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Solidarietà a Daniele Luttazzi e al suo chutzpah
"Virtù di tonaca, disse Fra Gianni, ma che razza di viaggio facciamo? È un viaggio da caconi; non facciamo che scorreggiare, peteggiare, cacare, fantasticare, stare in ozio. Corpo di Dio, non è questa la mia natura; se non compio sempre qualche atto eroico, non posso dormir la notte [...] Perché altro salì Ercole in fama e rinomanza sempiterna, se non perché peregrinando pel mondo, liberava i popoli da tirannie, da errori, da pericoli, da angarie? Egli uccideva tutti i briganti, tutti i mostri, tutti i serpenti velenosi e le bestie malefiche. Perché non seguiamo l'esempio suo e non facciamo come faceva lui per tutte le contrade dove passiamo? Egli disfece le Stinfalidi, l'idra di Lerna, Caco, Anteo, i Centauri. Io non son chierco ma i chierci lo dicono. Imitiamo Ercole e distruggiamo questi Gatti impellicciati, figli del diavolo e liberiamo questo paese dalla loro tirannia."
François Rabelais, Gargantua e Pantagruele,
libro V, capitolo 15

Il 7 maggio 2004, alla Fiera del Libro di Torino, Luttazzi tenne una lezione sulle leggi della comicità partendo dal case study di Woody Allen e dei suoi guai coi traduttori italiani.
SCARICA L'MP3 ZIPPATO (96k, 25 mega, 37'50"). Da ascoltare almeno due volte. Prendete appunti, ché interrogheremo.
AJORNAMENTO! Proprio mentra ke metteamo in ligna lo numero de Nantropausa s'è appalesato - foco e flamme! - lo maestro de li maestri de noialtri contahistorie, Dario Fo, k'ha detto la sua sul jornale de frate Luttazzo e siccome ubi maior minor cessat, questa sua LA LINCHIAMO!
Nandropausa #13 - Libri letti, discussi e consigliati da Wu Ming - 13 dicembre 2007


A Dante Isella (1922-2007)


00. Preambolo
01. Jonathan Littell, Le Benevole
[WM1]
02. Stephen Wright, Amalgamation Polka [WM4]
03. Serge Quadruppani, In fondo agli occhi del gatto
[WM1]
04. Andrea Bajani, Se consideri le colpe
[WM2]
05. John Ronald Reuel Tolkien, I figli di Hurin
[WM4]
06. Stephen King, Blaze
[WM1]
07. Babsi Jones, Sappiano le mie parole di sangue
[WM2, WM1]
08. Michele Vaccari, Italian Fiction
[WM5]
09. Bruce Springsteen, Come un killer sotto il sole
[WM1]
10. Steven Blush, American Punk Hardcore
[WM1]
11. Andrea Camilleri, Maruzza Musumeci (e non solo)
[WM1]
12. Brian Evenson, La colpa
[WM2]
13.
Manolo Morlacchi, La fuga in avanti [WM1]

Ricorda che c'è un modo di leggere Nandropausa che non si attacca al lavoro del tuo oculista, e quel modo è su carta. Stampa questa pagina con fiducia, per cliccare sui link c'è sempre tempo.

Siamo di nuovo qui, a chiudere un semestre e aprirne un altro, parlando dei libri che ci sono piaciuti. Come al solito, ci occupiamo soprattutto di narrativa, e quando non è proprio narrativa è comunque narrazione.
Ed ecco il disclaimer (ogni volta quasi uguale, ogni volta molto diverso - leggere please, leggere ogni volta ché poi interroghiamo).

Questa non è né potrà mai essere una panoramica esaustiva su quanto di interessante si è pubblicato in Italia negli ultimi mesi. Siamo cinque esseri umani che leggono per diletto quando hanno il tempo e la forza di farlo, e il criterio con cui scegliamo che libro leggere è un non-criterio, dipende dai tiramenti di culo del momento. Non segnaliamo mai un titolo solo perché si deve o perché "tutti ne parlano". D'altro canto, il fatto che non ne parliamo non significa che non valga la pena leggerlo. Semplicemente, noi non l'abbiamo (ancora?) letto.

Su Nandropausa, salvo alcune eccezioni (sassolini tolti dalle scarpe o perplessità da comunicare), segnaliamo libri che ci sono piaciuti davvero. Come in questo numero, può accadere che segnaliamo libri su cui abbiamo poche o molte riserve ma che riteniamo comunque letture importanti.

Non abbiamo debiti da pagare (in ogni caso, non è così che li pagheremmo) né dobbiamo "tener buono" alcuno. Se tra gli autori recensiti figurano nostri amici, è perché abbiamo apprezzato i loro libri. Se il libro non ci è piaciuto o non lo abbiamo letto con la dovuta attenzione, niente segnalazione, nemmeno se l'autore è nostro gemello siamese. Non segnalare un'opera meritevole per mere questioni di galateo e paura delle malelingue sarebbe un errore più grave. Quanto alla malalingua, sta bene ficcata nel culo del malevolo medesimo .

Ústředním motivem těchto knih je archatypální souboj dobra se zlem. Ačkoliv to sám autor často popíral, k atmosféře knih významě přispěla doba jejich vzniku - období 2. světové války a poněkud bezútěšné roky před a po ní. Questa era una piccola prova di attenzione. Ci siete ancora? Bene.

All'altezza di ogni recensione, diamo la possibilità di ordinare il libro on line. E' una possibilità, soprattutto per chi vive nel Grande Nulla italiano e ha difficoltà a raggiungere buone librerie. Si tenga però presente che niente vale l'esperienza di entrare in una piccola libreria tenuta con passione, spulciare i titoli sugli scaffali, fare quattro chiacchiere e infine uscire (forse) con un titolo sideralmente distante da quello che si aveva in mente :-)

NOTA BENE.
I libri sono recensiti in ordine più o meno casuale, questa non è una classifica, il primo ad apparire non è per forza quello che ci è piaciuto di più.

Jonathan Littell, Le benevole, traduzione di Margherita Botto, Einaudi, Torino 2007, pp. 956, € 24

