa possibilità di redenzione.

  104. @ paco

    “Quali altri metodi (oltre a quelli che posso porre in atto come consumatore) possono essere applicati per tirare la coperta dei diritti dalla parte del lavoro invece che da quella del capitale?”

    chiaramente, io posso risponderti solo da scrittore che coi suoi compagni di collettivo si (pre)occupa delle narrazioni tossiche che occultano il conflitto. Siamo in un thread dove stiamo cercando di riprendere alcuni elementi-base di critica dell’economia politica per giocarli contro la “narrazione tossica” dell’Internet-libera-e-bella. Di “metodi” (di indicazioni programmatiche, magari in punti numerati) non ne offriamo né ne vendiamo.
    Però posso riportare qui un testo che, quando lo lessi per la prima volta, mi sembrò un vero e proprio squarcio di luce nelle nebbie della guerra tra poveri.
    E’ la lettera aperta degli operai Fiat polacchi (dello stabilimento di Tychy) agli operai Fiat di Pomigliano d’Arco, spedita poco prima del referendum dell’estate scorsa.

    ***

    «La Fiat gioca molto sporco coi lavoratori. Quando trasferirono la produzione qui in Polonia ci dissero che se avessimo lavorato durissimo e superato tutti i limiti di produzione avremmo mantenuto il nostro posto di lavoro e ne avrebbero creati degli alti. E a Tychy lo abbiamo fatto. La fabbrica oggi è la più grande e produttiva d’Europa e non sono ammesse rimostranze all’amministrazione (fatta eccezione per quando i sindacati chiedono qualche bonus per i lavoratori più produttivi, o contrattano i turni del weekend).

    A un certo punto verso la fine dell’anno scorso è iniziata a girare la voce che la Fiat aveva intenzione di spostare la produzione di nuovo in Italia. Da quel momento su Tychy è calato il terrore. Fiat Polonia pensa di poter fare di noi quello che vuole. L’anno scorso per esempio ha pagato solo il 40% dei bonus, benché noi avessimo superato ogni record di produzione.

    Loro pensano che la gente non lotterà per la paura di perdere il lavoro. Ma noi siamo davvero arrabbiati. Il terzo “Giorno di Protesta” dei lavoratori di Tychy in programma per il 17 giugno non sarà educato come l’anno scorso. Che cosa abbiamo ormai da perdere?

    Adesso stanno chiedendo ai lavoratori italiani di accettare condizioni peggiori, come fanno ogni volta. A chi lavora per loro fanno capire che se non accettano di lavorare come schiavi qualcun altro è disposto a farlo al posto loro. Danno per scontate le schiene spezzate dei nostri colleghi italiani, proprio come facevano con le nostre.

    In questi giorni noi abbiamo sperato che i sindacati in Italia lottassero. Non per mantenere noi il nostro lavoro a Tychy, ma per mostrare alla Fiat che ci sono lavoratori disposti a resistere alle loro condizioni. I nostri sindacati, i nostri lavoratori, sono stati deboli. Avevamo la sensazione di non essere in condizione di lottare, di essere troppo poveri. Abbiamo implorato per ogni posto di lavoro. Abbiamo lasciato soli i lavoratori italiani prendendoci i loro posti di lavoro, e adesso ci troviamo nella loro stessa situazione.

    E’ chiaro però che tutto questo non può durare a lungo. Non possiamo continuare a contenderci tra di noi i posti di lavoro. Dobbiamo unirci e lottare per i nostri interessi internazionalmente.

    Per noi non c’è altro da fare a Tychy che smettere di inginocchiarci e iniziare a combattere. Noi chiediamo ai nostri colleghi di resistere e sabotare l’azienda che ci ha dissanguati per anni e ora ci sputa addosso.

    Lavoratori, è ora di cambiare.»

    ***

    Questa lettera la legge Paolo Rossi in uno dei momenti più forti del documentario di Massimiliano Carboni RCL – Ridotte Capacità lavorative (2010).

  105. @WM1
    Quindi è ancora “solo” l’internazionalismo?

  106. @pedrilla

    Un altro modo per spiegare il concetto è il seguente.
    Io capitalista investo 20 nel macchinario; 10 nelle materie prime; 15 va al lavoratore di stipendio. Il lavoratore trasferisce con il suo lavoro il valore del macchinario e quello delle materie prime nella merce; intanto, con il suo lavoro, il lavoratore ripaga i 15 del suo stipendio. Siamo a 45, la somma dei valori di capitale fisso e variabile (=lavoratore).

    Però, la merce viene venduta a 50. Come è possibile, si chiede Marx? Quei 5 in più da dove vengono? E’ una magia? Il capitalista imbroglia vendendo ad un prezzo superiore, quindi sbagliato? No. Questo succede, ma la truffa non può essere la regola di base. La regola di base è lo scambio di equivalenti.

    Quindi, il capitalista ha messo insieme valore per 45; alla fine della giornata si trova 50.

    La risposta che Marx dà e che il lavoratore ripaga i 15 del suo stipendio in, ad esempio, 6 ore di lavoro; però in ufficio/fabbrica lui sta 8 ore. Per due ore lavora gratis, pluslavoro, che produce un plusvalore di, appunto, 5.

    Ciao

    Sul video: ripeto, sono 10 minuti. :) David Harvey insegna Marx e, appunto, mostra nei suoi libri e nelle sue lezioni, con svariati esempi, come ciò che Marx dica sia ancora attuale. Io ho letto il libro sul primo libro del Capitale. Ottimo, te lo consiglio se vuoi approfondire. ;)

  107. Ragazzi, consiglio vivamente il testo di Marx “Il carattere di feticcio della merce e il suo arcano”, che sarebbe poi una parte del primo capitolo del “Capitale”. State ponendo come dilemmi (“capricci teologici”, li chiama Marx; “riflesso religioso del mondo reale”, “mistico velo di nebbie” che conferisce alla merce un carattere a tutta prima “enigmatico”) questioni che Marx risolve praticamente subito :-D

  108. @WM1

    Sì, ma imho l’inizio è stato la parte più ostica da capire. E’ normale un po’ di stupore. Karl parte in quarta, 0-100 km/h in 3.4 s, e il rischio di perderlo è alto. :P

  109. @ paco

    “solo”? L’idea stessa che gli sfruttati di diverse parti del mondo, seppure messi in competizione gli uni con gli altri, abbiano in realtà gli stessi interessi, negli ultimi trenta-trentacinque anni è stata praticamente *annichilita*.
    Tu hai chiesto come si potrebbe fare a tirare la coperta dalla parte del lavoro, e hai specificato: “oltre [ai metodi] che posso porre in atto come consumatore” (immagino ti riferissi a boicottaggi etc.)
    Se tanto mi dà tanto, ti chiedi quali metodi potresti porre in atto come *produttore*.
    Allora io dico: nel mondo globalizzato non possono esserci metodi efficaci se non si trasnazionalizzano le lotte dei produttori.
    E su questo, purtroppo, non c’è al mondo organizzazione sindacale che non sia indietro anni luce :-/

  110. @ Danae

    non so cosa fosse successo, comunque l’ho ripristinato:

    http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=4504&cpage=1#comment-6382

  111. provo a studiarmi sta parte, una letta veloce non mi ha aiutato ma forse non era previsto che lo facesse :) e prometto che non intervengo piu`finchè non me lo sono studiato

    pero`nel tuo esempio redview

    se noi cristalliziamo le cose coi numeri che dici te ma diciamo che il valore finale a cui la vende cambia nel tempo rimanendo costanti tutte le variabili di produzione, semplicemente perche`cambia la percezione dei consumatori.
    se una volta lo vende a 50 una a 60 e una 40 vuol dire che una volta ruba due ore di lavoro, una volta ne ruba 6 e una volta ne regala 2. Eppure la produzione non cambia. Qui mi sembra un po’strano

  112. @ pedrilla

    ehm, adesso stai confondendo il valore [*] con il prezzo :-)

    * che poi andrebbe sempre scisso in due concetti: “valore d’uso” e “valore di scambio”.

  113. ma profitto non dipende da quanto vendo una cosa? e quello e`il prezzo no? anche redview parlava di fatto di prezzo.

    Ma devo studiare e`inutile finche` non studio si rischia di fare una discussione sul gia`detto (che era anche la mia paura all’inzio) benche` potrebbe essere didatticamente interessante.

    Faccio un po’ lo sparring partener di Socrate nei dialoghi di Platone :)

    Solo che ci vogliono anni immagino…

  114. @pedrilla

    Mai parlato di prezzo; neanche di fatto. :)

  115. “Però, la merce viene venduta a 50. Come è possibile, si chiede Marx? Quei 5 in più da dove vengono? ”

    50 e` il prezzo sia quando lo dico che quando lo dici te :)

  116. @ pedrilla

    “faccio un po’ lo sparring partner di Socrate nei dialoghi di Platone :)”

    qui al massimo puoi fare Mario Castellani nei film di Totò! :-) E comunque era immenso, Castellani, immenso. Tra le sue interpretazioni, la mia preferita è quella ne L’imperatore di Capri, dove fa l’attore shakespeariano col “pizello” (“Ezzere o non ezzere…”)
    http://www.youtube.com/watch?v=hiYTIPDNnno&feature=related

  117. @WM1, grazie! letto!

    @ Paco,
    non ho letto quel libro di Cacucci, quindi non mi avventuro in interpretazioni: sarebbe da verificare come quella comunità agricola ha organizzato il suo lavoro, all’interno e all’esterno, cioè su quale tipo di relazioni si è “fondata”.
    Personalmente, non vedo altre possibili forme di esistenza che quelle “comunitarie”, “collettive” (nel senso della pars costruens), ma non voglio nascondermi le difficoltà continue, insidiose, striscianti dell’agire collettivo; difficoltà che a mio parere non sono connaturali al collettivo, e devono dunque essere affrontate e superate.