Premio Goncourt 2006. Monumentale opera prima* scritta in francese da uno statunitense. Caso editoriale in diversi paesi. Oggetto di stupore, shock e ammirazione. Alzate di polveroni a destra e a manca da parte di storici e critici, di ebrei e gentili. Perché?
Perché è chiaro fin da subito (dal lungo prologo intitolato "Toccata") che Le benevole di Jonathan Littell vuole imporsi come il romanzo supremo e definitivo su Germania nazista e sterminio degli ebrei.
Di questa ambizione, questa hybris che fa scavalcare ogni argine e sfidare ogni precedente narrazione sull'argomento, ho un'esperienza diretta di molti giorni. Leggere Le benevole è ritrovarsi testimoni, percossi e attoniti, di un tracimare: goccia dopo goccia, rivolo dopo rivolo, il fiume di dati, episodi, conversazioni, ricordi, sogni e citazioni si compone, si allarga, si alza, si gonfia finché non esonda. Arriviamo sul fronte russo sospinti da un'alluvione, immane ondata che spazza via interi mondi e innumerevoli vite, finché non impatta con la resistenza di Stalingrado, inattesa, inspiegabile. Le giornate di Stalingrado scavano un momento di "vuoto" nel romanzo e nella vita del protagonista, Maximilien Aue, ufficiale SS. Il vuoto si riempie di follia, follia per una volta non sistemica né organizzata, follia non burocratica bensì singolare e selvaggia. L'accerchiamento sovietico apre un crepaccio nel tempo e la psiche devastata di Aue produce visioni e fantasticherie. I passaggi sono fluidi, non più scanditi da cifre, date e acronimi, tutto è bianco e non si sentono rumori... E' a questo punto che l'onda s'incurva e volge indietro, con violenza moltiplicata. L'Armata Rossa e il Generale Inverno annichiliscono la Sesta Armata. Aue si salva, lo riportano a Berlino.
Una volta respinta, la piena - che, ripeto, è una piena di informazione - copre altre direzioni, invade altri campi. Le acque brune e scure trasportano nuovi dati, episodi, conversazioni, reminiscenze di incesti e sodomie, incubi e rimandi ad altre opere (drammi, romanzi e saggi, film e documentari). Personaggio, autore e libro s'impantanano nell'asfissiante burocrazia dell'universo concentrazionario, della Endlösung, dell'Olocausto. Che è ormai soprattutto amministrazione: se le spaventose Aktionen, i massacri di ebrei nell'Ucraina occupata, avevano smosso la coscienza del protagonista sferzandolo con dubbi e rimorsi, la "soluzione finale" lo trova desensibilizzato, apaticamente dedito al compito: "adesso predominava in me una grande indifferenza, non tetra, ma lieve e precisa". Siamo a poco meno di 2/3 del romanzo: Auschwitz compare solo adesso, ecco Höss, ecco Mengele... La piena diventa un lago artificiale di acqua densa, appiccicosa, le minuzie galleggiano e si attaccano alla pelle. "E poi, se dovessi ancora raccontare in dettaglio tutto il resto dell'anno 1944, un po' come ho fatto fin qui, non la finirei più. Vedete, penso anche a voi, non soltanto a me, un pochino perlomeno, certo ci sono dei limiti, se mi sobbarco tutte queste fatiche non è per farvi piacere..." E avanti così, poi la catastrofe, la fuga, la mimetizzazione borghese.
Questa non è semplice audacia da esordiente: l'impressione è che l'autore sia stato travolto dai propri studi e dal progetto narrativo, e ne sia rimasto prigioniero. Littell si è recluso per anni nel mondo che andava evocando, la Germania del Terzo Reich vista come un unico, grande campo di concentramento che imprigionava anche i carnefici e i loro complici (immagine proposta anni fa da Bruno Bettelheim). Siccome "è libero chi è vassallo" (Frei sein ist Knecht sein), ne è derivato un grande arbitrio del raccontare: Littell vuole dire tutto, mostrarci tutto, descrivere ogni meccanismo, indugiare su ogni delitto.
Le benevole è un libro iperrealistico, sembrano davvero le memorie per troppo tempo procrastinate di un ex-criminale di guerra. Nel numero di pagine (956 nell'edizione italiana, per giunta fittissime e quasi prive di a capo), nell'esorbitante numero di divagazioni ed eccedenze, nell'attenzione pedante per i minimi dettagli, si manifesta la tipica "incontinenza" dei memoriali di certi anziani.
Otto Ohlendorf, uno dei personaggi del romanzoLe benevole sembra anche la versione narrativa (e capovolta, poiché dal punto di vista degli assassini) della colossale impresa storiografica di Saul Friedländer, i due volumi de La Germania nazista e gli ebrei. Friedländer aggiorna le ricerche di Raul Hillberg e si dedica alla ricostruzione più vasta e minuziosa della "soluzione finale", attingendo a ogni sorta di fonte, procedendo per accumulo di migliaia di microstorie, che collega e incastra fino a indurre il quadro generale. Tuttavia, la narrazione di Friedländer è moltitudinaria, sono milioni di persone a reggerne il peso e il dolore. La storia più difficile da raccontare e da ascoltare batte sulle tempie mentre leggi, e solo un impianto corale può darle fondamenta abbastanza solide. Le benevole ha invece un solo protagonista, unico "filtro", un "io" dai piedi d'argilla che sotto il peso della tragedia sbanda, si incurva, sovente cade, perde consistenza e coerenza. Che compito ingrato, il soliloquio dell'inenarrabile.
La domanda che si pone il lettore è: perché Aue - nonostante il disgusto, i conati di vomito, la diarrea psicosomatica che lo perseguita per quasi mezzo libro - fa quello che fa?
Perché a suo modo è un illuminista, sembra dirci Littell. E' un giovane intellettuale dalle buone, anzi ottime, letture, ed è consapevole della "dialettica negativa" dell'illuminismo, tanto da volere vederla compiersi.
[Qui sorvolerò sul fatto che il cosiddetto "illuminismo" liquidato da Adorno e Horkheimer e poi da frotte di pensatori postmoderni non corrisponde in alcun modo all'illuminismo storicamente, concretamente esistito. Lo spiega molto bene Robert Darnton nel suo L'età dell'informazione, Adelphi 2007.]
In parole povere: Aue vuole scoprire fin dove potrà spingersi prima di smettere di provare qualcosa. Vedere se i mille pretesti, le razionalizzazioni di comodo, i falsi sillogismi riusciranno a prevalere sulla nausea, la pietà e i sensi di colpa. Man mano che ciò accade, si trova a rimpiangere l'orrore e la pena che provava al principio, "quello choc iniziale, quella sensazione di una frattura, di uno squassarsi infinito di tutto il mio essere". Aue è la cavia del proprio esperimento sui limiti dell'umano. Insieme a noi, "fratelli" chiamati in causa fin dall'incipit, scoprirà che l'umano non ha limiti, che "disumano" e "inumano" sono epiteti ipocriti. E' questo ad avere turbato molti lettori.
La consueta trappola dell'io narrante: io cammino con Aue, lo seguo nell'esperimento, ragiono con lui, in un certo senso sono lui, come lui è me e chiunque di noi: "Gli uomini comuni di cui è composto lo Stato - soprattutto in periodi di instabilità -, ecco il vero pericolo. Il vero pericolo per l'uomo sono io, siete voi. E se non ne siete convinti, inutile continuare a leggere oltre. Non capirete niente e vi arrabbierete, senza alcun vantaggio né per voi né per me."
Finché Aue soffre per il dolore che infligge, io soffro insieme a lui, ho gli stessi conati di vomito. La descrizione delle Aktionen in Ucraina è quasi insostenibile: chi è padre o madre vedrà i propri figli in ogni bambino fucilato e gettato nudo sul cumulo di morti. Queste pagine fanno amare la vita disperatamente, ti ci fanno aggrappare con tutte le forze, perché non c'è nulla di "edificante" nel modo in cui le vittime vanno a morire, sono decine e decine di pagine di macelleria a cielo aperto, pagine brutte, perché è la morte violenta a essere brutta: non c'è tempo per ultime frasi che tocchino il cuore; non c'è spazio per pose plastiche nella calca della fossa comune; la morte subita in mucchio è ancor più misera e priva di redenzione.
Gradualmente, però, la quantità mi prevarica, fa scattare le mie difese, distanzia l'esperienza e annulla la compassione. Un morto è omicidio, un milione di morti è statistica, ipse dixit. Di massacro in massacro, mi desensibilizzo insieme ad Aue, conseguo il suo medesimo distacco. Il romanzo coglie nel segno (se questo era il segno a cui mirava) e arriva a dimostrare che chiunque può abituarsi all'orrore. Al limite la pagherà con disturbi psicosomatici, cacarella, bruxismo... Poca roba. Del resto, non muoiono di fame e stenti ogni giorno migliaia di bambini senza che io ci perda il sonno? Il fatto che io non sia lì a guardarli morire, bensì distante migliaia di miglia, mi rende poi tanto diverso da Maximilien Aue, mi rende forse più innocente di lui? Aue è mio fratello, è contro me stesso che devo vigilare, nessuno di noi è immune dal diventare "nazista".
Picture by HHSSUU, 2005Littell, per dirla in una delle sue lingue native, has got a point, eppure il suo successo è un fallimento, perché mi anestetizza, toglie calore alle dita che reggono il libro. L'inflazione della valuta-morte mi fa davvero sembrare uno sterminio poco più di una statistica, e il rischio è che diventiamo più cinici anziché più vigili nei confronti di noi stessi. Eterogenesi dei fini. Per metterla giù in modo chiaro: finiamo la lettura più stronzi di quando l'avevamo iniziata.
Detto questo, è un romanzo importante, epocale, che non si può né si deve ignorare, che va letto e affrontato. E' anche un romanzo impervio, con centinaia di nomi e cognomi che non è possibile tenere a mente, parole tedesche che mettono soggezione, scartoffie infilate nel flusso senza alcuna mediazione. Sovente Littell va oltre il nozionismo e si produce in tirate piene di riferimenti criptici, come se si stesse rivolgendo - e forse è davvero così - alla corporazione degli storici anziché ai lettori comuni.
Durante un viaggio a Parigi, Aue si imbatte in un libro di Maurice Blanchot, Passi falsi, il quale contiene un saggio su Moby Dick, "libro impossibile" che "si rivela solo attraverso l'interrogativo che pone". Fin troppo scoperta, la dichiarazione di poetica: Littell è melvilliano dallo sfintere al nervo ottico. E se Melville – come fa notare Henry Jenkins – scriveva così perché era un fan, un appassionato della caccia alla balena che voleva sviscerarne ogni aspetto, allora Littell di cosa è fan? Littell è un fan del Novecento, inteso come "secolo di ferro e fuoco". Coglierne l'essenza è stato per anni la sua ossessione, la balena bruna a cui dare la caccia.
Ma non è forse l'ossessione di noi tutti? Quel mondo è sempre con noi: la seconda guerra mondiale è l'evento storico più raccontato e rappresentato di tutti i tempi, e il Führer ci tiene compagnia continuando a sbucare come monito, icona pop, pietra di paragone. Qualunque sterminio e genocidio è implicitamente o esplicitamente valutato in confronto alla Shoah, a cui ci riferiamo per metonimia: "Auschwitz". Qualunque nemico, anche occasionale, viene paragonato all'imbianchino. L'avvocato americano Mike Godwin ha coniato una "regola" (Godwin's Law) secondo cui "più una discussione on line si protrae nel tempo, più aumentano le probabilità che uno dei partecipanti venga paragonato a Hitler."
Le benevole non sarà il romanzo definitivo su nazismo e dintorni. Continueremo a raccontare quella storia, perché non possiamo farne a meno. Ci viviamo ancora dentro e chissà quando ne usciremo. Il nazismo ha perso eppure ha vinto, condicio sine qua non del nostro immaginario. [WM1]

* In realtà quasi prima: poco meno di vent'anni fa Littell scrisse un romanzo di fantascienza intitolato Bad Voltage.

[Apparso in una versione leggermente diversa su "L'Unità" del 30 settembre 2007 e su Carmilla on line.]




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Stephen Wright, Amalgamation Polka, traduzione di Adelaide Cioni, Einaudi Stile Libero, pp. 354, € 16,50

"Le donne barbute ballavano nel fango". Sembra il verso di un pezzo punk rock, invece è l'attacco di Amalgamation Polka (Einaudi Stile Libero, euro 16,50), quarto romanzo dell'eclettico Stephen Wright e già caso letterario negli Stati Uniti. Incipit straniante per un titolo ancora più strambo, tratto da una vignetta satirica di metà Ottocento che rappresenta la danza dei bianchi abolizionisti insieme ai neri vestiti a festa. Sì, perché il romanzo parla del conflitto politico che ha spaccato l'America segnando la sua seconda nascita, ottantant'anni dopo la Rivoluzione. Quella rivoluzione che aveva proclamato l'uguaglianza degli uomini, ma lasciato aperto il problema della schiavitù.
Il pensiero non può non andare a un altro bel romanzo recente che torna a raccontare l'epopea della Guerra di Secessione americana, La marcia di E. L. Doctorow, del quale Amalgamation Polka potrebbe essere l'indiretto controcanto. Tuttavia Stephen Wright - veterano del Vietnam, cappellino NY, orecchino, piercing al labbro e al naso - sorprende con una visionarietà degna di Tim Burton o dei fratelli Coen. Sul New York Times, Laura Miller ha fatto notare come sia proprio l'imprevedibilità a distinguere questo libro da molti altri romanzi storici: Wright dribbla il limite del genere - ovvero il fatto che la storia è nota e si sa già come va a finire - e ci conduce attraverso un territorio inesplorato, incontro ai tipi umani più stravaganti. A tratti divertente, a tratti tragicamente cruento, Amalgamation Polka è una miscela tra il romanzo di formazione e quello on the road, la storia di un viaggio attraverso la matrice fratricida della guerra civile. La più cruenta perché combattuta tra Caino e Abele, dentro le famiglie, nelle viscere del Grande Paese che tutto fagocita. "...Siamo i grandi divoratori." - sentenzia uno dei personaggi, - "Divoriamo l'esperienza, divoriamo la geografia, divoriamo il tempo, ci divoriamo anche fra di noi. Una nazione di appetiti sfrenati, non c'è nessun dubbio in proposito."
Quando Roxana Maury, erede di una ricca casata del Sud, sposa la causa abolizionista e fugge a New York con un uomo che condivide le sue idee, il destino del protagonista è già segnato. Il figlio di quell'unione non potrà che diventare un figlio dell'Unione, battezzato con il nome più ingombrante: Liberty.
Nomen omen. Com'è essere figlio di due paladini della libertà e dell'uguaglianza, ovvero di due amalgamatori, due abbraccia-negri, in un paese diviso tra abolizionisti e schiavisti? Un'eredità pesante, sancita dall'insolita compagnia con cui Liberty si trova a crescere. Personaggi fiabeschi, come il guercio Euclide, che porta sulla pelle i segni del passato di schiavo; l'avventuriero zio Potter, sempre pronto a correre dovunque ci sia da sparare a qualche tracotante schiavista; e poi il vecchio pirata inselvatichito Fife, sorta di Ben Gunn stevensoniano che professa i precetti libertari della filibusta e vanta 146 anni. Ognuno fornirà al ragazzo un pezzo di verità sul mondo che lo circonda e indirettamente ne determinerà il destino: quello di indossare una divisa blu al momento della resa dei conti tra le due Americhe.
La formazione di Liberty Fish e la sua odissea attraverso il paese riecheggiano i personaggi e le ambientazioni di Twain e Steinbeck, ma anche di Faulkner e McCarthy. Senza tralasciare la crudezza della guerra, magistralmente descritta, tanto che sembra di trovarcisi davvero, in mezzo al granturco schizzato di sangue, aggrappati alla spalla del soldato Fish che avanza nella carneficina. Si inciampa sui cadaveri, si spara alla cieca, si cade e ci si rialza con addosso l'odore della paura.
La guerra per Liberty diventa anche un viaggio a ritroso verso le radici sudiste della sua famiglia, guidato dalla curiosità di vedere con i propri occhi l'orrore della schiavitù, di conoscere i progenitori. C'è un conto da saldare, c'è da vedere il mondo che sua madre ha rigettato, subendo l'accusa di essere con le sue idee la rovina di metà del paese. In questa piaga scoperta, che nemmeno la guerra più sanguinosa potrà sanare, Liberty vuole mettere il dito. Lo fa raggiungendo la casa dei nonni, dal nome evocativo di Redemption Hall (folgorante lo scambio di battute con la nonna: "- Da cos'è esattamente che volete redimervi? - Da noi stessi".), appena in tempo per vedere ciò che resta delle antiche vestigia. Wright non concede alcuna romantica indulgenza al Vecchio Sud decaduto, dandogli il volto del folle nonno Asa Maury, intento a escogitare la "soluzione finale" per il problema razziale: trasformare il nero in bianco. I suoi esperimenti eugenetici sugli schiavi ci portano alla corte del dottor Mengele, in una piantagione che appena un secolo dopo potrebbe essere una fazenda brasiliana (e proprio il Brasile è il paese vagheggiato dal vecchio Asa, dove la schiavitù è ancora in auge). Nel suo progetto delirante c'è un posto anche per il nipote ritrovato, sangue del suo sangue, per quanto amalgamato con quello degli yankee, e proprio il compimento del piano darà avvio al crescendo finale. Un ultimo allucinato giro di polka per cercare di scongiurare il generale destino dell'unica razza esistente, quella umana. Perché, "il sangue scorre nel tempo come l'acqua, va dove vuole, quando vuole, senza rispettare confini geografici, fisici o sociali. Gli affluenti convergono, si diramano, riconvergono in un disegno che potrebbe essere meno casuale di quanto sembra. E' la vita, suppongo, che alla fine ci rende tutti bastardi." E ballerini. [WM4]

[Apparso su Il Venerdì di Repubblica del 28 settembre 2007]





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Serge Quadruppani, In fondo agli occhi del gatto, traduzione di Maruzza Loria, Marsilio, pp. 191, € 13

Era ora che Serge Quadruppani, uno dei più vivaci e spiazzanti autori del polar (il "crime novel" francese), fuggisse dal sovraffollato ghetto delle collane da edicola e approdasse alle librerie, dove le tirature sono minori ma i libri rimangono reperibili più a lungo. I precedenti romanzi uscirono nel Giallo Mondadori, collocazione che garantisce non più di due settimane di esposizione e poi via, indietro tutta, al macero o negli arretrati da richiedere per posta. A noi capitò di segnalare titoli come La breve estate dei Colchici (Giallo Mondadori n. 2822, 8/5/2003) e La notte di Babbo Natale (Giallo Mondadori n.2863, 2/12/2004) quando ormai era troppo tardi e il lettore poteva solo cercarli per bancarelle. E' merito dell'editore Marsilio se quel ciclo si è interrotto e oggi possiamo recensire senza frustrazioni In fondo agli occhi del gatto.
Le opere di Quadruppani sono narrazioni filosofiche forsennate, meditazioni sul male e la sua "necessità", vagabondaggi esilarati tra le macerie delle lotte di classe novecentesche. Qui seguiamo, minuto per minuto, la fuga di Michel, cinquantenne disoccupato che la polizia sospetta dell'omicidio del suo miglior amico. Vengono alla mente alcuni classici (cinematografici prima ancora che letterari), da Le Samourai di Jean-Pierre Melville (ma qui il tono è molto più scanzonato) a Fuori orario di Scorsese, passando per Tutto in una notte di John Landis e un altro film che menzionerò tra poco.
L'io narrante del braccato si alterna a quello di Emile, ex-sicario di imprecisati servizi d'intelligence, da tempo ritiratosi in una tenuta di campagna che è un capolavoro di domotica applicata alla sorveglianza, vero fortino tecnologico camuffato da locus amoenus. Sullo sfondo, un caso che turba l'opinione pubblica da diversi anni: la scomparsa di alcune donne a Nevers, in Borgogna.
In fondo agli occhi... è un raro (forse unico) esempio di conspiracy fiction non paranoica, che narra di complotti - perché "i complotti esistono" – ma intanto prende le distanze dai "complottisti", evitando di glamourizzare il complotto, mostrandocene la banalità filosofica e concludendo che, ben oltre massonerie e società occulte, il vero complotto sta al fondo, è strutturale e "funziona in automatico", risiede nella logica dei rapporti sociali.
Non sarebbe corretto svelare di più, ma possiamo anticipare che l'autore, per il tramite del fuggitivo Michel, ci trasmette questa morale surrettiziamente, con le frasi in apparenza più casuali, le osservazioni fatte en passant: anche mentre si sposta trafelato, con l'ultimo pelo della coda dell'occhio Michel continua a vedere e leggere il conflitto; ogni passo, ogni edificio, ogni episodio gli rammenta fatti di cronaca legati allo sfruttamento, alla disuguaglianza, alla ristrutturazione della metropoli, alle lotte sociali. E pare non possa proprio farne a meno: persino quando ha tutte le sinapsi occupate nello sforzo di fuggire/capire, cattura comunque qualcosa, un flash, un dettaglio: "passai vicino all'Hôtel-de-Dieu dove uno striscione reclamava qualcosa sulla sanità, non ho visto bene" (pag.157). Due pagine dopo, il modo in cui semina i propri pedinatori gli porta alla mente la vicenda di Cesare Battisti.
Ecco cosa distingue questo cinquantenne d'Oltralpe da certi suoi coetanei soixante-huitards delle nostre parti, quelli che nelle pagine di certa estenuata narrativa si crogiolano in non meglio precisate "crisi", o nella vita reale s'imbozzolano nella gestione tecnocratica di questo o quel potere: nello sguardo di Michel la società non è scomparsa.
Quadruppani, il cui stile molto visivo è reso alla perfezione da Maruzza Loria, procede per "libere associazioni" che, del tutto inattese, "accendono" il cervello di chi legge (es. la similitudine tra le oche torturate per produrre il patè di fegato e i detenuti dell'IRA in sciopero della fame nutriti a forza dai secondini). Immagine dopo immagine, i due fili narrativi cominciano a intrecciarsi, finché non si arriva all'epilogo, dove si verifica un bruschissimo passaggio al narratore esterno, quello dei romanzi illuministi, mentre cadiamo verso un finale che rovescia le aspettative.
The End.
...ma un momento, c'è ancora qualcosa: in articulo mortis del romanzo (in "zona Cesarini", per capirci) si apre un piccolo pop-up, "una frase, un rigo appena...", e ci ritroviamo nel film I tre giorni del Condor, l'ultimo fotogramma, Robert Redford che si guarda alle spalle, urtato dal dubbio più violento della sua vita.
Da tempo Quadruppani – traduttore di Camilleri, Carlotto, De Cataldo, Evangelisti, Fois, Verasani e molti altri – s'impegna per diffondere in Francia la letteratura italiana; è tempo che quest'ultima s'impegni a far conoscere Quadruppani di qua dalle Alpi. Perché lo merita. [WM1]

[Apparso su "L'Unità" del 20 settembre 2007]





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Andrea Bajani, Se consideri le colpe, Einaudi, 2007, pp.170, € 14