  118. Ho trovato “Il carattere di feticcio della merce e il suo arcano” in rete:
    http://www.filosofico.net/Antologia_file/AntologiaM/Marx_15.htm
    Il brano è completo? (non ho sottomano Il Capitale per verificare…)

  119. @ pedrilla

    rischiamo di avventurarci nel territorio di un’antica controversia, alimentata anche dal fatto che “Il capitale” è un’opera frammentaria e incompiuta, e il libro III (dove Marx si occupa nello specifico di prezzo e valore) è stato “ricostruito” da Engels.
    A un certo livello, per Marx il valore si trasforma effettivamente in prezzo (cioè il prezzo “interpreta” il valore); ciò non toglie che i due concetti rimangano distinti e non vadano confusi, perché “valore” è il lavoro incorporato nella merce. Senza lavoro a monte, non c’è valore, e senza pluslavoro non c’è plusvalore, e quindi non c’è profitto.
    Quindi il concetto di “valore” contiene e descrive più cose di quelle di “prezzo”, cose che stanno *a monte* del prezzo. Oltre al fatto, come dicevo, che il valore è sempre sdoppiato: una merce ha un valore d’uso e un valore di scambio. E’ quest’ultimo a coincidere col prezzo, etc. etc. etc.
    Ma mi accorgo che questo thread si sta un po’ “incarnendo”… :-)

  120. @pedrilla (una ventina di commenti fa)

    urca, io non volevo avventurarmi nei “capricci teologici” delle merci. Molto piu’ banalmente volevo dire che il lavoro immateriale postfordista non sarebbe possibile al di fuori della produzione seriale tipicamente fordista delle merci in grandi numeri. Non si tratta cioe’ di un lavoro “artigianale”. Sopra un certo livello il “cognitivo” puo’ essere veramente assimilato a un libero professionista. Ma nella maggior parte dei casi il “cognitivo” e’ piu’ simile a un cottimista. Il fatto che il lavoro del cognitivo non possa essere quantificato in unita’ di tempo standardizzate come quello dell’ operaio alla catena o all’ isola di montaggio, non significa che quel lavoro non debba comunque rispettare dei tempi che sono dettati dal processo produttivo nel suo complesso, e non dalla libera volonta’ del lavoratore.

  121. @ danae

    “completo” in questo caso è un concetto relativo, perché è comunque solo una parte del primo capitolo del “Capitale”. Forse lo stralcio che hai linkato si ferma troppo presto: subito dopo ci sarebbe la famosa “robinsonata”, apologo che sfocia in una considerazione su rapporti sociali e reificazione. Comunque, il “succo” c’è.

  122. @ tuco,
    sì, in effetti l’esperienza quotidiana di chi oggi fa un lavoro “immateriale” è proprio quella: i tempi e i modi del lavoro sono dettati dal processo produttivo; dal “flusso di lavoro”, si dice di frequente. Una corrente inarrestabile che somiglia di molto a una catena di montaggio.
    Su questo punto non è facile ‘incontrarsi’ con gli operai, che spesso ritengono gli “immateriali” solo degli intellettuali pennivendoli, testa-tra-le-nuvole: “il vero guaio degli operai sono gli intellettuali!”, mi ha detto un giorno un mio collega…

  123. @ Danae

    già Majakovskij diceva che “Il poeta è un operaio”:
    http://www.marxists.org/italiano/majakovskij/poeta-operaio.htm
    figurarsi se non è un operaio il giornalista precario, o il correttore di bozze precario, o il fornitore di finti test psicologici per il magazine settimanale di scarsa qualità che esce come supplemento di un quotidiano altrettanto scarso…
    (quest’ultimo è un impiego che aveva Sandrone Dazieri vent’anni fa :-))

  124. @WM1,
    questi versi qua mi commuovono. Ogni volta.
    «Siamo uguali. Compagni d’una massa operaia.
    Proletari di corpo e di spirito.
    Soltanto uniti abbelliremo l’universo,
    l’avvieremo a tempo di marcia».

    Sandrone Dazieri fornitore di finti test… :-)!!!!!!!!!!

  125. @WM1

    Leggo solo ora, ma anche il lavoro immateriale, specie quando comincia alle 7 del mattino, ti fa venire una stanca sonnolenza ad una certa ora.

    Il “solo” non era per sminuire l’importanza dell’internazionalismo, ma per sottolineare che allora non sono io che non ne trovo di alternative (leggendo, sia chiaro, non per mie teorie politiche) è che proprio non ce ne sono!
    In “Impero” l’internazionalismo si dice che sarà favorito da internet (dopo 10 anni ancora non è successo) è questo che intendi quando dici che MH e TN sono troppo ottimisti?

  126. @ paco

    Negri & Hardt hanno lo stesso difetto d’impostazione di tutto il post-operaismo: non danno spiegazioni convincenti del perché si venga sconfitti, del perché la soggettività reale sia più in ritardo di quel che dicono loro etc. La loro narrazione è che l’odierno lavoro socializzato dal capitale abbia già costruito le reti del comunismo. L’innovazione è interamente creata dal lavoro (e dal general intellect) delle moltitudini. Se ben guardassimo, il comunismo non è mai stato così vicino. Abbiamo ormai tutti i prerequisiti. Abbiamo già il potere costituente, possiamo riappropriarci delle reti, fare a meno del capitale che è puro comando parassitario.

    Ora, io sono d’accordo con molte delle *premesse*, perché derivano direttamente da Marx (il Marx del VI Inedito e dei Grundrisse). Non sono d’accordo con lo scatto volontarista/trionfalista mediante il quale Negri & Hardt trasformano le premesse in narrazione.

    Capisco bene che, stante lo “sconfittismo” generale in cui era precipitata gran parte della sinistra negli anni ’80 (e in altri paesi già prima), ci fosse bisogno di porre l’accento sulla positività anziché sulla negatività.
    Del resto, l’operaismo italiano aveva già un’impostazione “offensiva”, tutta lanciata in avanti: “prima la classe, poi il capitale”, sono le lotte operaie a costringere il capitale allo sviluppo, l’iniziativa è sempre dei proletari, il capitale re-agisce etc.
    Un’impostazione potenzialmente nietzscheana: l’affermazione, l’affermazione sempre, evitare la negazione, la negazione è debolezza. Ok. In quegli anni, Deleuze stava ri-tematizzando proprio quest’aspetto di Nietzsche. L’incontro tra ex-operaisti e pensiero di Deleuze era nella natura delle cose. Anche il vitalismo bergsoniano di Deleuze si prestava bene a rinforzare l’impostazione tutta-in-avanti del pensiero negriano.

    Su questa narrazione già tutta “offensiva”, esclusivamente assertiva, Negri innestò (in modo brillante, va detto) Spinoza, un filosofo che dice: il nemico è sempre la tristezza, l’uomo deve andare verso la gioia, e la gioia è *un aumento di potenza*. La tristezza è un calo di potenza. L’uomo è gioia quando è potenza.

    Quindi, nella teleologia di quel filone marxista, Spinoza “sostituisce” Hegel: niente più “lavoro del negativo”, non c’è più spazio per il negativo, si è sempre è solo affermativi, si è sempre solo potenti, va rimossa dal quadro ogni tristezza etc.

    Operaismo + Nietzsche + Bergson + Spinoza. Avanti di corsa a cazzo duro!

    Ripeto: c’è una ragion veduta per cui questo è successo. Il ragionamento era: basta con lo sconfittismo, cerchiamo di riconoscere le vittorie storiche anche quando si presentano come sconfitte politiche etc.

    Ma nel mondo la tristezza esiste. Le sconfitte esistono. Bisogna farci i conti. Non si possono rimuovere dal quadro. I “cali di potenza” non vanno semplicemente stigmatizzati: vanno spiegati, vanno previsti, vanno affrontati. Non puoi limitarti a dire a uno sfruttato in preda allo sconforto: “Animo, sii allegro! Non vedi che tutto quel che esiste è frutto del tuo lavoro? Sei tu il vero padrone!” Non funziona.

    Infatti nei periodi più “neri” il pensiero di Negri & Hardt va temporaneamente “out of fashion”. Ritorna in voga quando c’è una nuova spinta. Moltitudine, uscito negli anni di Bush e della sconfitta dei movimenti altermondialisti in Europa e in USA, ha venduto moooolto meno di Impero, che ipostatizzava elementi del periodo “clintoniano”, l’euforia della New Economy, gli entusiasmi all’Est per la caduta del Muro etc.

    Non è difficile capire perché nel buio fitto degli anni Zero le teorie espresse in Impero sembrassero un po’ “disconnesse”. Basti dire che subito dopo il G8 di Genova, Negri scrisse che a Genova *era iniziata la caduta dell’Impero*! Qualche tempo dopo, quand’è iniziato il peggiore riflusso, la discrasia tra teoria ed esperienza si è fatta drammaticamente evidente.
    Quando la politica di Bush ha alimentato un decennio di unilateralismo e guerre che sfidavano le descrizioni fatte in “Impero”, si è ricorsi all’escamotage del “golpe dentro l’Impero”, che in realtà è una scorciatoia.

    Insomma, secondo me un barlume di “negativo” va tenuto, altrimenti la teoria diventa teoria da imbonitore da fiera che vende alle moltitudini l’elisir del potere costituente.

    Io mi spiego in questo modo il fatto che negli anni Zero siano usciti alla ribalta Zizek e Badiou. Perché (prendendolo da Lacan) fornivano quel “negativo” che sempre serve a spiegare gli scacchi, gli arretramenti, la sconfitta delle velleità di ieri.

    L’ideale sarebbe trovare il frame concettuale che includa entrambe le esigenze.

  127. @WM1

    In sintesi “il pessimismo della ragione, l’ottimismo della volontà”.

    Comunque sia quella tra capitale e lavoro è una lotta, quindi quello che fa continuamente il capitale e contrastare il tentativo del lavoro di incunearsi e di scardinarne la supremazia.
    Negri e Hardt dicevano nel 2001 che si era prossimi alla caduta del sistema economico perchè il valore della merce era di 3-5 volte inferiore a quello del denaro (teorico) che girava tra le banche. Il ritardo con cui si è verificata la crisi (circa 10 anni dopo) per loro è dovuto al fatto che Bush abbia “rapito” l’Impero e l’abbia, con la guerra al terrore, “distratto” dal suo vero “stato di salute”.
    Guardando il sistema capitalistico da un punto di vista italiano, mi chiedo è possibile che il nostro attuale governo faccia (ad esempio) una legge sulle transazioni speculative in borsa, titoli o merci che siano? (per inciso ne parlava Bertinotti parecchi anni fa e ieri lo ha ripreso il mio Direttore Generale in assemblea di bilancio di una S.p.A. additando le speculazioni che penalizzano il lavoro)
    Domanda retorica, il capitale non può penalizzare se stesso se non è obbligato e per essere obbligato ne deve andare della sua propria sopravvivenza.
    Ancora una volta mi chiedo quindi, è solo l’internazionalismo la leva per inserire il cuneo più in profondità? (se sì mi sento impotente e la cosa non mi piace)

  128. Su valore/prezzo… pippone lungo e forse un po’ contorto, mi scuso in partenza :-)

    Forse dirò delle stupidaggini, però penso che la questione possa essere risolta senza grossi problemi, e restando pur sempre in una prospettiva marxista, attraverso una distinzione chiara fra due dinamiche distinte: formazione del valore (ossia produzione) vs formazione del prezzo (ossia scambio commerciale).