Andrea Bajani ha scritto uno di quei romanzi che di solito non leggo. Quando l'ho iniziato, pensavo che dentro ci fosse altro, ma poi non sono riuscito a smettere. Per una serie di malintesi, credevo che il fulcro del racconto fosse la conquista dell'Est, e in particolare della Romania, da parte degli imprenditori italiani. Non che il tema sia assente, ma è come la spezia in una piatto di riso: se la togli cambia sapore, non diventa una pasta asciutta. Qui il riso, la base della pietanza, è fatto di rapporti tra persone, com'è tipico di quei romanzi che di solito non leggo. Le relazioni principali sono quattro: c'è quella tra Lorenzo e Lula, cioè tra un figlio e una madre; tra Lorenzo ed Emilio, che prova ad essere suo padre; tra Lula e Anselmi, amanti e soci in affari; e infine tra Lorenzo e la Romania. Il romanzo è come un concerto di questo quartetto, con Bajani al mixer che alza e abbassa i cursori, regola frequenze, volumi, amalgama. Ho scritto quartetto, ma sarebbe più giusto dire tre solisti più l'orchestra, perché in realtà quello tra Lorenzo e la Romania non è un legame semplice e diretto, ma polifonico, mediato da almeno altri quattro personaggi: Christian, Monica, Viarengo e di nuovo Anselmi.
Il tema di Lorenzo e Lula è quello di un legame che si spegne, una lenta e inesorabile dissolvenza. E' il racconto di una madre che abbandona suo figlio, dopo anni di complicità, giochi e viaggi di lavoro sempre più lunghi. Una donna risucchiata dalla carriera, certo, da un amore clandestino, ma soprattutto da quello che Anselmi chiama il centro del mondo, "indicando la spianata di cemento, come se il centro del mondo fosse quel capannone e non la Romania che incidentalmente gli stava intorno". Un abbandono progressivo che in realtà è anche una fuga, un riscatto, un'irrequietezza senza rimedio, qualcosa di più complicato della semplice fame di successo e denaro. Lo capiamo nei rari episodi che mettono in scena la famiglia d'origine di Lula, i suoi fratelli da esposizione, i genitori altolocati e incapaci d'affetto, la piccola storia ignobile che li allontana per sempre da una figlia sbagliata. A ben guardare, è lei la protagonista del romanzo, proprio in quanto assente, e non sarebbe sbagliato leggere l'intero libro come una riflessione sui ruoli delle donne e su quali "colpe" si debbano considerare, di fronte a sconfitte senza scampo come quella di Lula.
Per converso, la melodia di Lorenzo ed Emilio è quella di un'estraneità che piano piano diventa condivisione. Inizia con un figlio che ha tre anni e un padre-non-padre che arriva "all'improvviso, senza che ne avessi fatto richiesta". Un legame a lungo inutile, formale, divorato da quello con la madre. Poi, accomunati dal disprezzo di lei, i due si ritrovano, e da lì ripartono, finché Lorenzo potrà dire di Emilio che "sembrava veramente un padre".
La Romania è un'orchestra, un coro, un bordone che accompagna l'intera sinfonia e a tratti diventa protagonista. La Romania è Anselmi, imprenditore d'assalto, uno che parla male e pensa peggio, tronfio e prepotente, pieno della "boria di chi è padrone due volte proprio perché è in terra straniera". La Romania è Monica, giovane amante rumena di Anselmi, che parla l'italiano con le sue stesse brutture, ma in fondo lo disprezza, anche se non quanto la Dacia scassata di suo padre e i casermoni del socialismo reale. La Romania è Christian, il ragazzo rumeno che segue Lorenzo come un fratello. Christian dice di Anselmi che è un "uomo di merda", dice che il suo paese è appena uscito dal Medioevo, che i suoi connazionali si vergognano di andare fieri di Ceausescu. La Romania è Viarengo, altra tipologia di pioniere rispetto ad Anselmi, uno che prima di tutto schiavizza sé stesso, vive nella sua fabbrica di casse da morto, lavora le classiche sedici ore al giorno e saluta gli operai per nome, come il Buon Pastore con le sue pecorelle.
La Romania è il primo paese povero che mi sia capitato di visitare. Era il '92, l'estate della maturità, e il biglietto InterRail ci aveva condotto ad Est. Scappai da Bucarest su un treno notturno: ancora non sapevo che una città brutta può essere molto interessante, se non la visiti da turista. Quella lezione, all'alba del giorno dopo, me la impartì Iasi. Importante sede universitaria e seconda metropoli del paese, la definizione della guida cozzava con un agglomerato fatiscente, che pareva reduce da un bombardamento, traboccante miseria, con un vecchio monastero ortodosso a far da spartitraffico in mezzo a un viale a sei corsie. Ci rimasi lo stesso quattro giorni, prima di ripartire per Putna, un paesino tra le montagne della Bucovina, dove una contadina ci offrì la stanza migliore della fattoria per 1000 lire a notte, comprensive di figurina Panini di Florin Raducioiu, con la maglia del Bari, attaccata alla porta. Per andare al cesso bisognava uscire in cortile e cercare una capanna di legno con dentro un asse, un buco, un giornale e una montagna di letame subito alle spalle.
Questo per dire che certe frasi del romanzo non possono che farmi effetto: "Qui una volta c'era il Medioevo", "Ceausescu nascondeva le chiese, le metteva dietro ai palazzi". Ma non è questo il vero motivo che mi ha fatto apprezzare così tanto un romanzo che di solito non leggo. Il motivo vero sono due: primo, Bajani al mixer è davvero bravo, la melodia risulta miscelata con sapienza e la voce degli strumenti è nitida, precisa, talmente evocativa che a tratti pensi di essere tu, il bambino Lorenzo che rievoca un certo episodio dell'infanzia, e in fondo Lula ti sembra di conoscerla e certo Anselmi è proprio il tizio che hai sentito sproloquiare l'altro giorno sul treno per Milano. Secondo, la scrittura, anche questa ingannevole, che sulle prime mi sembrava confermare lo stereotipo: ecco uno di quei romanzi che di solito non leggo. Una scrittura in apparenza garbata, con le unghie pulite, la schiena dritta e le braccia conserte. Poi la ascolti bene e senti i neologismi, gli ossimori, le forzature della sintassi, i verbi usati in modo insolito, i dialoghi fatti senza trattino, tutti di seguito, come in Cecità di Saramago. Li senti e capisci che non sono abbellimenti buttati lì a caso, trilli e acciaccature tanto per fare, virtuosismi. Il fatto è che Bajani è anche un ottimo compositore, non sa soltanto miscelare.
Credo che da qui in avanti sarà uno di quegli scrittori che di solito leggo. [WM2]




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John Ronald Reuel Tolkien, I figli di Hurin, Bompiani, 2007, pp. 325, € 20

Oxford, Wolvercote Cemetery, autunno 2007. Sarà anche retorico dirlo, ma i cimiteri inglesi hanno un fascino particolare. Discreti, sobri, immersi nel verde. Il Wolvercote da il meglio di sé sul far della sera, quando i pochi visitatori sono già tornati in città e seguendo le indicazioni si raggiunge una piccola tomba in mezzo al prato.
Sulla lapide i nomi di John Ronald Reuel Tolkien e di sua moglie Edith Mary Tolkien, abbinati a quelli di Beren e Luthien, uomo ed elfa, protagonisti di uno dei racconti più romantici del ciclo tolkieniano.
Oltre ai mazzi di fiori, il culto dei fan ha trascinato qui i ninnoli più strani. Una cartolina scritta in slavo; animali di pelouche; una scatolina colorata con dentro una scritta in elfico; un nastro con le firme dei membri della Hungarian Tolkien Society; anelli di varia foggia e colore. Trentaquattro anni dopo la morte la fama del padre della Terra di Mezzo gode ottima salute e l'affetto circonda la sua memoria, merito anche del fatto che l'autore fantasy per antonomasia non ha mai smesso di pubblicare libri. L'ultimo è uscito la primavera scorsa ed è subito finito in vetta alle classifiche inglesi.
Non è un miracolo da Second Life, ma l'ennesimo successo firmato J.R.R.Tolkien (1892-1973), o meglio la versione finale di una storia la cui prima stesura risale a quasi novant'anni fa. I Figli di Hurin - pubblicato in Italia da Bompiani su carta ecosostenibile certificata FSC - è un paradosso letterario, di quelli che ti fanno venire voglia di prendere un aereo e andare a trovare l'autore, anche se il suo ultimo domicilio è sotto una lastra di pietra.
In mezzo all'edera che abbraccia la lapide c'è anche un biglietto, con una sola parola scritta a biro: mellon. "Amici", nella lingua elfica che unisce i cultori di ogni parte del mondo. Sì, perché nelle foto il vecchio professore ha l'aria di un amico cordiale e molto british, che si ferma per il tè. Giacca di tweed, gilet di lana, pipa in bocca. Un'esistenza fatta di lezioni all'università, birra al pub con gli amici, cena in famiglia e vacanze in riviera (Brighton, non Rimini, ovviamente). Insomma un conservatore nello stile e nei modi, perfino un po' impacciato nella dizione. Sembra l'identikit di uno di quegli insegnanti che sfottevamo dall'ultimo banco.
Eppure a guardarle bene le vecchie fotografie, magari quelle degli ultimi anni di vita, si scorge anche qualcos'altro: un nonno saggio, con tante storie da raccontare nelle sere d'inverno, oppure d'estate seduti sotto l'ombra di un albero, o - perché no? - davanti a un buon boccale.
Basta prendere l'autobus lungo la strada che porta verso il centro e scendere all'altezza del St.John's College, per raggiungere uno dei suoi posti preferiti. Sull'insegna un'aquila che tiene nel becco un lembo di stoffa in cui è avvolto un bambino. Benvenuti all'Eagle & Child, quartier generale degli Inklings.
Ink...che? Il nome sembra uno scioglilingua, e in effetti forse lo è, ma era anche il circolo di letterati che negli anni Trenta si riuniva intorno a Tolkien e C.S Lewis (quello delle Cronache di Narnia, sì). Birra e storie: il carburante della vita. Guardando le loro foto appese alla parete del pub viene da chiedersi se in quelle chiacchierate immaginassero cosa ne sarebbe stato delle loro saghe fantastiche: decine di milioni di copie vendute e colossal cinematografici.
Facile escluderlo per Tolkien. Il suo mondo finiva qui, dopo il bicchiere della staffa, con la passeggiata fino a una via tranquilla, oltre un cancello di legno, tra le pareti di una borghesissima casetta inglese cinta dai rampicanti, dove la famiglia dormiva già placidamente.
E la battaglia di Minas Tirith? Re Theoden che arringa i Rohirrim prima di lanciarli alla carica e fa riecheggiare il suo grido di guerra in mezzo alle schiere? E Frodo che affronta l'orrendo ragno Shelob? Da dove spuntano le bianche torri della capitale di Gondor?
JRR TolkienEccolo il paradosso del professor Tolkien, l'altra metà della sua vita, che iniziava nelle ore piccole della notte, davanti allo scrittoio. E' il mondo fuoriuscito dalla sua penna che continua ad affascinare generazioni di adolescenti e non solo, in forma di romanzo, film, gioco da tavolo o da computer. I supporti tecnologici cambiano, ma l'incantesimo rimane lo stesso.
Incantesimo, non gioco di prestigio, accesso a un mondo che Tolkien pretendeva coerente fino al minimo dettaglio, al punto che una vita non gli è bastata a completare l'opera.
E' toccato al figlio Christopher dedicarsi alla selezione e pubblicazione dei suoi inediti, una montagna di appunti accumulati nell'arco di decenni.
Buona parte di quello che abbiamo letto a firma J.R.R.Tolkien - a partire da Il Silmarillion, al Libro dei Racconti Perduti, fino a I Figli di Hùrin - è il risultato di questa trentennale opera di cesello e cucitura. Scopo finale: terminare il grande progetto, collegare tra loro tutti i racconti e le leggende della Terra di Mezzo in un ciclo narrativo che attraversi le prime Tre Età del mondo e di cui Il Signore degli Anelli non è che la chiosa finale. Un'impresa epica nell'epica, che è giunta ora a conclusione, tornando a dove era cominciata, cioè a Hùrin e alla sua sventurata progenie.
Quando la storia dei figli di Hùrin è stata scritta per la prima volta le automobili avevano ancora i cerchioni raggiati e regnava il trisnonno dei principi William e Henry. Tolkien ha poi continuato a riscrivere e aggiustare il testo, senza mai approdare a una stesura definitiva, tanto che dopo la sua morte il racconto è stato pubblicato in almeno tre versioni. Quella "primitiva" dei Racconti Perduti; quella "reduct" del Silmarillion; e quella "monca" dei Racconti Incompiuti. Finalmente Christopher ci ha regalato il final cut, con tutte le integrazioni al posto giusto e senza soffocanti commentari, così da permetterci di gustare la storia nella sua completezza e fluidità narrativa.
Il protagonista è Tùrin figlio di Hùrin, terrore d'orchi, uccisore di draghi. Un personaggio dal destino segnato che riecheggia gli archetipi mitici di Kullervo e di Edipo, ma anche gli eroi dei poemi antichi e delle saghe popolari: Odisseo, Beowulf, Robin Hood.
Turìn è una figura tragica, in chiaroscuro, quasi la versione maudit di quello che sarà Grampasso/Aragorn, o - prendendo a prestito il paragone da un'altra saga - il giovane Anakin Skywalker in Guerre Stellari, costruito sulla base degli stessi paradigmi mitici. La vicenda si colloca nel cuore della Prima Era e diventa un punto focale da cui guardare all'indietro e in avanti, attraverso le dinastie di elfi, nani e uomini, per ammirare la perfetta architettura narrativa dell'insieme. Si tratta forse del punto più alto, più emblematico, di quella poetica della Caduta che permea l'intero ciclo tolkieniano. Il Beleriand in cui si muove Tùrin è una terra già morente, dove l'Ombra è in ascesa, dopo la sconfitta subita dall'esercito di Elfi e Uomini contro le forze del Signore Oscuro. La Battaglia delle Innumerevoli Lacrime che apre la storia è un nadir senza riscatto. I piccoli regni liberi che sopravvivono alla sconfitta avranno i giorni contati. L'Ombra si estende da nord, guadagna terreno, orde di orchi fendono i boschi e le contrade, saccheggiando e distruggendo. In questo scenario si muove Tùrin, l'eroe orgoglioso e ribelle, che si autoproclama Turambar, Padrone del Fato, ignaro di quanto ogni suo gesto sia destinato a innescare una catena di eventi atroci che coinvolgerà tutti i suoi affetti e lo porterà a una fine terribile. Il Signore Oscuro vince - anche se sappiamo che la sua vittoria non potrà mai essere definitiva -, la maledizione scagliata contro la stirpe di Hùrin si compie. E' proprio questo fascino perdente che rende unica e grandiosa la figura di Tùrin, la più drammatica che Tolkien abbia messo sulla pagina (eguagliata solo dal binomio Frodo/Gollum, probabilmente). La hybris dell'eroe verrà punita e tuttavia non si potrà non tenere per lui, ammirare il coraggio disperato che lo mette a capo di una banda di predoni dei boschi e lo conduce a un'ostinata guerriglia personale contro il Signore Oscuro. Fino ad affrontare il padre di tutti i draghi, uno degli unici due che entrano nella saga tolkieniana - perché coi draghi bisogna andarci piano, ché non sono bestie facili da trattare, e ne sanno sempre una più del diavolo, avrebbe detto il professore.
DragoC'è poi una poesia più sottile che dalle pagine del romanzo riverbera sull'intera opera. Quella della consequenzialità. Ad ogni scelta, ad ogni azione, corrispondono delle conseguenze che si richiamano l'una all'altra e si espandono attraverso le generazioni e le epoche, come i cerchi sulla superficie di uno stagno. Prima o poi dovranno essere affrontate. Perché il caso può essere beffardo, ma in un modo o nell'altro finisce sempre per mettere alla prova e rivelare gli aspetti più reconditi della nostra anima. Cogliere questa poesia nella vicenda di Tùrin, come in tutto il ciclo della Terra di Mezzo, significa apprezzare l'opera di Tolkien fino in fondo, lasciarsene ammagliare, o, come avrebbe detto C. S. Lewis, "gioirne".
Ma dopo aver voltato l'ultima pagina, la gioia lascia subito spazio a una domanda impellente.
E adesso?
Adesso che Christopher Tolkien - classe 1924 - si prende la meritata vacanza e gli inediti sembrano esauriti, che ne sarà della Terra di Mezzo? Finirà al museo di storia letteraria? Non c'è davvero più niente da aggiungere?
Meglio pensare che un margine esista ancora. I pertugi, piccoli fori nel muro di cinta, li ha praticati il vecchio Tolkien in persona. Perché sotto sotto gli sarebbe dispiaciuto vedere apposta la parola fine alla sua creazione e forse proprio per questo ha preferito lasciare il compito ad altri.
Lo hanno capito i creativi della Electronic Arts, che nel 2006 hanno sfruttato una di queste fenditure per creare il videogioco La Battaglia per la Terra di Mezzo II. Si tratta del sequel di un primo videogame che ripercorreva la trama del Signore degli Anelli. L'idea nasce da poche righe nell'Appendice A del romanzo, dove lo stesso Tolkien fornisce notizie su una vicenda parallela a quella principale. Mentre i nostri eroi combattono a sud, un grande scontro avviene anche a nord, dove l'offensiva secondaria di Sauron incontra la resistenza di nani e uomini. Il videogioco sviluppa quel troncone di storia recuperando alcuni personaggi di seconda linea e senza minacciare la coerenza dell'insieme.
Non è l'unico varco che consente di addentrarsi nei meandri ancora inesplorati della Terra di Mezzo, con buona pace dei suoi custodi ufficiali. Sarebbe bello poter immaginare la vita di Bilbo e Frodo nelle terre beate dei Valar. Pensarli intenti a scrivere del loro viaggio nell'altro continente e a disegnarne la mappa, magari sotto i benefici effluvi dell'erba-pipa. O sapere come verrà accolta dai casti dèi di Valinor la "strana coppia" composta dal nano Gimli e dall'elfo Legolas, più solida della più solida unione di fatto. Senza contare gli eventi della Quarta Era. I regni di Aragorn ed Eomer avrebbero bisogno di un menestrello che ci raccontasse un po' meglio le guerre, gli intrighi e gli amori di corte. In fondo, nonostante l'happy end del Signore degli Anelli, sono i regni degli uomini, quelli più vicini a noi, biodegradabili quanto l'amletica Danimarca. E poi... e poi c'è il mare magnum dei possibili prequel ai romanzi più famosi. A partire dall'avventura mai scritta di Earendil il marinaio, alle guerre corsare della Seconda Era. O ancora ai destini dei due stregoni inviati nella Terra di Mezzo insieme a Saruman, Gandalf e Radagast, e che a detta di Tolkien si persero nelle lande orientali per poi passare al lato oscuro della forza.
Ecco che se si guardano le cose da questa prospettiva l'orizzonte appare meno tetro e anzi, sembra quasi di sentire un rincuorante scalpitio di zoccoli in lontananza e il suono dei corni da battaglia sulle colline a sud della città. Perché la fantasia non ha bisogno di passaporto o permesso di soggiorno e, come sostiene il professor Henry Jenkins del M.I.T. (Cultura Convergente, Apogeo, 2007), il fandom è una forza "sociale" che quando acquista autoconsapevolezza può anche sovvertire le regole del gioco. Fino a collettivizzare la narrazione e pretendere che non finisca. Per amore della nostra immaginazione e, ovviamente, della Terra di Mezzo. [WM4]


[Una versione ridotta di questo testo è apparsa sul n. 28 del mensile XL, dicembre 2007]

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WM4, Le rapide del Brandivino
WM, Prefazione a Cultura convergente di Henry Jenkins




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Stephen King, Blaze, traduzione di Tullio Dobner, Sperling & Kupfer, pp. XIII-464, € 18,50

Clayton Blaisdell Jr. detto "Blaze" è un gigante ritardato con una specie di buco sulla fronte. E' un ricordo d'infanzia: quando aveva sei anni, il padre alcolizzato lo lanciò tre volte giù dalle scale. Blaze, affidato allo stato del Maine, è cresciuto in un collegio per ragazzi disagiati. Ora, da adulto, fa da spalla a George Rackley, un piccolo truffatore. Insieme spennano merli su e giù per il New England, George entra ed esce di galera, Blaze lo aspetta e ogni volta riprendono, finché George non propone un salto di qualità: rapire Joseph Gerard IV, erede neonato di una famiglia patrizia del Maine. Un colpo difficile, ma che dà un'inestimabile garanzia: il pupo non potrà testimoniare, "non saprà nemmeno di essere stato rapito". Per George, che a suo modo è un uomo di sinistra, è anche una questione di classe: lui odia i ricchi, e odia i repubblicani, e figurarsi quando le due cose coincidono! George sa bene che la destra incula i poveri, e il motivo è lo stesso per cui i cani si leccano le palle: possono farlo, quindi lo fanno.
Così il bimbo viene rapito. Blaze è il braccio e George la mente, quello che ha le idee e risolve i problemi. Solo che George è morto da tre mesi.
Blaze di Stephen King è giunto in Italia all'inizio di ottobre, marciando sul tappeto rosso del gruppo Repubblica/Espresso, accompagnato in edicola dalla fanfara, zumpappà! L'intensa campagna-stampa si è rivolta, in tutta appariscenza, ai lettori "tradizionalisti" di King, quelli che apprezzano i vecchi libri ma faticano a orientarsi nella complessità dei titoli più recenti. Blaze è infatti un romanzo "vecchio stile", un Lazzaro tornato dalla tomba: King lo scrisse nel 1972-73 con il glorioso nom de plume "Richard Bachman" (abbandonato di lì a poco), per poi metterlo in un cassetto e scordarsi della sua esistenza. Lo ha ripescato l'anno scorso e, rileggendolo, ha pensato valesse la pena offrirlo al pubblico di oggi, con le modifiche e gli aggiornamenti del caso.
Nella premessa, l'autore dice di aver tolto dalla storia ogni "sentimentalismo", fino a ottenere "un libro nudo come una casa vuota, dove non sia rimasto nemmeno uno straccio di tappeto per terra."
Il cruccio del lettore non tradizionalista - quello che ha seguito King lungo l'eptalogia della Torre Nera e si è interrogato su esperimenti narrativi come Cuori in Atlantide o Colorado Kid - è di non sapere come fosse arredata la casa prima dello sgombero. Non disponendo della prima stesura, non abbiamo modo di sapere cosa sia stato modificato e come. La prima domanda che ci si pone è: in che epoca si svolge questo romanzo? "Ho cercato di mantenere il più possibile sul vago i riferimenti temporali", avverte King, e infatti i personaggi nuotano in una miscela di anni Settanta e XXI° secolo. Nel fugace riferimento ai dirottatori di aerei c'è più "Leila Khaled 1969" o "Mohamed Atta 2001"?
Poi c'è un'altra questione: la collocazione di questo libro nell'universo narrativo kinghiano. Che dire della citazione di It (il clown meccanico sghignazzante), delle strizzate d'occhio al mondo della Dark Tower, dei rimandi quasi subliminali ad altri libri? Che dire degli uccelli "psicopompi" del doppio finale, giunti direttamente da La metà oscura, non a caso il libro della resa dei conti tra King e Bachman? Tutto questo quando è stato inserito?
Blaze non è più soltanto un libro di Richard Bachman. E' un inedito di trentacinque anni fa rimaneggiato dal King sessantenne di oggi, il King della piena maturità umana e letteraria. Pur trattandosi – dichiaratamente - di un'operazione minore e di un prodotto ibrido, contiene molte pagine degne del miglior King, quello dei romanzi di formazione. Pagine per le quali molti scrittori italiani si bacerebbero i gomiti fino a consumare la carne e rosicchiare l'ulna.
Il rapporto Blaze/George richiama quello King/Bachman. Come Bachman è un eteronimo di King, così George è una personalità di Blaze. Mentre ci accorgiamo che Blaze non è proprio tutto scemo (se George non c'è, chi sta dicendo le cose sensate?), ci rendiamo conto che quest'operazione di King ha un senso, ce l'ha eccome, ed è ben lungi dal lasciare il tempo che trova.
Blaze ha bisogno di "esternalizzare" la propria intelligenza nascosta, di darla in appalto a George per non assumersene la responsabilità. Nel momento in cui deciderà di agire da solo, senza angeli custodi né grilli parlanti, sicuramente andrà incontro al fallimento, ma almeno avrà agito per conto proprio, senza deleghe né schermi. Non a caso, Blaze è l'ultimo romanzo scritto da Bachman prima del grande exploit di King: in queste pagine vediamo King abbandonare quella voce. La riprenderà solo qualche anno dopo, pubblicando i vecchi inediti - più L'occhio del male - con beffardo distacco e strizzando l'occhio per farsi scoprire. Il libro successivo a Blaze sarà Carrie, inizio di un viaggio durato (finora) trent'anni. Ne La metà oscura King ci aveva raccontato cos'era successo dopo il distacco ufficiale da Bachman, ma non ci aveva mai raccontato l'inizio del lungo addio. Lo fa ora, in questo romanzo vecchio e nuovo al tempo stesso.
Una nota critica sulla traduzione italiana, affidata al veterano Tullio Dobner: man mano che ci avviciniamo al finale la lingua si fa più incerta, tra ironie che scompaiono e frasi a dir poco zoppicanti. Un esempio: "Un bravo cane da punta non si limita a fiutare una pernice o un tacchino... sa quando il bisogno di volare avrebbe sopraffatto [sic] il bisogno di restare immobili nel loro nascondiglio" (pag.285). Quel condizionale passato sembra il residuo di un tentativo di coniugare la frase all'imperfetto. La colpa, è ovvio, non è di Dobner ma di tempi che tagliano il respiro e sciatteria editoriale sempre più diffusa.
A conti fatti, Blaze è una lettura che consiglio, perché spinge a porsi domande importanti sulla scrittura e il trovare la propria "voce", perché il rapporto tra rapitore e bimbo è reso in modo commovente, perché King si è chiaramente divertito a rimetterci mano. E anche perché, lo sappiamo, la sua opinione sui repubblicani non è molto diversa da quella di George Rackley. Che poi, sia detto in confidenza, è la stessa del vostro umile recensore. [WM1]