    Se per quanto riguarda il primo processo l’analisi di Marx è probabilmente quella più perspicua, per quanto riguarda l’altro processo penso vada infranto il tabù secondo cui le indicazioni della “scuola marginalista” sono in tutto e per tutto da buttare solo per il fatto che su di esse si è fondata la controffensiva dell’economia neoclassica nei confronti del marxismo.

    Questo recupero, come accennavo, può essere fatto tranquillamente in una prospettiva marxista: è in fondo lo stesso Marx che, quando parla del capitalismo, evidenzia come il feticismo delle merci (ossia, se ho capito bene il “barbuto-pensiero”, la finalizzazione della produzione al valore di scambio) operi in funzione dello scambio sul mercato!

    Ora, la formazione del prezzo sul mercato segue il principio dell’utilità marginale, sicché il “prezzo di mercato” è quello individuato dall’intersezione fra curva della domanda e curva dell’offerta. In questo senso, il prezzo (che è una grandezza *relativa*, il cui valore è sancito dalle interazioni di mercato) può oscillare di parecchio rispetto al valore (che è invece fissato dal tempo di lavoro impiegato per produrre le merci): può essere maggiore (per cui l’estrazione di plusvalore si ripercuote direttamente sul prezzo delle singole merci), ma anche minore o uguale (per cui la singola merce viene venduta in sottocosto, e il plusvalore viene ricavato in altre forme, più indirette).

    Detto in altri termini (ma forse il parallelismo non è del tutto pertinente… boh) il valore ha la natura di uno “stock”, mentre l’andamento dei prezzi è più questione di “flussi”. Quello che conta complessivamente per il capitale è che, in generale, il valore monetario ricavato dalla vendita delle merci consenta, sull’insieme di queste merci, l’estrazione di un plusvalore, a prescindere da come si orienta il flusso dei prezzi, che può oscillare anche di parecchio (entrano in gioco talmente tante variabili… costo del denaro, inflazione, fluidità degli scambi ecc.).

    Alcuni economisti, che non hanno esitato ad attribuire a Marx un ruolo centrale nella storia del pensiero economico, sono comunque molto netti nel dire che al pensatore di Treviri sono sfuggiti molti aspetti della “natura” del denaro.

    In fondo la sua analisi filosofica sul famoso *equivalente generale* riprende, anche se in chiave molto “evoluta”, la teoria (storicamente infondata e teoreticamente fallace) secondo cui il denaro è, dopo tutto, una specie di “merce privilegiata”, isolatasi dalle altre per rendere più agevoli gli scambi, e sorta quindi (in linea di principio e/o in linea di fatto) dalla dinamica del baratto.

    Quello che sfugge a questa analisi sarebbe invece il carattere *istituzionale* della moneta, ossia del “metro” utilizzato per “quantificare” il valore nello scambio di mercato, attraverso il meccanismo dei prezzi.

    ——–

    Rispondo rapidamente su Proudhon… anche se Marx ha ripreso il tema in modo sicuramente più ficcante (e anche se fra i due vi era scarsa simpatia) concedetemi la nota “affettiva”. Da tendenziale socialista libertario quale sono, alcune intuizioni dell'”anarcomatto” di Besançon mi toccano al di là della maggiore/minore potenza teoretica :-)

  129. @ paco

    se ne deve andare della sua sopravvivenza, allora il capitale dev’essere attaccato nel suo essere globale. Ad esempio: adesso l’UE e il potere finanzcapitalistico hanno grosse difficoltà a imporre ricette lacrime & sangue, “fare la faccia cattiva” per far restituire i soldi alle banche non sembra funzionare, perché in diversi paesi c’è un’opposizione forte e non si sa come va a finire.
    In Grecia la popolazione è in rivolta.
    In Spagna c’è un movimento anti-tagli e anti-precarizzazione tra i più innovativi e interessanti che si siano visti da parecchio tempo a questa parte.
    In Islanda c’è stato un referendum contro le banche inglesi, vinto da chi *non* voleva restituire i soldi; non solo: gli islandesi stanno *arrestando* i banchieri e gli speculatori responsabili della crisi!
    Se queste lotte si estendessero, l’UE sarebbe costretta a cambiare “ricette”.
    Quindi, sì, la risposta è il buon vecchio internazionalismo.

  130. @ redview

    Aggiunta al volo sulla questione dei “filoni del pensiero socialista diversi da quello di stretta derivazione marxista” in materia di dimensione sociale del lavoro…

    Al pensiero libertario vanno aggiunti i contributi dei socialisti cosiddetti “utopici” Fourier e Owen. Tra pratiche falansteriane e “invenzione” delle scuole d’infanzia, il problema del “capitale sociale” era ben presente anche a loro.

    Di nuovo: la maggiore sostanza teoretica dell’analisi di Marx secondo me non è un buon motivo per tagliare fuori altri contributi, dai quali magari possono emergere suggerimenti o indicazioni interessanti, utili comunque a ripensare, in generale, il socialismo come alternativa.

    Il rischio, al contrario, è quello di feticizzare Marx, di trasformare la sua opera in monumento, ri-accreditandone l’egemonia sull’intera “tradizione” socialista… e allora tra Owen e Marx si finisce per far correre la differenza che passa tra “utopia” e “scienza”; o tra Marx e Proudhon la distanza che separa il filosofo profondo e rigoroso dal polemista viscerale e confusionario… a scapito di un approccio magari un po’ più “pluralista” :-)

  131. @ Don Cave

    “e allora tra Owen e Marx si finisce per far correre la differenza che passa tra “utopia” e “scienza”;”

    questa dicotomia nel marxismo intelligente è superata ormai da tempo, o quanto meno parecchio sfumata. Fu soprattutto Engels, grande codificatore degli scritti postumi di Marx, a irrigidire certi enunciati, e a far sembrare il marxismo un sistema filosofico e un metodo scientifico schematicamente applicabile a situazioni diverse. E’ vero, c’è il Marx deterministico, rigido e schematico dell’Ideologia tedesca (ma anche lì bisogna vedere quanto c’è di Marx e quanto di Engels), però non va dimenticato che quell’opera giovanile Marx la ripudiò, dicendo di averla abbandonata a quelli che meglio potevano criticarla, cioè i topi (non “topi” nel senso di Badiou, proprio i roditori con i loro denti).

    Oggi ci sono tanti possibili Marx, compreso il Marx interessato agli indiani d’America e alla comune contadina russa, il Marx non “sviluppista” poi ripreso e amplificato da Camatte, c’è il marxismo di Benjamin, quello di Bloch, c’è un marxismo culturale che riflette a fondo sul concetto di “utopia” (vedi Jameson), c’è il filone del marxismo, ehm, “spinoziano” nel senso detto sopra…

    Io devo dire che su Proudhon ci andrei cauto, comunque mi sta bene ritrovare in alcuni degli “altri” socialismi elementi che possano essere d’ispirazione.

    [Senza alcuna intenzione di aprire un dibattito, visto che su queste querelles ci si schiera sempre come “tifosi”, dico che su Proudhon ci andrei perlomeno cauto, perché se uno va a leggerlo bene e non si limita a soundbites come “la proprietà è un furto”, presto o tardi si renderà conto, ehm, di due o tre cosette… Al contrario di Marx ed Engels, Proudhon era contro l’emancipazione femminile (“Nego alla donna ogni diritto politico e d’iniziativa. La libertà e il benessere della donna risiedono esclusivamente nel matrimonio, nella maternità, nei doveri domestici, nella fedeltà al suo sposo”), era un apologeta della guerra (a volte sembra di leggere un mix di D’Annunzio e Marinetti!), non era ostile all’idea di un socialismo realizzato sotto la dittatura di una sola persona (che a un certo punto gli parve essere Luigi Napoleone!), riteneva i neri esseri inferiori, nella guerra civile americana si schierò pubblicamente per il Sud dicendo che non aveva tutti i torti a voler mantenere la schiavitù, pensava che il vero progresso non lo fanno mai le masse ma sempre un’élite di spiriti illuminati etc. etc. etc. Insomma, a voler essere benigni, si potrebbe dire che era uno un po’ confuso…]

  132. @ WM1

    Sono tutto tranne che un “tifoso”, per carità… non è un caso se ho chiamato Proudhon l'”anarcomatto” di Besançon ;-)

    Sulla questione femminile, ad esempio, non si può che rincarare la dose:

    “Tra l’uomo e la donna può esistere amore, passione, legame d’abitudine e tutto quel che si vuole, ma non c’è veramente società. L’uomo e la donna non vanno di pari passo. La differenza dei sessi eleva tra loro una barriera della stessa natura di quella che la differenza delle razze pone tra gli animali. Perciò, ben lungi dal plaudire a quella che viene oggi chiamata emancipazione della donna, sarei piuttosto incline, se si dovesse giungere a questo estremo, a segregare la donna”. Da “Che cos’è la proprietà”.

    Per non parlare, oltre alle cose già citate, del suo antisemitismo!!!

    E per quanto riguarda Owen, si potrebbe citare un passaggio a dir poco agghiacciante dalla lettera inviata agli industriali in allegato alla sua opera più celebre, “A New View of Society”:

    “Se, dunque, una debita attenzione allo stato delle vostre macchine inanimate può produrre questi risultati positivi, che cosa ci si può attendere quando prestiate la stessa attenzione alle macchine viventi, che sono di gran lunga le più perfette quanto a costruzione? Quando avrete imparato a conoscerle bene, con il loro meccanismo e i loro poteri di autocontrollo; quando la giusta molla maestra sarà stata adattata ai loro diversi movimenti, allora vi accorgerete del loro valore reale e sarete ben presto indotti a rivolgere più frequentemente il pensiero dalle vostre macchine inanimate a quelle viventi; scoprirete che queste ultime possono essere facilmente addestrate e dirette in modo da produrre un notevole aumento dei guadagni pecuniari, e che allo stesso tempo voi potrete trarne anche una notevole ed effettiva soddisfazione”.

    Poi però si sentono anche tanto citare – a sproposito – Aristotele e Platone come “padri spirituali” della democrazia, si nominano la “Politica” e la “Repubblica” come testi seminali del pensiero politico occidentale… dimenticando che Aristotele usa la sua filosofia per giustificare la schiavitù, con una formula che oggi non può che sembrarci folle, grossolana e pretestuosa (del tipo: lo schiavo è tale “per natura”); mentre il cosiddetto “comunismo platonico” – e non del tutto a caso – ha ispirato, fra le tante cose, il pensiero neofascista italiano (basta pensare agli scritti di Franco Freda).