[Apparso su L'Unità del 27 ottobre 2007]

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WM1 recensione di La storia di Lisey




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Babsi Jones, Sappiano le mie parole di sangue, Rizzoli 24/7, 2007, pp. 260, € 16,50

Babsi,
se mi chiedessero a bruciapelo cosa penso del tuo libro direi: non mi ha convinto. Se invece mi chiedessero un consiglio direi: leggetelo.
Non mi ha convinto perché non ho capito da che verso prenderlo. Tu stessa l'hai chiamato quasiromanzo e questa scelta contiene già la mia delusione. Cosa debba fare un quasiromanzo, io non lo so, non lo capisco. Forse deve quasinarrare e allora uno potrebbe dire che sì, come quasiromanzo il tuo libro è molto ben riuscito, con quelle continue divagazioni - poetiche, verbose, arrabbiate - che "se lo mangiano come lebbra". Uno potrebbe dire così, ma a me pare troppo facile, basta mettere il prefisso quasi a una qualunque attività ed ecco che scompare l'insuccesso, la critica, il giudizio. Va tutto bene quando tutto è quasi. Io non lo so cosa deve fare un quasiromanzo, come lo devo afferrare. Può sembrarti un affare da poco, un puntiglio, ma il famoso anatroccolo era una brutta papera e un bellissimo cigno, e se io pago una guida turistica per farmi da cicerone a Venezia e quello mi porta in gondola e bada a remare, potrà essere una fantastica esperienza, ma è pure una discreta sòla, un patto non rispettato. Ora mi chiedo: si può eludere il patto e uscirne puliti, senza aver ingannato nessuno? Scrivo sul cappello "quasiguida turistica" e dopo, se ti porto mezz'ora a teatro, un quarto d'ora in gondola, dieci minuti a spiegarti chi era il Doge e altri dieci a dare il granturco ai piccioni, sono a posto, se non ti va bene dovevi cercarti una guida e basta, ti avevo avvisato. Io la guida e basta non la so fare.
Tutto questo sarebbe un gioco di parole vuoto, se alla base non ci fosse il nucleo poetico del tuo quasiromanzo, che non si chiama così per sfizio, come uno si mette un cappello piuttosto di un altro, il fatto è che chi scrive dice da subito che le parole non le basteranno, che quello che vorrebbe raccontare non si può raccontare, che la montagna è troppo impervia da scalare, eppure bisogna provarci, consapevoli che non si arriverà in cima, provarci anche solo per piantare un campo base nella neve, qualche metro più avanti dell'ultimo, sepolto sotto la valanga.
Vedi, Babsi, la mia metafora non funziona, perché nel caso della montagna la sua impraticabilità è un dato condiviso: di certo molti alpinisti hanno provato e hanno fallito. La tua montagna, invece, il conflitto yugoslavo, è impraticabile perché lo dici tu e noi dobbiamo fidarci. Lo ripeti molte volte, infatti, come se ci dovessi convincere, ma alla fine l'unica cosa certa è che tu non riesci a trovare le parole, tu hai smarrito la chiave, o non l'hai mai trovata, mentre lo scrigno potrebbe avere una serratura e anzi, a rigor di logica, dovrebbe avercela. Ma tu non la trovi, la serratura, o non trovi la chiave e allora provi a dire cosa contiene sbirciando dagli spiragli, dalle crepe del legno, scuoti lo scrigno per sentire che rumore fa, lo passi al metal detector per capire se c'è dentro acciaio o porcellana. Eppure, sono sincero, se l'obiettivo era descrivermi cosa contiene lo scrigno, beh, al di là dello spettacolo, bello e affascinante quanto si vuole, avrei preferito uno che sapesse aprirlo (e, detto tra parentesi, ho l'impressione che quell'uno, forse quell'unico, sia proprio tu, Babsi, anche se non l'hai voluto ammettere e magari t'è sembrato che per raccontare una sconfitta di sangue ce ne volesse un'altra, di parole. Parole che sapessero di sangue).
Così, se penso a quel che mi rimane dopo la lettura, riemergono soprattutto gli elementi saggistici: dati, ricostruzioni di episodi, aneddoti storici, informazioni - spesso inculcate con troppa violenza dentro dialoghi, episodi, personaggi. Oltre a questo, la rabbia della protagonista. La scrittura di alcune pagine vertiginose, molto più del loro contenuto. E alcune frasi dell'Amletario, che per il resto mi ha fatto sentire cretino, visto che la chiave, in questo caso per capirlo, non l'ho trovata io.
Il resto - ed è comunque tanto - evapora tra le pieghe del cervello, sublimato dalle incandescenze, fiamme incontrollate, lame roventi che macellano la narrazione. Così viene da rimpiangere cosa sarebbe stato questo libro se fosse stato un soloromanzo, o un solosaggio o magari, come diciamo noi, un oggetto narrativo, che almeno all'obiettivo del narrare cerca di non sottrarsi (e se si sottrae, ha fallito davvero). Il mio compare Wu Ming 1 mi dice giustamente che nel secondo caso - il solosaggio - una serie di affermazioni, scomodità e scorrettezze politiche non sarebbe passato indenne, mentre la forma quasinarrativa è un modo per spingerle nel mondo e farle sopravvivere più a lungo di qualsiasi polemica su vittime e carnefici.
E' vero, ma non credo che un romanzo possa giustificarsi con una strategia.
Tuttavia, se dobbiamo fidarci di te, Babsi, se davvero non c'era altro modo, altre parole per scrivere tutto questo, allora meno male che hai raccolto la sfida e che non l'hai abbandonata, impaurita dal fallimento che già presagivi (e magari era solo sindrome di Cassandra, profezia che si autoavvera).
Di certo chi vorrà leggere ti ringrazierà di averci provato.
Io ti ringrazio.
Ciao,
WM2

Babsi lo scrive quasi subito: nei Balcani "nessuno siede dalla parte della ragione abbastanza a lungo da lasciare sul divano l'impronta del suo sommo culo, e le cose, siano esse visibili o invisibili, non portano il codice a barre delle certezze di mercato" (p.36).
Perché? Perché "oltre i Balcani ci sono i Balcani nuovamente".
E i Balcani, "visti da fuori, appannano la vista" (p. 213).
Babsi dichiara: "rifarei il mondo dividendolo in cecchini e cecchinati. A turni alterni" (p.123).
E Lajos, l'attore, spiega: nelle guerre balcaniche il vincente è solo un sorcio più pasciuto, un pezzente più furbo, accattone tra accattoni.
E ancora, citando dalla Hamletmaschine di Heiner Muller: "Il mio posto, se il mio dramma dovesse ancora aver luogo, sarebbe su entrambi i lati del fronte" (p.184).
Se il mio dramma dovesse ancora aver luogo
. Perché la chiave sta proprio in quel dramma, nell'onnipresente Amleto, nelle parole di quell'Amleto che "ha dubitato per tutti noi" (Emily Dickinson).
Chi ha attaccato questo libro ha detto che è pura propaganda filo-serba, che si limita a invertire il rapporto vittima-carnefice senza contestarne la logica di fondo, che è troppo pieno di rabbia e voglia di vendetta, etc.
Eppure la vendetta, Babsi lo dichiara mille volte, è quella dell'Amleto. Amleto, nella scena IV dell'atto IV, assiste alla tragedia di una guerra per difendere un'inutile pietraia, "un fazzoletto di terra che non vale più del suo nome". Croazia? Krajina? Bosnia? Kosovo? "Non lo vorrei in mezzadria per cinque ducati", dice il capitano della spedizione. A quel punto Amleto esorta i propri pensieri a non fuggire la dura realtà: "O, from this time forth, My thoughts be bloody, or be nothing worth!" [D'ora in avanti, siano di sangue i miei pensieri, o non valgano nulla]. "Sappiano i miei pensieri di sangue", nella traduzione di Cesare Garboli utilizzata da Babsi Jones. Da qui il titolo del libro.
La vendetta di Amleto nasce dalla frustrazione del tentativo di coltivare il dubbio, ed è vendetta disperante, svuotata di ogni possibilità catartica. In concreto, Amleto cosa fa? Allestisce una rappresentazione teatrale. Ricorre all'arte, sperando che qualcuno capisca. Babsi Jones fa la stessa cosa con questo libro. E fa dire ad Amleto: "Non volevo vendicare mio padre: volevo conoscerlo. Fui deluso, scoprendo che c'era un solo modo per comprendere lo spettro: vendicarlo" (p.250).
Amleto è deluso, deluso perché le circostanze lo costringono alla vendetta, distogliendolo dalla comprensione. Ed è quindi Babsi, tramite lui, a dirsi delusa perché il libro le sfugge di mano, perchè la collera è troppa e travolge i dubbi, travolge i dati, travolge tutto.
In una simile condizione, "fallire un po' meglio" (p.100) è il massimo che si possa ottenere.
Cos'è Sappiano le mie parole di sangue? E' il diario di una giornalista italiana bloccata a Mitrovica (si chiama "Babsi Jones", come l'autrice). E' controinformazione in forma di prosa poetica (!) su un Kosovo dove la pulizia etnica - come è ormai ampiamente dimostrato - accadeva all'inverso di com'era descritta in occidente, e il gruppo di "combattenti per la libertà" di cui tanto si parlava qui da noi era piuttosto un'organizzazione mafiosa, al servizio del traffico internazionale d'armi e droga.
SLMPDS è una rassegna delle tante menzogne diffuse ad arte negli anni Novanta e a seguire. Nomi come "Ruder & Finn" o "Divisione Handzar" dovrebbero imprimersi a fuoco nel cervello di chi legge, essere ricordate vita natural durante. Questa è la storia di come la complessità è divenuta favoletta per "umanitari".
E fosse solo questo! Babsi racconta di cose più gravi, cose di cui l'occidente ha finto di non accorgersi. Un revanscismo anti-serbo, anti-zingaro, anti-semita suppurava nella pelle della Yugoslavia, sotto la camicia stretta dell'esperimento multi-etnico. Quarant'anni di infezione, poi lo scoppio che ha scagliato tutt'intorno pus e sangue. In Croazia e in Bosnia si agitavano cupe nostalgie del collaborazionismo, certe tradizioni erano tenute vive in clandestinità, gli sterminatori delle divisioni SS autoctone (come la "Handzar" o la "Skanderbeg") erano celebrati di nascosto come eroi. Questo passato tornò a influenzare il presente nel 1990 o giù di lì, mentre qui da noi ci insegnavano che gli unici cattivi erano i Serbi (non "la Serbia": i Serbi ovunque fossero, i Serbi come genus).
Babsi ha il vantaggio di leggere e parlare il serbo-croato ("una lingua che non esiste più"), conosce quelle linee genealogiche e cerca di spiegarle a noi che al massimo abbiamo orecchiato qualcosa. L'impeto con cui ci prova si misura ad ogni riga con la sfiducia nei propri mezzi. SLMPDS è "tutte le nenie morte, e zero narrativa" (p.27), le parole utilizzate sono già "massa morta" (p.99), l'autrice "sta facendo fatica a tentare di" (p.102), l'autrice ammette: "Mi immaginavo forte e non lo sono" (p. 199), l'autrice che "recita Amleto quando recita Amleto quando è molto, molto stanco" (p.252), tra "picchi del dramma e cadute di stile" (p.252).
Eppure sceglie di usarle, le parole. Nella sfiducia come condizione fondante, si decide comunque di agire, e addirittura di osare, di sperimentare. Non è una sfiducia incapacitante.
Ringraziamo Babsi Jones per "averci provato", e anche per aver "fallito". La sfera pubblica ha bisogno di "fallimenti" come questo. Ciascuno di noi può imparare da questo conflitto tra dubbio e vendetta, dispiegato sulle pagine in tutta la sua virulenza. Ce ne fossero di più, di libri così. Potesse ogni menzogna che ci viene ammannita produrre tentativi come questo. Potesse un simile coraggio essere moneta corrente, moneta buona che scaccia la cattiva. [WM1]




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Michele Vaccari, Italian Fiction, ISBN, 2007, pp. 240, € 13

La reginetta di Vigasio (ridente paesino nella nostra bella provincia nordestina) è una cosplayer (una impersonatrice di eroi dei manga) piuttosto assorbita e ossessionata dal ruolo. Vive evidenti conflitti coi genitori, nel senso che li manipola a piacimento, ma con un senso di noia profonda. Così quando viene "rapita" da due hardcore warriors in pieno "effetto", reduci da una serata di droghe e techno, sembra che nuove possibilità si aprano. Forse qualcosa di simile alla vita reale, addirittura. Più che un rapimento, la vicenda si trasforma in una fuga in giro per l'Europa alla ricerca di un fantomatico Rave Party "perfetto".
Sulle tracce dei fuggitivi, uno dei più improbabili eroi messo sulla pagina negli ultimi anni.
Il merito maggiore di questo romanzo è quello di organizzare un gioco di specchi che nasconde la durezza della realtà utilizzando la cifra del grottesco, dell'infantile, del trash. La scelta poetica di fondo è interessante: parlare della provincia italiana, di quella ricca, è in un certo senso muoversi sulla linea di confine quantomai labile tra tempo reale e recentissimo passato, quella forma di realtà organizzata in discorso che è appena sparita dalle headline emergenziali dei media.
Questa scelta consente di parlare con una distanza relativa inapplicabile al tempo reale in senso stretto.
Le ossessioni dei personaggi, tutti rigorosamente bidimensionali, appartengono così al recentissimo passato, è come l'ombra distante pochi fotogrammi del tempo che vediamo scorrere ora: impersonatori di manga, gabber, nordestini rinchiusi in vite sazie e disperate, oppure personaggi che prendono forma a partire dal passato italico più remoto - l'intero lavoro è un inno al provincialismo, all'idiosincrasia nazionale, un compianto paradossale, cinico e partecipato, sulle spoglie di una vita di relazione trascorsa in cui i rapporti tra persone non erano tutti strumentali, in cui c'era spazio possibile per un cambiamento, fosse pure quello di portare vestiti alla moda londinese o cantare beat in italiano con l'accento inglese.
E' così che Italian Fiction prende il lettore attento, con un senso di nausea ridicola, con la cifra della farsa che vira in tragedia così aderente allo spettacolo quotidiano del paese. E' come se venisse individuata una microfisica dello sfacelo, è come se le vicende e i caratteri individuali fossero cifra, frattale di un disastro più vasto, che origina dalle vite dei personaggi come un'onda sismica. [WM5]




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Bruce Springsteen, Come un killer sotto il sole, a cura di Leonardo Colombati, Sironi, pp. 623, € 24

Quello curato (o meglio, scritto) da Leonardo Colombati non è il primo libro dedicato ai testi e alla poetica di Bruce Springsteen, ma è certo il primo romanzo ottenuto montando quei testi e commentando quella poetica. Come un killer sotto il sole ha infatti un sottotitolo esplicito: "Il grande romanzo americano (1972-2007)". Frase che ha più significati. Messe in sequenza, le lyrics di Springsteen formano una narrazione di grande respiro, una saga dai personaggi e temi ricorrenti, descritti e affrontati da molteplici angolazioni. Leggiamo i testi, e il Great American Novel - sogno di ogni generazione di autori americani - prende forma sotto i nostri occhi, e - grande sorpresa! - non solo è scritto in versi, ma è una "lettera rubata", perché questo romanzo lo abbiamo avuto sotto gli occhi - anzi, nelle orecchie - per tutti questi anni e non l'avevamo riconosciuto. Lo abbiamo visto uscire a puntate. Lo abbiamo scoperto e ascoltato in ordine casuale, sovente procedendo à rebours. Abbiamo visto milioni di persone appassionarsi alle storie di Johnny 99, di Raney Williams, degli operai siderurgici di Youngstown, e noi stessi siamo entrati in quel mondo, abbiamo chiesto a Rosalita di uscire con noi, ci siamo chiusi nella camera di Candy, siamo arrivati in ritardo per l'ultimo saluto a Bobby Jean...
Faulkner. Steinbeck. Dos Passos. Kerouac. Flannery O' Connor. Sono tra i numi tutelari di Springsteen tirati in ballo in interviste e conversazioni. Colombati dev'essere partito da lì, e non si è limitato a tradurre i testi e metterli in una particolare sequenza.
No, ha fatto molto di più, e la sua è un'operazione letteraria. Il serpente d'asfalto attacca a srotolarsi e allungarsi dopo un saggio introduttivo di oltre cento pagine: ciascuna canzone è presentata, annotata, sviscerata e messa in rapporto dialogico con tutte le altre. Possiamo seguire i riferimenti incrociati, le evoluzioni e variazioni, le riprese di un tema a distanza di anni, l'ascesa e il declino di un personaggio, di una località, di un rapporto tra persone. Dopo trecento pagine di epopea con testo a fronte, ecco un lungo montaggio di aneddoti raccontati da Springsteen in interviste o introduzioni parlate di canzoni, dal palco, in quei momenti in cui "il Boss" si trasforma in stand-up comedian.
Questa sezione del libro è a tutti gli effetti un'autobiografia di Springsteen dall'infanzia all'uscita di Magic, l'unica mai pubblicata, ed esiste solo in italiano! Colombati l'ha composta raccogliendo spizzichi, bocconi, battute, con un'abnegazione e una metodicità che nei libri sul rock si riscontrano di rado. Seguono schede e glosse a tutte le canzoni presenti nel libro, una cronologia dettagliata della carriera di Springsteen e, giunti in fondo, un epilogo di Colombati in forma di "ringraziamenti", che in realtà è un prologo messo alla fine.
Terminata la lettura, si scopre un altro significato del sottotitolo. Quello di Colombati su Springsteen è stato a molti effetti lavoro autoriale: lo scrittore romano ha interrogato i testi del suo cantante preferito in modi diversi da quelli di un filologo, modi che solo uno scrittore/narratore potrebbe concepire. Usando Springsteen come materiale per il suo collage alla Kurt Schwitters, l'autore di Perceber e Rio ha finito per scrivere il proprio inatteso, paradossale Great American Novel. Vale a dire: la scansione quadri-dimensionale del canzoniere di Springsteen al fine di "schiuderlo" in quanto romanzo sui generis diviene essa stessa romanzo sui generis. Non c'è da parte mia alcuna malignità nel definire Come un killer sotto il sole il miglior romanzo di Colombati. Con buona pace tanto dei pasdaran della forma-romanzo quanto dei suoi detrattori.
Unica pecca di questa prima edizione: c'è una notevole quantità di refusi. Verranno senz'altro corretti nelle ristampe. [WM1]