    E’ anche per questo – ossia per evitare di “tifare” o di prendere l’opera di un autore con la filosofia del tutto/niente – che preferisco contestualizzare storicamente e mantenere comunque un approccio “eclettico”. I filosofi “seri” mi cazzieranno, ma resto convinto che da ogni autore vadano recuperate suggestioni, suggerimenti, singole idee…

  133. @ Don Cave

    c’è però una differenza sostanziale: Aristotele e Platone, rispetto alla cultura in cui erano immersi, erano molto più aperti. Cose che oggi nella “Repubblica” (anche per colpa delle banalizzazioni alla Popper) urtano la nostra sensibilità di contemporanei, se pensate nel loro contesto e fuori dagli anacronismi, risultano elaborazioni avanzatissime.
    Infatti Platone era per l’uguaglianza tra i generi. Inoltre, nella scuola di Platone non doveva poi esserci grandissima simpatia per l’istituzione della schiavitù, se è vero quel che racconta Demostene: un allievo di Platone, Chairon, prese il potere a Pellene, espropriò gli aristocratici e li mandò ai lavori forzati, e al contempo liberò gli schiavi, distribuendo loro le ricchezze confiscate ai nobili.

    Invece Proudhon, nel suo contesto, era retrogrado e chiuso. Difendeva la schiavitù mentre già esisteva l’abolizionismo, difendeva l’inferiorità della donna mentre c’erano già spinte proto-femministe e altri socialisti erano per l’uguaglianza tra i generi etc. etc.

  134. @ WM1

    Good point… :-)

  135. […] Note sul #referendum, i social network e il “popolo della rete” tratto da | Giap, la stanza dei…. […]

  136. @ Don Cave

    Grazie per la risposta. Ho letto interessato gli scambi tra te e WM1! :)

    Detto ciò. Io per ora ho letto non abbastanza per permettermi quei parallelismi. Tuttavia, leggendo quel tuo esempio dell’obelisco io ho pensato che si potesse spiegare, imho più semplicemente e con meno parole, con Marx e la sua teoria del valore. E quindi che si potesse con qualche rasoiata eliminare il resto superfluo :) ; magari superfluo per una conoscenza limitata come la mia, eh. :P.

    Anzi, non solo teoria del valore di Marx, ma anche “gemeinwesen” citato da WM1.

    Ciao :)

  137. Stavo leggendo questo articolo:
    http://www.democraziakmzero.org/2011/06/16/nel-paese-dellultimo-capitalismo/
    e cercando di capire meglio la frase “una logica per la quale il profitto tende sempre più a divenire rendita”, mi è stato suggerito questa recensione al recente libro di Marazzi sul capitalismo finanziario – libro che ahimè non ho ancora avuto tempo di leggere: http://bit.ly/jh559J

    Ecco, contiene spunti rilevanti per questa discussione, soprattutto a pagina 3:
    “…i modelli di business che vedono nelle società ad alta tecnologia con sede nella Silicon Valley la perfetta realizzazione del modello di business open source per creare valore dal gratis. Ciò che Marazzi e i post-autonomisti italiani chiamano capitalismo cognitivo è quindi un tentativo di concettualizzare i modi in cui la vita, le relazioni sociali, i saperi individuali, sono messi al lavoro.”

    Ciao.

  138. Sul denaro credo sia imprescindibile anche Simmel, a proposito di contaminazioni. (My two cents in ritardo, leggo solo ora scusate, comunque discussione interessantissima e che potrebbe continuare all’infinito).

  139. @ Wu Ming 1
    Tu scrivi:
    “In parole povere:
    smetterla di feticizzare “la rete”, di raccontarla solo come insieme di pratiche liberanti. Tornare a chiedersi: chi sono i padroni della rete? E chi sono gli sfruttati *dalla* rete?”.

    Senza scomodare Marx, cosa che non sono in grado di fare né probabilmente di capire fino in fondo (e comunque ho qualche dubbio sull’applicabilità del discorso sul feticisimo delle merci ad una merce così diversa come quella prodotta in rete) mi viene in mente una cosa molto banale: questo blog utilizza un software pensato ad uso e consumo dei software di indicizzazione d Google; è un software gratuito dal momento che produce plusvalore attraverso altri canali rispetto alla semplice compravendita; nessuno si è premurato di cancellare le poche righe di codice dal footer della pagina che ci fanno sapere che “Giap, la stanza dei bottoni di Wu Ming is PROUDLY powered by WordPress”. Sono tutte cose cui, per de-feticizzare Giap, si poteva porre rimedio con una programmazione autonoma, magari meno remunerativa (perché più dispendiosa di tempo e lavoro, ma più utile, e con meno risultati in termini di presenza nell’odiato motore monopolista, ma più in linea col tuo discorso). Non sarebbe stato più BELLO?

  140. @emile
    la tua descrizione di wordpress e’ un po’ semplicistica, nel senso che questo blog funziona grazie a decine di plugin e widget creati da tanti programmatori indipendenti, che noi continuiamo a installare, aggiornare, far interagire tra loro. La situazione e’ dunque molto piu’ ibrida e mutevole. Su “proudly” hai ragione, si puo’ togliere, ma il feticismo della merce-informazione e’ veicolato da molto altro ( e secondo me non c’e’ mai stata merce piu’ feticizzata di quella prodotta in rete, perche’ e’ merce “che ti mette in rete”, coincide con le relazioni del suo stesso consumatore). E comunque, non credo che la piccola auto-imprenditoria telematica sia LA risposta, perche’ il problema di tutta l’immensa massa di plusvalore estorta a monte (per produrre le condizioni stesse che ci permettono di stare in rete, ed e’ soprattutto questo il lavoro che viene occultato) rimane. E scordiamocelo, che in rete esistano oasi di lavoro “libero e bello” che non sia comunque pluslavoro, e che l’autoproduzione sia estranea alla valorizzazione capitalistica.

  141. P.S. Abbiamo fatto dei passi avanti, se anziche’ contestarci per via dell’ Einaudi, ci rimproverano perche’ il blog gira su WordPress :-)

  142. A integrazione di quanto appena detto, e per maggiore chiarezza nei confronti di chi sta leggendo e magari ci segue da poco:

    il discorso che portiamo avanti sulle contraddizioni della rete (e la prassi che di conseguenza ne deriva) è correlato a quello che portiamo avanti nell’editoria. Cioè: vogliamo stare (marxisticamente, potremmo dire) nella contraddizione, esplorarla, essere per quanto possibile “dentro e contro” (un motto dell’operaismo degli anni ’60). Quindi pubblichiamo con grandi editori (non soltanto, ma principalmente), e cerchiamo di farlo in modo *conflittuale*, senza dimenticare mai – nemmeno per un istante – la natura del rapporto di produzione, sempre consci dell’influenza sulle nostre azioni di quel “peccato originale” che è lo sfruttamento.

    Dentro la contraddizione, abbiamo cercato e tuttora cerchiamo di imporre pratiche eterodosse come la glasnost del venduto, il “copyleft” etc. Soprattutto, abbiamo cercato di condurre una “inchiesta militante”, comunicando ai lettori informazioni sul funzionamento della macchina editoriale, dell’industria culturale etc. Lo abbiamo fatto in tanti modi: tramite Giap, tramite racconti sui dietro-le-quinte etc.

    Nel post di qualche mese fa intitolato “Boicotta Wu Ming” (si trova nella colonna di destra, nel box dei dieci più commentati) abbiamo constatato che, lungo questo percorso, abbiamo collezionato diverse sconfitte. Dieci anni fa speravamo che le nostre pratiche si estendessero, invece siamo rimasti mosche bianche. Però l’inchiesta continua, il “dentro e contro” continua. Puntiamo ancora ad acuire la contraddizione, non a fingere di rimuoverla. Ci sporchiamo le mani. Se avessimo scelto l’autoproduzione “hardcore”, saremmo magari stati più “puri”, ma saremmo stati un’altra cosa.

    Veniamo alla rete:
    abbiamo scritto che la rete non è un altro mondo, bensì questo mondo, ed è un luogo di conflitti (posto di lavoro, lotto destinato a speculazione etc.). Il modo più sensato di starci dentro è starci dentro in modo *conflittuale*. Starci dentro in modo conflittuale significa anche ricordarsi in ogni momento (e farlo presente) che la rete esiste grazie a uno sfruttamento brutale dell’uomo e dell’ambiente. La nostra bella libertà di comunicare (e di autoprodurci) si erge su una gigantesca piramide di vessazioni, schiavitù e devastazioni.

    Negli anni in cui la rete è cresciuta, io ho sentito tanti e variegati discorsi (giusti, belli e fecondi, su questo non ho dubbi) sul software libero, sul “no logo”, sul rifiuto del brand, sul cognitariato, sul potere costituente delle reti del lavoro immateriale etc.
    Molto, mooooolto più di rado ho sentito discorsi sulla concreta materialità dello sfruttamento che permette alla rete di esistere.

    Insomma, mi sembra che l’attenzione sia rimasta sbilanciata. E la difficoltà di capire e riconoscere che *tutta* l’attività in rete incorpora sfruttamento precedente e a sua volta produce valore, che tutto il lavoro in rete (anche quello no-logo) è pluslavoro, che le relazioni in rete sono reificate perché sono relazioni tra soggetti trasformati in merci, mi sembra testimoniare tale sbilanciamento.

    Quando parlo di “defeticizzare la rete”, intendo l’acquisizione di questa consapevolezza. Che è la precondizione per stare “dentro e contro”, dentro in modo conflittuale.

    E se stiamo “dentro e contro” la rete, magari possiamo trovare il modo di *allearci* con coloro che sono sfruttati a monte. Pensate se molti di quelli che hanno un iPad o un iPhone facessero uno “sciopero”, tipo si rifiutassero di acquistare applicazioni sull’Apple Store, finché Apple non avrà riconosciuto maggiori diritti agli operai cinesi che producono i tablet in condizioni para-schiavistiche. Questo era solo un esempio buttato lì, ma credo sia abbastanza chiaro.

    Stare “dentro la contraddizione”, esplorarla, cercare il contro nel dentro significa anche *non opporre un rifiuto ideologico* all’uso di strumenti come WordPress o alla migliore indicizzazione del proprio sito su Google (noi usiamo anche Feedburner, figurarsi). Credo che di fronte a ogni dispositivo si debbano valutare, volta per volta, i pro e i contro, i margini di manovra, il possibile equilibrio tra agire ed essere agiti. Noi, per dire, siamo assenti da Facebook non perché siamo “puristi”, frati trappisti della rete, ma perché abbiamo valutato che, per la natura del nostro progetto, quel dispositivo fosse inutilizzabile. I contro erano molto più numerosi dei pro. Invece usiamo Twitter, abbiamo trovato una nostra “cifra” peculiare, riusciamo a trovare sempre uno spazio di manovra nel dispositivo.

    Nello specifico del software che utilizziamo per stare in rete:

    per altri siti, come quello di Lavorare con lentezza o quello di Manituana, abbiamo usato software sviluppato da nostri amici (Chialab). Lo abbiamo fatto perché in quei due casi potevamo pagarli. E potevamo pagarli perché… non pagavamo noi. Il sito di LCL è stato realizzato con un investimento della Fandango, quello di Manituana con un investimento dell’Einaudi. Due grandi aziende. E in entrambi i casi c’era un collegamento con chi-ben-sappiamo, perché l’Einaudi è nel gruppo Mondadori e la Fandango aveva prodotto il film insieme a Medusa. Quindi, il fatto di aver usato software indipendente non ci ha comunque posti fuori dal ciclo della valorizzazione. E non lo avrebbe fatto comunque, perché quel film e quel libro erano merci, e la vendita di quelle merci è il nostro modo di sbarcare il lunario. E lo stesso stare-in-rete è già parte della valorizzazione.

    Per il blog di Altai e per Giap, non eravamo in condizione di pagare il lavoro a chicchessìa. Poiché noi non siamo programmatori e non abbiamo le competenze necessarie per sviluppare un software in proprio, abbiamo tagliato la testa al toro, e deciso di usare uno di quelli gratuitamente disponibili in rete. Gratuitamente perché, come giustamente ricorda Emile, i profitti vengono ottenuti in altri modi.

    Abbiamo scelto WordPress dopo aver valutato e comparato altri software, perchè ci è sembrato il più versatile e completo. E ci è sembrato il più versatile e completo perché è innegabilmente quello che *incorpora più cooperazione sociale*. Il numero di plug-in sviluppati a getto continuo dalla comunità dei programmatori-utenti è impressionante. Qualunque ipotetica funzionalità, qualunque possibile miglioria ti venga in mente, è quasi certamente già venuta in mente a qualcuno, che ha sviluppato il plug-in adatto alla bisogna e lo ha messo a disposizione freeware o shareware. Noi scarichiamo, paghiamo e installiamo. Facciamo sempre donazioni ai creatori dei plug-in. E attenzione: qualunque cifra donassimo, comunque li staremmo *sottopagando*. Perché il valore d’uso che le loro creazioni hanno per noi è mooooolto più grande del valore di scambio che loro sono stati costretti a fissare (es. “Please donate at least $10”). Il loro è comunque quasi tutto pluslavoro, anche nei casi in cui riescono a campare della loro attività.

    Ecco, stare in rete in modo conflittuale, stare in rete cercando di “defeticizzarla”, significa non scordarsi mai tutto questo. Mai, nemmeno per un minuto.

  143. Vi ammiro (e ammetto di fare fatica a seguire le motivazioni che elenca Wu Ming #1 nell’ultimo commento) per la consapevolezza con cui vivete la rete e scegliete i vostri strumenti.
    Sul discorso WordPress, però, mi pare si stia un po’ esagerando. Bisogna “fermarsi alla cinquantesima porta”, altrimenti tra un po’ staremo a discutere dei fatto che il datacenter che vi ospita usa sistemi di raffreddamento non ecologici e potrebbe ottenere un’efficienza maggiore del dodici punto sei percento :P

  144. @ clem131

    se mi dici quali sono i passaggi troppo faticosi, provo a spiegarli in modo più chiaro. In effetti, ho dato per scontate alcune cose, perché spiegate lungo il thread, ma il thread è ormai gigantesco! :-O Non si può pretendere che tutti l’abbiano letto tutto.

  145. E infatti sono giunto qui via twitter, manco a dirlo. E non è che non sia spiegato chiaro, è direi mancanza mia, io quando leggo “potere costituente delle reti del lavoro immateriale” o “defeticizzare la rete” sbatto gli occhi un pajo di volte impassibile e poi proseguo, non sono bravo con le parole :)
    Ma direi che il succo c’è, ovvero il costante individuare e sottolineare le contraddizioni come fondamento del dentro-e-contro che altrimenti è un dentro-e-distratto-dalle-mosche-che-volano o semplicemente dentro-e-basta.
    Oh, se mi avanzano due o tre ore (lol) recupero i commenti in arretrato ovvero tutti, avevo solo letto il post.
    Grazie cmq per la risposta.

  146. [WM e gli amici lettori mi perdonino per il commento un po’ laterale e qualche tecnicismo]
    La prima volta che ho contattato WM1, 5 anni fa, è stato per fargli un pippone sul vecchio e libero formato SKW di Open Office da *affiancare* a RTF\DOC nella loro pagina di download (no, non mi ci ha mandato e oggi i discorsi su questi formati sono un po’ sorpassati). Posso quindi intervenire sulla “questione WordPress” a pieno titolo! Ricordo che:
    1) WordPress è software Open Source creato con un linguaggio di programmazione Open Source (PHP). Per i puristi, WP è sotto GPLv2, PHP sotto la PHP License.
    Detto questo WP è usato dal blog del Wall Street Journal, dal colosso TechCrunch di proprietà AOL, da Wu Ming, da chiunque.
    L’Open Source e pure la GPL non garantiscono certo la purezza anticapitalistica… ma tanto meno provocano lo sputtanamento automatico…
    2) Io ho scritto un “blog” in PHP, con le mie manine sante . Mi è venuta fuori una cosa zeppa di bug e con funzioni limitatissime (altro che plugin!); assomigliava vagamente a un blog, nello stesso modo in cui un pony ricorda un cavallo da corsa. Per me (e per tanti altri che hanno fatto lo stesso percorso) si è trattato di un esercizio per capire i fondamenti. Per ottenere una cosa decente, degna ad es. di ospitare i contenuti e la comunità di GIAP, devi fare un progetto, aprirlo ad altri, creare una comunità con competenze diverse. Insomma devi avere WordPress Drupal Joomla ecc. [ho scritto anche un blog con Python\Django, minimalista ma abbastanza carino, e siamo appunto nello stesso caso; il lavoro brutale viene dal framework “libero” che sta sotto]
    3) A meno che tu non sia in grado di programmare come Mullenweg (WordPress) o Dries Buytaert (Drupal) un blog professionale con tutte le funzioni “necessarie” oggi (sicurezza compresa, per dirne una) non lo puoi programmare da solo. O se lo programmi, ti posso assicurare che il tempo passato ad aggiornarlo (anche solo per la sicurezza) non ti consentirà più di scrivere romanzi storici, come i nostri beniamini vorrebbero fare (anche se probabilmente passano il tempo a rispondere ai commenti di GIAP)
    4) E anche se fossi in grado di programmarlo, cosa useresti? PHP, vero? Come i precedenti siti citati da WM1 (se ricordo ben). E magari un framework? E poi cos’altro? JQuery e quante altre librerie di funzioni? Insomma sei nella stessa situazione di chi usa WordPress e i suoi plugin.
    Costruisci, nel migliore dei casi, con strumenti e componenti “open source” utilizzabili per i fini più vari. Non c’è altra soluzione.
    4) Se WP dovesse svaccare si farà un fork (una biforcazione del progetto), perché i sorgenti sono lì a disposizione e basta un nucleo di persone competenti per iniziare un altro percorso (che poi fiorirà o morirà a seconda del coinvolgimento che saprà creare). Come è successo ancora recentemente con LibreOffice \ OpenOffice (ma quella è una storia strana).
    Avrei, al limite, capito in principio la critica se GIAP fosse su di una piattaforma Windows. Ma fare l’anticapitalismo romantico sopra un software Open Source con licenza GPLv2 in nome di una inesistente o molto difficilmente praticabile purezza di programmazione mi pare *persino più facile* che togliere il PROUDLY dal footer.

  147. Tranquillo, Jumpinshark, ché rispondere ai commenti porta via molto meno tempo di quel che sembra! :-) Stiamo lavorando per voi (e per noi, ovvio). Più che altro, io macino pagine di King dalla mattina alla sera, e se non ci fosse Giap a farmi rilassare cinque minuti all’ora, sarei tutto il tempo incatenato a ‘sta kolossale risma di mille fogli A4 il cui livello scende lento….. lento….. lento…. :-P E’ una bella sfida, ma in questi giorni, quando mi chiedono “Allora, come va con Stìvenching?”, io rispondo: “Al mazarév!” (in ferrarese: “Lo ammazzerei!” :-D)

  148. mitico jumpinshark.

    oggi usare cose che sono fatte da una compagnia e` quasi impossibile a meno di non diventare survivalisti. Penso che veramente usare roba open source in cui se volessimo dirlo con le categorie marxiste chi le fa regala il proprio plusvalore a chiunque voglia usarlo (se e` scorretto ditelo) sia il massimo possibile del non essere nel sistema.

    Jumpin sei anche te un odiatore di bill gates? o meglio piu` odiatore che di jobs, brin o della IBM?

  149. il massimo dal punto di vista del consumatore intendevo…

  150. @ Wu Ming 1
    Sbagli, te lo garantisco, anzi direi che nella risposta che mi hai dato non ne hai azzeccata una.
    Dalla fine:
    la mia non era una contestazione a Wu Ming in quanto tale e per le scelte che fate, ma al tuo discorso specifico.
    Il discorso su plugin e widget è del tutto fuori fuoco (con le tue parole), rispetto a quanto ho detto io: è il sistema di variabili che usa WP a prescindere dai suoi ammennicoli che è utilizzato da google per l’indicizzazione.
    Inoltre, usare questa argomentazione è come dire che un’automobile è meno brutta e cattiva perché ci hai installato sopra un’autoradio con lettore mp3, così da non finanziare oltremodo le major discografiche.
    Ancora, non è un sistema di blogging che consente lo sviluppo, ma i linguaggi che si utilizzano per farlo girare.
    I programmatori indipendenti, molto più che scrivere plugin per WP, scrivono applicazioni per android, api per google, api per facebook, api per twitter, utilizzano i codici microsoft. Roba da feticisti. Soltanto apple impedisce di fare queste cose. Lo sciopero vero non credo possa essere la diserzione degli apple store, semmai il non utilizzo di sistemi blindati come i Mac OS.
    La mia descrizione non voleva essere semplicistica, ho dato per scontato che sapessi di cosa stessi (io, ma anche tu) parlando, contrariamente a te che hai dato per scontato che stessi (solo io stavolta) parlando a vanvera. Almeno così sembrerebbe dalla tua risposta. Di WordPress faccio uno strumento di lavoro, e lo si può usare con una certa indipendenza (di programmazione, quindi di pensiero) non attraverso i plugin ma lavorando sul codice nel suo complesso.
    L’indicizzazione, infine, è un generatore di indotto. Se la si ottiene alle regole di google, si lavora per uno dei padroni della rete. Se lo si fa per lavoro, è come fare l’operaio e il discorso sta in piedi. Se lo si fa con le proprie cose scricchiola. Questo per dire che il parallelo con Einaudi non c’entrava proprio niente, sarcasmo a parte.

  151. @ emile

    A parte che l’incipit “Sbagli, te lo garantisco”, presuppone che tu abbia una qualche autorità per garantirmi qualcosa, e io, chissà poi perché, dovrei prendere la cosa per buona. Quanto al “non ne hai azzeccata una”, guarda che non è questione di “azzeccare”: io mi sono sforzato di spiegarti qual è la logica con cui operiamo in rete, cos’è per noi la contraddizione e come ragioniamo. Non sei d’accordo? Bene, è un tuo diritto, ma la paternale sul cosa non avremmo capito del malvagio rapporto WP/Google o di quant’altro te la potevi risparmiare ed è del tutto sfocata rispetto all’approccio che ho descritto.
    Se non sono entrato in un merito più tecnico (lo ha poi fatto Jumpinshark), è perché mi interessava spiegare l’aspetto politico.
    Infine: io non ho scritto da nessuna parte che la tua fosse una contestazione, ho scritto che era un rimprovero e ci ho messo la faccina. Poi, però, vista la tua sovra-reazione, sono arrivato a pensarlo: era una contestazione, maldestra e da temperachiodi. E questo tipo di approccio mi è sempre sembrato l’altra faccia del feticismo di cui sopra.

  152. Non ho nessuna autorità, se non quella di sapere che la tua risposta non azzeccava la mia domanda, che per altro era semplice e banale. Comunque un’autorità sicuramente più limitata rispetto a quella che hai tu di spiegarmi (parole tue) le cose. Ripeto: non ho detto che non condivido la logica con cui operate in rete. Ho detto che non condivido il tuo discorso, non mi sembrava incomprensibile. Ho detto che hai fatto delle affermazioni sbagliate.
    È sovra-reagire farti una critica?

    Credevo che tu avessi scritto
    Wu Ming 1
    28/06/2011 at 11:28 am
    P.S. “Abbiamo fatto dei passi avanti, se anziché contestarci per via dell’ Einaudi, ci rimproverano perche’ il blog gira su WordPress :-)”
    Ma forse il caldo mi dà delle allucinazioni.

    Ho trovato questo post da me medesimo prodotto inutilmente sarcastico. Ci rimproverano? Chi? Io sono uno. Vista poi l’impersonalità del destinatario, la faccina rideva altrove. Penso che avresti potuto rivolgerti a me come nel post precedente, e non ad una presunta cricca cui dare gomitatine.
    Magari per te anche questo è un modo di sovra-reagire e di temperare i chiodi. Per me no.
    Comunque sia non ne sono turbato, te lo garantisco, e te lo garantisco con l’autorità di chi sa che non sono turbato :P

  153. @ emile

    ehm… Detesto dovertelo far notare, ma…

    Il tuo stesso copia-e-incolla dimostra (non che ce ne fosse bisogno, era già visibile a tutti) che nei confronti della tua critica avevo usato scherzosamente il verbo “rimproverare”, mettendo tanto di emoticon per rendere la battuta stupid-proof.

    Davvero non capisco questo attacco di “permalite”…

    Per il resto, tu dici che non contesti la *logica* con cui stiamo in rete bensì la mia *risposta* al tuo rilievo.
    Ora, come tu possa operare una simile distinzione è un bel mistero… Infatti nel mio commento spiegazione della logica e risposta al rilievo erano la stessa cosa. Infatti ho scritto, tra le altre cose:

    —-inizio quote—
    Stare “dentro la contraddizione”, esplorarla, cercare il contro nel dentro significa anche *non opporre un rifiuto ideologico* all’uso di strumenti come WordPress o alla migliore indicizzazione del proprio sito su Google (noi usiamo anche Feedburner, figurarsi).
    —-end quote—-

    Tu puoi dire che non sei d’accordo, ma non contestare questa scelta in base a un tuo “saperne di più”. Perché è della nostra etica che stai parlando, e non esistono “esperti” della nostra etica: esiste solo gente che la condivide e gente che non la condivide. Punto.

    Tra l’altro: se non contesti la logica (e l’etica) con cui stiamo in rete, come mai sei ancora qui a menarci il torrone su WordPress e sul peccato mortale dell’essere meglio indicizzati su Google?

    Bah.

  154. @ Wu Ming 1
    Quindi se Caio, un architetto, pensasse che Tizio ha una bella casa in cui c’è un piccolo abuso edilizio, non potrebbe farglielo notare perché l’etica di Tizio è stare nelle contraddizioni?
    Sono ancora qui perché credevo che questo fosse un luogo di dialogo, invece sbaglio. Tornando alla metafora della casa, credo che al quell’architetto Tizio direbbe “non ti piace? allora vattene”.

  155. @ Emile

    come non stava in piedi l’esempio della macchina e dell’autoradio con gli mp3 (perché semmai qui stiamo parlando di un veicolo open-source con licenza GPL a cui i plug-in creati da diversi meccanici apportano di volta in volta migliorie in modo che possa continuare a trasportare contenuti in Creative Commons A-NC-SA 3.0), ancor meno sta in piedi l’esempio dell’abuso edilizio.

    E’ già – sto per usare un eufemismo – “singolare” pretendere che uno scrittore (ma in realtà chiunque) non faccia indicizzare il suo sito su Google, ma ancor più singolare definire l’indicizzazione di Google un “abuso edilizio” da parte di WordPress e di chi lo usa.

    Va la’ va la’ che sei bello confuso! :-D

    Sarai anche un bravo tecnico, ma le figure retoriche lasciale usare ad altri.

    Poi quelli che dopo che gli hai risposto con pazienza quattro volte si lamentano che non vuoi dialogare sono delle sagome!

  156. Su questa discussione tra Emile e WM1.

    È stato detto e scritto svariate volte che il capitale è movimento e il capitalismo contiene in sé le cause della sua crisi e della sua fine (?). Cosa significa questo? Significa che il capitalismo è pieno di contraddizioni, e che è pressoché impossibile non muoversi all’interno di queste.

    È quello che succede qui: stiamo “lottando” contro il capitale e usiamo le stesse armi che il capitale usa per esercitare il suo dominio. Niente di nuovo.

    Non sono uno scrittore, ma mi lancio in una specie di metafora con buona pace di WM1. :P È come se rinfacciassimo alle lotte sindacali di aver ridotto la giornata lavorativa da 18 a 8 ore, perché così facendo hanno stimolato il capitale a trovare nuove forme che estraessero plusvalore relativo, aumentando così alla fine della fiera il livello di sfruttamento e di feticismo.
    La fabbrica, pensata dal capitalista per aumentare la cooperazione e lo sfruttamento, è diventata luogo di unione tra i lavoratori e, quindi, di rivolta contro il capitale.

    Con le dovute proporzioni qui è lo stesso. Ripeto, con le dovute proporzioni, tenendo conto di tutto ciò che è stato scritto in questi commenti fino ad ora.*

    Ti scrivi da te i plugin e il blog? Questo ti porta a stare al computer più tempo, a consumare più elettricità, ottenuta con centrali elettriche che devastano l’ambiente. Non voglio essere pedante, ma solo marcare il fatto che dalla contraddizione non ne esci. In quello che fai, si può (quasi?) sempre trovare un’azione che sia causa di profitti/sfruttamenti.

    La questione centrale, dunque, non dovrebbe essere se usi wordpress, mac, etc., ma: 1. sei consapevole della contraddizione in cui ti stai muovendo? 2. se sì, cosa fai per lottare per uscirne?

    Ciao

    *tanto per essere chiari se uno non ha letto tutti i commenti: non sto parlando di nobel per la pace ad internet o mistificazioni simili, eh, giammai! :D

  157. @ redview
    sono d’accordo con te che la questione centrale sia una maggiore consapevolezza della contraddizione e la ricerca di soluzioni per uscirne. Penso anche che a monte di questo sia necessaria una riflessione più onesta sui mezzi che si usano ed i motivi per i quali si usano.

    @ wu ming 1
    ok, ti sei innervosito e sei diventato spaccone, quindi lascio perdere, perché non ti dona.

  158. Provo a dire la mia anche io…

    Mi sono chiesto e ho chiesto a WM1, se a suo parere vi siano dei mezzi diversi all’internazionalizzazione, per combattere il capitale, proprio perchè sono alla ricerca di un “dentro” alla lotta al capitale.
    Una lotta al capitale da “fuori”, fuori dal sistema economico e sociale attuale, è perdente, perchè l’alternativa (rivoluzionaria?) non c’è e va costruita (ammesso che quando c’è stata sia poi risultata una via vincente).
    Consentitemi di dire che per stare “fuori” da sistema, non basta scriversi i blog con un sistema diverso da wordpress, perchè allora dovrei chiedermi (o chiederti?) chi costruisce i computer che usiamo e chi fornisce l’energia che li fa andare e chi realizza le reti che utilizziamo per comunicare.
    Salvo che non ci si ritiri su un monte cibandosi dei prodotti della terra, scaldandosi col fuoco e facendosi luce col sole, allora la nostra vita “contro” è comunque una vita “dentro” al sistema, anche se si evidenziano le contraddizioni.
    Non è come gambizzare un capo reparto (ammesso che ciò sia stato funzionale alla rivoluzione) ma anche le scelte su come usare i “computer” possono essere uno strumento di cambiamento.
    Da qui la considerazione conseguente è che la rete non è di per se “libera tutti” come pronosticavano Negri-Hardt. Da allora, se vogliamo, si sono diffusi molto più i siti porno che quelli di informazione, con la dimostrazione che la disponibilità del web, non ne comporta necessariamente un utilizzo “militante”.

    @emile
    l’ultimo tuo intervento è abbastanza fuori luogo e suona come una ripicca personale, anche piuttosto immatura.

  159. [Mi scuso nuovamente se, col permesso dei padroni di casa, rompo ancora un po’ le scatole]

    @emile dupont

    «questo blog utilizza un software pensato ad uso e consumo dei software di indicizzazione d Google;è un software gratuitocon una programmazione autonoma, magari meno remunerativa»

    Qui non capisco proprio, mi dispiace. Se mi dici che WM (o chi per loro) deve programmarsi da solo un blog ti ho risposto sopra in un commento che hai avuto la bontà di non considerare.
    Se poi ti stanno sulle balle Google e il PageRank (ed esprimi quindi posizioni vicine ad autori della “Italian Theory”, per cui vedi almeno il paper di M. Pasquinelli http://bit.ly/k4nRbd retwittato pure da WM) rispetto la tua posizione. Ma la soluzione qual’è, non farsi trovare da Google?
    Se giro un video sulle violenze subite dai manifestanti della Val di Susa, non faccio poi un post “ottimizzato per i motori di ricerca” col mio blog WordPress (o persino Blogger, di Google) con tutti i tag a posto, non posto il video su YouTube (di Google) con descrizione efficace, non uso Twitter con #notav? Ognuno di noi si ferma ad un certo punto, WM si ferma subito prima di FB, altri credono che persino FB possa essere “curvato” (ad es. quei noti ultramoderati di Militant, non contenti di usare WordPress…).. E se il discorso sul video delle violenze ti sembra troppo emotivo, chiedo: le tue riflessioni postate qui sono ottimizzate per Google (ehm sei su WordPress con un url dedicato a ogni tuo commento), tu stesso hai quindi ritenuto opportuno fare uso dello strumento in questo caso. E sì, il tuo caso è diverso, ma nello stesso senso in cui ogni altro caso è diverso.
    WM non mi pare inoltre avere alcun “feticismo” verso WordPress. E se ce l’ha, è dello stesso tipo di quello di Barthes per la sua Montblanc. WordPress è uno strumento di lavoro, per loro scrittori, il cui lavoro è la scrittura, WordPress è uno strumento di scrittura, quindi.
    [a parte: l’articolo di Pasquinelli si basa su di un’immagine e un riassunto, tolta la matematica, della voce Wikipedia dedicato a PageRank. A mio giudizio non può quindi avere valore scientifico, come critica di PR, anche se è un contributo certo importante con varie riflessioni condivisibili]

    «questo blog utilizza un software pensato ad uso e consumo dei software di indicizzazione d Google;è un software gratuito dal momento che produce plusvalore attraverso altri canali rispetto alla semplice compravenditacon una programmazione autonoma, magari meno remunerativa (perché più dispendiosa di tempo e lavoro, ma più utile, e con meno risultati in termini di presenza nell’odiato motore monopolista, ma più in linea col tuo discorso). Non sarebbe stato più BELLO? […] è il sistema di variabili che usa WP a prescindere dai suoi ammennicoli che è utilizzato da google per l’indicizzazione.»

    Il tuo discorso è, IMHO, di nuovo impreciso. Prima di tutto chiariamo l'ovvio: nessuno sa come funziona il processo intero di indicizzazione di Google, anche perché ogni giorno viene cambiato appunto per evitare che con l'introduzione di un singolo trucco si possa "arrivare primi". Ancora oggi c'è qualcuno che crede che con un "meta tag" o un paio di siti civetta con link tra di loro si freghi Google ma davvero non è così. Proprio in questa primavera Google ha cambiato nel profondo il sistema per bloccare le "content farm" (che sono organizzazioni di sfruttamento di negri letterari e produzione di testi pensati appunto per fregare Google, WM ha segnalato più volte questo post di Adrianaaa http://bit.ly/kTroDO su argomenti analoghi).
    Se invece dici che alcuni plugin di WP cercano di fare SEO in maniera pesante ti ripeto che non mi pare WM li usi e in ogni caso la loro reale autonoma efficacia (indipendente quindi dal reale contenuto dell'articolo e dal feedback tramite link e varie robe social) è limitata ed infine anche se li usassero non ci vedrei uno scandalo. Si vede che vorranno apparire primi in Google quando qualcuno cerca "Marx Grundrisse defisticizzazione Internet"…
    Mi fermo qui, le tue altre considerazioni mi paiono molto fuori fuoco. Non riusciamo a comunicare. Probabilmente in una conversazione a voce (anche su Skype, ooops volevo dire su Ekiga) fatta a meno di 40 gradi si riuscirebbe ad arrivare a un punto di incontro o scontro produttivo:)
    [NB: non sono avvocato digitale di WM, prima di tutto perché non ne hanno bisogno e soprattutto perché non ne faccio santini. Ma di fronte a critiche di portata generale, a mio giudizio infondate, sono intervenuto, cercando di comunicare agli altri le mie competenze specifiche e qualche dato oggettivo]

  160. Ragazzi, siete stati fin troppo generosi e disponibili. Dopo l’abuso edilizio la storia era già finita, e dopo l’accusa di disonestà e “spaccone” che volete aggiungere? :-D
    Morta lì.

  161. @emile

    “Quindi se Caio, un architetto, pensasse che Tizio ha una bella casa in cui c’è un piccolo abuso edilizio, non potrebbe farglielo notare perché l’etica di Tizio è stare nelle contraddizioni?”

    E’ ovvio che “stare nelle contraddizioni” non è uno slogan per giustificare qualunque comportamento. “Stare nelle contraddizioni” è piuttosto un dato di fatto: non è possibile starne fuori. Pertanto: fatto il passo 1) descritto da redview come “consapevolezza della contraddizione” e fatto anche il passo 2) ovvero “come uso quella contraddizione contro sé stessa”, gli argomenti finiscono e ci si mette a girare in tondo.

    Tu ci hai descritto dove sta la nostra contraddizione nell’usare WordPress e Google. Jumpinshark ha contestato la tua descrizione tecnica, ma non mi pare che tu gli abbia risposto. Comunque: WM1 ti ha spiegato in che senso siamo consapevoli della contraddizione, e perché ce la teniamo cercando di piegarla in una certa direzione.
    Tu hai risposto che così facendo non la pieghiamo affatto. Benissimo, grazie per la critica, ma giunti a questo livello descrittivo mi pare che gli argomenti siano finiti, e non è colpa del caldo o della parola scritta. E’ che non facciamo parte di una chiesa, e anche chi fa parte di una chiesa spesso fa fatica a decidere cos’è peccato e cosa no.

    Io sono vegetariano e lo sport preferito dei carnivori è “prendermi in castagna”: però mangi le uova, però mangi la piadina che c’è dentro lo strutto, però hai una cintura di pelle… Tutte contraddizioni, per carità, verissimo, rispetto alle quali non sempre ho trovato la soluzione ottimale, eppure continuo a cercare, non impigrisco nelle mie abitudini, mi pongo il problema… Ci sono vegetariani più coerenti di me? Senz’altro, ma non mi interessa fare la gara a chi ce l’ha più pulito. Quel che mi interessa – la mia etica – è evitare l’indifferenza e il menefreghismo, molto più che stare a contare le cellule di origine animale che utilizzo nella mia vita quotidiana.

  162. @ jumpinshark
    sì, scusa se non ho fatto riferimento al tuo post, non perché non lo volessi considerare, anche perché l’ho considerato più a fuoco di altri commenti. Solo stavo ponendo una questione più banale. Non stavo invitando wm a cambiare piattaforma, figuriamoci: ho già specificato che faccio di wp uno strumento per lavorare, direi che sarebbe sciocco da parte mia. Riguardo al posizionamento, non mi piace l’aspetto SEO della rete, ma c’è e va tenuto a mente. Si può lo stesso decidere di non stare a tutte le regole, a volte funziona, altre no. Non trovo del tutto limpido il discorso che è stato fatto, lo trovo troppo facile e contraddittorio (sì, anche sul punto di stare nelle contraddizioni); pensavo di poterlo dire tranquillamente, ma tant’è.

    @paco (e, per conoscenza, a wm1):
    la frase “Sarai anche un bravo tecnico, ma le figure retoriche lasciale usare ad altri” è pura spacconeria.
    Mi sarebbe piaciuto, semmai, prendere la questione da un’altra angolazione, cioè che ci sono molte persone, come me, che fanno i “tecnici” per sopravvivenza, avendo invece come attività principale tutt’altro. Qualcosa di molto più simile a quella di quegli “altri” cui bisognerebbe lasciar usare le figure retoriche. Ma la facilità di cui sopra impone di dare per scontato che si possa fare soltanto una cosa alla volta.
    Fare, non essere.
    Ma Sartre lo lascio citare ad altri.

  163. @emile

    “pensavo di poterlo dire tranquillamente, ma tant’è”

    Mi spieghi per favore quando e come non ti abbiamo dato la possibilità di esprimere “tranquillamente” il tuo pensiero?

  164. @ Emile,

    guarda che qui stai parlando (anche) tra “tecnici”, su Giap è pieno di “tecnici” (e di scienziati, se è per questo), ma guardacaso quell’osservazione l’ho fatta solo a te. Perché non si basava sul tuo essere un “tecnico”, ma sul tuo ripetuto utilizzo di similitudini campate in aria.

    Piantala con il vittimismo su come saresti stato trattato, su. Non regge. Anche perché parte tutto da una battuta che hai frainteso platealmente. *Da diverse angolature*, ti abbiamo risposto in diversi, e più volte. Hai proposto un’argomentazione, non ha convinto i tuoi interlocutori, le ripicche sono inutili.

  165. @ emile

    Non per “sboroneria” ma perchè non ci conosciamo.
    Io sono ingegnere, mi occupo di sicurezza sul lavoro e mi piace. Nel frattempo questo non mi ha impedito, in passato di fare parte de iQuindici, di pubblicare 3 romanzi e qualche racconto qua e là.
    Però bisogna fare delle scelte, perchè se non è vero che si riesce a fare bene solo una cosa, sono comunque convinto che si riesce a fare bene solo una cosa per volta.
    Ci sono dei livelli in cui mi limito ad ascoltare WM1 e anche gli altri, perchè con le figure retoriche rischierei di fare delle figure di merda.
    Questo non vuol dire arrendersi all’ignoranza, ma essere consapevoli dei propri limiti.

  166. @ DrFrenkiPast1

    sta orbitando una riflessione che riguarda anche loro, ma non è ancora entrata nell’atmosfera del linguaggio comprensibile… :-)

  167. mmh sai che sarebbe bello un’intervista di un ex luther blisset ad Anonymous? potrebbe venire fuori un discorso interessante…

  168. Ma no, sai che palle… E noi e voi, e la rava e la fava… :-P :-D

  169. @ WM2

    géeeeesu! pure a te rompono le palle i carnivori? :-)

    propongo che WM 5 impari la telepatia ( per risolvere l’annosa questione + wordpress ), mentre gli altri ( luca può dare una mano ) sconfiggeranno l’entropia…

    nel frattempo ( grazie! ) mi avete dato l’idea per scrivere una canzoncina dal titolo “Do you remember Marx?”

    scusate l’ot e le scemenze
    quack

  170. ma no io invece credo sia interessante come discorso anche solo fosse per un particolare come quello dell’immagine, luther blisset non aveva pensato ad un “brand”, Anonymous invece ha adottato quello di V4V, oppure, anche i sistemi di “lotta” LB puntava a dimostrare la falla del sistema informazione (ho semplificato un po’ eh…) mentre Anonymous è un azione massiva di hacking…
    Anche le fasi storiche in cui sono nati uno più “nainties” (volevo linkarlo a nainties http://www.youtube.com/watch?v=AVmq9dq6Nsg ) l’altro più… (oddio, come si fa a dire degli anni dieci?!? teen?)
    Insomma non necessariamente un cantarsela e suonarsela ma anche un modo per ragionare sull’evoluzione di questi processi…

  171. @ DrFrenkiPast1

    uhm, non è proprio così: Luther Blissett aveva eccome un volto, che a un certo punto diventò onnipresente, quasi un tormentone:
    http://www.lutherblissett.net/img/luther-blissett-300.jpg
    E Anonymous porta avanti (ovviamente con mezzi migliori e in un’Internet più vasta, affollata e importante di quella di allora) una prassi che già esisteva nei “Nainties”, anche allora si facevano i DOS e i DDOS, si buttavano giù i siti, a volte lo si chiamava “netstrike”.
    Detto questo, secondo me tra LB e Anonymous ci sono molte meno similitudini di quel che sembra a prima vista. Però adesso è tardi, credo che siamo anche OT, insomma… Tempo al tempo.

  172. @WM2
    “però mangi la piadina che c’è dentro lo strutto,”

    ah no eh! che bestialità! :-)

    La mia nonna (nata sulle colline riminesi) faceva, e le sue discendenti ancora oggi fanno, la piada con l’olio.

    abbasso lo strutto e il lievito nella piada! :-)

    certo che con lo strutto è più morbida, ma noi la vogliamo dura e pura :-) , da consumare in giornata (il giorno dopo è dura tinca), perché del diman non c’è certezza :-)

    (dopo lo sbrodolo culinario e gli scherzi, grazie (anche a WM1) pei commenti sulla contraddizione)

  173. @zvanèn:

    Nel caso della piada, in effetti, la sintesi non è difficile da trovare, e ormai da anni compro quella con l’olio. Per le tigelle aggirare lo strutto è più complicato: negli ultimi esperimenti ho ottenuto buoni risultati con la margarina. Il pane, invece, me lo impasto tutte le settimane.

    Gastronomia a parte: tanto la “contraddizione strategica” che la “purezza integrale” ci mettono un secondo a diventare facili lavanderie di coscienza. Da un lato, visto che la contraddizione non si può eliminare, si finisce per star dentro a qualsiasi contraddizione. Dall’altro, siccome separo i rifiuti e faccio il compost in terrazza per concimare l’orto, allora sono assolto dai peccati della munnezza. Entrambi gli estremi nascono dal bisogno di sentirsi migliori, di mettersi a posto la coscienza, quando invece urge tiqqun ‘olam, mettere a posto il mondo.

  174. Stavo guardando qualche video di Zizek…

    “Prima” eravamo solo dei consumatori, e se volevano fare qualcosa per non sentirci colpevoli per tutto lo schifo che ci circonda (ecologia, povertà, etc) dovevamo fare qualcosa contro.
    Ora, è più facile: possiamo rimanere consumatori, perché pur rimanendo tali noi possiamo comprare la nostra redenzione. Logica Starbucks: parte dei soldi del caffè vanno per i bambini del Guatemala, per un commercio equo, etc.

    Perché scrivo qui questo? Beh, c’entra con l’argomento della contraddizione, sono cose che qui sono state dette, ma Zizek le mette in una salsa un po’ diversa. E tra l’altro Zizek qui e là dice qualche suo pensiero sugli ultimi commenti su vegetariani e compost, dicendo più o meno le stesse cose di WM2 qui sopra… :)

    http://youtu.be/hpAMbpQ8J7g
    http://youtu.be/yzcfsq1_bt8

    Ciao

  175. Allora segnalo anche questo intervento di Massimo Fini, sul suo blog su il Fatto:

    http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/07/02/un-futuro-spaventoso/136077/

    segue dibattito…

  176. bah, ogni volta che mi capita di leggere qualcosa di massimo fini, mi sembra che non vada piu’ in la’ del “signora mia, chissa’ dove andremo a finire”. poi, appena si entra nel merito delle questioni, ci si accorge che massimo fini e il suo “movimento zero” sono dei veri reazionari. tra l’ altro sul sito di “movimento zero” si trovano le immancabili sbrodolate sul signoraggio, e un “manifesto” che tra le altre perle enuncia: “no alla globalizzazione ne’ di uomini ne’ di capitali ne’ delle merci ne’ dei diritti”, “no al capitalismo e al marxismo, due facce della stessa medaglia, l’ industrialismo”, “si’ alle piccole patrie”, “no alla democrazia rappresentativa”, “si’ alla democrazia diretta in ambiti limitati e controllabili [da chi? da massimo fini?]”, ecc. ecc.

  177. Massimo Fini è solo un divulgatore più sbracato del razzismo differenzialista* e oggi “decrescitengolo” di De Benoist e soci, un pensiero che nasce nell’ultradestra francese degli anni Settanta, allo scopo di “riverniciare la facciata” del neofascismo, per confondere le acque del post-Sessantotto. La conversione di Fini a una versione più strombazzata e meno sottile di quell’ideologia era già completa dieci anni fa. E’ riuscito a conservare un briciolo di “presentabilità” solo perché è una “firma”, perché attaccava Berlusconi (e per qualcuno é la sola cosa importante, anche a scapito di tutto il resto), e perché IFQ gli regge il moccolo, prestandosi al gioco confusionista. Movimento Zero andrebbe incluso senza alcuna remora nella lista dei gruppi di estrema destra né-né.

    *Ovviamente loro lo presentano come “antirazzismo differenzialista”, tipico double-speak reazionario.

  178. Sul fatto che Massimo Fini sia un “destro” non c’è nessun dubbio e che le sue analisi (per altro molto superficiali) ne evidenziano tutte le caratteristiche.
    Che la fine del mondo sia imminente, ho i miei dubbi, che lo sia la fine di questa economia invece, mi sembra sempre più evidente.
    Mi sembra piuttosto che il catastrofismo denoti una incapacità di immaginare un futuro diverso o forse di ammettere di aver sbagliato.

  179. Io non conosco M. Fini se non per qualche articolo letto sul Fatto.

    Detto ciò, il discorso sul tempo e sul futuro (visto dal capitalista) è importante, e in questo blog se ne è parlato. L’articolo imho mira più ad impressionare che a far riflettere, pur avendo qualche passaggio interessante.

    Ripensando a quel paio di video di Zizek linkati sopra, lui dice che forse non c’è mai stato nella storia un momento in cui un numero così relativamente grande di persone vive bene; però, questo benessere (freedom, welfare, security; minuto 8:00) viene messo a rischio dal sistema economico; e, dico io, questo nostro (relativo) benessere comunque necessita che la larga parte della popolazione mondiale non possa goderne (Zizek parla di “element of hypocrisy”, ma imho non è lo stesso ragionamento): in altre parole, la mia condizione di vita soddisfacente si basa su una condizione di vita altrui a dir poco insoddisfacente. E poi: è il nostro un “vero” benessere o una illusione di benessere? Zizek dice che alcuni elementi da “salvare” in questo presente ci siano: ma è proprio così? Ad esempio, il welfare che nomina, è benessere vero o è più una sorta di concessione/diritto borghese? Domande un po’ retoriche le mie…

    Infine, lui parla di “(soft) apocalyptic vision”, come modo per vedere la nostra condizione. A.k.a. “pessimismo della ragione”?

    Ciao

    PS: non ho letto molto di Zizek quindi la mia visione è molto limitata.

  180. Massimo Fini vagheggia un ritorno al medioevo. In questo stucchevole gioco di societa’, tra un signore feudale e un servo della gleba, Massimo Fini chi vorrebbe essere, secondo voi?

    Da qualche parte Massimo Fini aveva scritto che nell’ era premoderna la gente non si suicidava.

    “Questa è la condizione dell’uomo contemporaneo. Ed è da questa frustazione che nasce il mal di vivere, il disagio esistenziale acutissimo che si diffonde sempre più fra gli abitanti anche, anzi soprattutto, dei Paesi benestanti o ricchi o ricchissimi , provocando ansia, angosce, nevrosi, depressioni, dipendenza da sostanze chimiche e picchi di suicidi sconosciuti al mondo pre Rivoluzione industriale (decuplicati, in Europa, dal 1650 ad oggi).”

    [se volete la fonte, googlate questo paragrafo. Non voglio mettere il link, perche’ l’ articolo e’ pubblicato sul sito di Arianna Editrice]

    A parte il fatto che non si capisce come si possano fare statistiche sui suicidi nel 1600, non posso fare a meno di ricordarmi quel che diceva Primo Levi: ad Auschwitz non si suicidava praticamente nessuno. Infatti il suicidio e’ una scelta lucida, pur se disperata, e chi combatte quotidianamente per la sopravvivenza non puo’ avere la lucidita’ necessaria per suicidarsi.

    Detto questo, mi pare che i discorsi che si facevano qua su giap a proposito del tempo fossero di segno completamente opposto rispetto a quello di M. Fini. Infatti qui si diceva che nel tempo del capitalista il futuro e’ presente invecchiato, e che un pensiero autenticamente rivoluzionario deve essere capace di immaginare il futuro come rottura rispetto al presente. Che cosa ci propone M. Fini invece? Ci propone un (impossibile) ritorno al tempo del contadino medievale, in cui il futuro semplicemente non esiste.

    Poi avrei voglia di trovare qualche bella citazione da “Levantado do chão” di Saramago, ma credo che un trafiletto di M.Fini non meriti tanto.

  181. @ tuco

    Sì, i discorsi su Giap erano diversi. Volevo solo dire che Fini parla di tempo e anche qui si è parlato di tempo. Imho se ne parla poco, specialmente in questo periodo di referendum quando, Giap a parte, non ne ho mai sentito parlare. È un argomento centrale. Poi, se uno ne parla in modo sbagliato amen: a me interessano i commenti fatti qui a quell’articolo. :)

    Ciao

  182. Quello della decrescita non è solo un argomento di Massimo Fini, è un argomento caro anche a certa parte della sinistra. Il come non è certo un elemento trascurabile.
    Mi interessava, più che il punto di arrivo, il punto di partenza: “il capitalismo è morto, viva il capitalismo” è stato bello fino che è durato.
    Che è come dire che anche nella cultura di destra si è arrivati a sostenere quello che Marx ha sempre affermato e che è sempre stato osteggiato: il capitalismo contiene al suo interno le cause della propria fine.
    Ma d’altra parte, se non avevano capito cosa sarebbe successo, per quale motivo dovrebbero capire che cosa succederà?