[Apparso su L'Unità il 13 dicembre 2007]

Da visitare:
killerinthesun.com




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Steven Blush, American Punk Hardcore, traduzione di Giancarlo Carlotti, ShaKe, pp. 464, € 17

Ho letto questo libro l'estate scorsa, vacanza in Dalmazia, perplessa contemplazione della Croazia, paese in cui tornavo per la terza volta in pochi anni, un posto dove la rockstar più famosa (Marko Perkovic Thompson, metti da noi un Ligabue) va sul palco indossando simboli ustascia e saluta a braccio teso, nel tripudio di decine di migliaia di spettatori, che a loro volta hanno in testa la bustina nera degli ustascia e addosso spille e spillette con svastiche e slogan ultra-nazionalisti. Se qualche voce isolata protesta o semplicemente borbotta, trattasi ovviamente di complotto - epiteto valido per ogni occasione - "anti-croato". Complotto, ehm, ebraico. Poi dicono che Babsi Jones esagera.
In quei giorni leggevo American Punk Hardcore nell'edizione originale americana (che si chiama soltanto American Hardcore), la quale ha una copertina un pelino più respingente di quella italiana: Danny Spira dei Wasted Youth sbraita nel microfono mentre sangue e saliva gli scendono dalla bocca e smerdano collo e petto. Ogni giorno mia figlia, che all'epoca aveva due anni e tre mesi, montava su una sedia, indicava il libro sul tavolo e con una smorfia di disapprovazione dichiarava: "Fa chifo quetto. No piace!", e come darle torto? Quella copertina è uno statement, è il libro che ti dice: "Sai quanto me ne fotte a me se mi compri o no?!". Mooolto punk. La ShaKe deve averlo percepito come un problema e ha optato per uno scatto d'epoca del fotogenicissimo Henry Rollins, che piace alle fighe (ma soprattutto ai fr... Ops!) mentre Danny Spira mah, chi lo sa. Di certo non piace a mia figlia.
Il sottotitolo è "Una storia tribale", perché qui si narra la storia, anzi, si narrano le mille e mille storie del movimento HC (periodo 1980-1986) suddividendole in epopee locali, grandi e piccine. La parte del leone, ovviamente, la fanno la scena di Los Angeles e sobborghi (i capostipiti Black Flag, i Minutemen etc.), quella di Washington DC (Minor Threat & Co., ma anche Bad Brains) e, in minor misura, quella di New York (più ambigua ed esposta a processi di "fascistizzazione": partono anche da lì certi rivoli che diverranno acquitrino a Zagabria). Tuttavia, non c'è scena microscopica cui non venga dedicato almeno un paragrafo. Se in un posto due band di ragazzini incisero un demo, beh, qui se ne parla di sicuro, tanto che ci sarebbe stato bene l'indice per codici di avviamento postale, tipo:

[...]
02909. Vicious Circle, Rash of Stabbings, Idle Rich, Positive Outlook
45401. Toxic Reasons
83701. Septic Death, Blind Acceptance, Dissident Militia *
[...]

Steven Blush, vecchio fan ed ex-organizzatore di concerti, si è fatto un culo quadro per mettere insieme questo libro: ha intervistato decine di persone, scartabellato tra quintali di fanzines, riascoltato cassette e vinili e recuperato locandine la cui tiratura originale a fatica avrà superato le venti copie.
HR, un fallito misogino etcAmerican Punk Hardcore
ha una struttura "ibrida", c'è sì il montaggio di brani di interviste come in Please Kill Me (caposaldo del genere "storia orale sul punk", quello a cui mi sono ispirato per il mio New Thing), o come in We Got The Neutron Bomb, ma l'autore non rinuncia affatto a intervenire in prima persona, anzi! Si infila tra le testimonianze e fa il controcanto (le sue parti sono in grassetto, almeno nell'edizione originale). Eccolo, compare all'improvviso e sproloquia, si scatena, trancia giudizi su questo o quel personaggio. Un esempio: H.R., il cantante dei Bad Brains (nella foto), è "uno dei più grandi frontmen del rock, ma è anche uno dei più grandi cazzoni, di quelli che non vorresti mai conoscere: un fallito misogino, omofobo, razzista e malato di mente che ha deluso praticamente chiunque abbia avuto a che fare con lui. In diverse occasioni ha inculato i suoi stessi compagni di band".
Poi dicono che non è neutrale Wikipedia.
Il capitolo finale è "Into The Unknown", poche pagine di "bilancio", epigrammi su quell'esperienza di autoproduzione, autogestione e comunità reticolare. Quello che ci ha lasciato, quello che ancora importa.
Gli anni che accompagnano il passaggio di millennio (la prima edizione del libro risale al 2001) sono la Grande Parodia, il "supermarket degli stili": nel rock s'impone "una versione dell'hardcore annacquata e pedissequa", e la ripetizione seriale dell'immagine punk smussa ogni spigolo rimasto. Dice l'artista grafico Winston Smith: "Se metti un punto esclamativo dopo ogni singola parola, il punto esclamativo a fine frase non ha più significato". Controprova all'italiana: Se! Non! Cambie-rà! Lotta! Du-ra! Sarà! Zero impatto, minaccia ormai vacua, significato perso per strada. La merda non cambia granché, lotta dura se ne vede poca.
Dice Mike Ness dei Social Distorsion: "Quando entro in un posto e tutti quanti hanno capelli sparati e portafogli agganciato a una catena, mi viene da pensare: io questo lo facevo per essere diverso. C'è gente che pensa di averla inventata, quella roba, ed è una cosa che non sopporto : ehi, io ho preso le botte perché tu potessi farti i capelli blu, o quel cazzo che vuoi. I diciassettenni di oggi hanno tutto il diritto di fare le cose che facevo io, ma qualcuno glielo dica, che non è nulla di nuovo".
E Pat Dubar degli Uniform Choice: "Se oggi vai a un concerto, non devi aver paura che quaranta sbirri facciano irruzione coi lacrimogeni e ti spacchino di mazzate. L'hardcore non era fico, anzi, era talmente anti-fico da essere rischioso. Eravamo pochi e sparpagliati, quindi bersagli perfetti."
Mike Watt, ex-bassista dei Minutemen (oggi suona coi rinati Stooges) riassume il senso di quell'attività: "L'hardcore era: 'Vaffanculo, faremo a modo nostro'. Aveva a che fare con la responsabilità. Quelli dell'hardcore a un certo punto decisero di fare da soli... ed è come l'abbiamo fatto."
E per questo noi, generazione dei fratelli minori, non li ringrazieremo mai abbastanza. [WM1]

* Clicca sui codici per sapere a che città corrispondono.


LEGGI ANCHE, SE TI VA:
WM1 & WM5, Oi! The Cockney Kids Are Innocent!
WM1 & WM5, Recensione di Lumi di punk di Marco Philopat




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Andrea Camilleri, Maruzza Musumeci, Sellerio, 2007, pp. 140, € 10
+ Gianni Bonina, Il carico da undici, Barbera, 2007, pp. 618, € 15,90
Andrea Camilleri, Le pecore e il pastore, Sellerio, 2007, pp.127, € 10
Andrea Camilleri, Voi non sapete, Mondadori, 2007, € 212, € 17


Qualche sera fa leggevo il gigantico saggio su Camilleri scritto da Gianni Bonina, Il carico da undici. Le carte di Andrea Camilleri, acquisto obbligato per chiunque sia interessato all'opera dell'autore di Porto Empedocle. La sezione centrale del libro è occupata da una lunga, lunghissima intervista a Camilleri. A un certo punto si giunge a parlare de La presa di Macallè, e il maestro dice:
"Qualcuno l'ha preso per un romanzetto erotico, anzi c'è stato chi l'ha addirittura classificato come pornografico. Una cantonata inspiegabile o troppo facilmente spiegabile. Ne sono rimasto, lo confesso, profondamente offeso. Per fortuna altri, sebbene pochi, l'hanno letto nel modo giusto: i Wu Ming, Grimaldi..." (p. 385)
E' una grossa soddisfazione vedere che Camilleri ritiene il nostro il "modo giusto" di leggere uno dei suoi libri più importanti, forse il meno compreso (o compreso fin troppo bene e dunque scuncicato).
Camilleri è un autore necessario. Presto o tardi, chiunque in Italia si occupi di narrazione con serietà (ergo "non-seriosità") dovrà fare i conti con quanto Camilleri ha realizzato: dedicarsi alla sperimentazione (anche dura) nella lingua e nella struttura narrativa ottenendo però un enorme, quasi osceno, priapesco successo di vendite, per giunta trattando temi incomodi, politicamente incandescenti.
Sono d'accordo con Bonina: nello sperimentare, Camilleri ("a stare ai risultati utili") è andato "oltre il Gruppo 63". Di fronte al paragone - che può stupire, anzi, sicuramente stupirà chi non abbia presente il corpus delle opere camilleriane - il maestro si schermisce tanticchia (lo fa spesso, lungo il corso dell'intervista) e precisa:
"Piano, piano. Io ai lettori ci tengo e non faccio niente che non capiscano. Il massimo mio azzardo - e sapevo che avrebbe avuto reazioni negative - è stato La presa di Macallè, ma riguardava i contenuti e non il linguaggio" (p. 460).
Affermazione curiosa, da parte di uno scrittore che ne La mossa del cavallo scatena flussi di coscienza in un genovese impervio e stretto, senza fornire al lettore il minimo appiglio; ne Il re di Girgenti crea impasti lessicali siculo-ispanici e seicenteschi; ne La scomparsa di Patò trascina grafica e impaginazione all'interno della sintassi del testo, come elementi passibili di analisi logica; in Privo di titolo tratta alcuni capitoli come fossero filmati visti alla moviola; infine, proprio ne La presa di Macallè, percuote e catamina l'italo-agrigentino, lo arrisacca fino a renderlo quasi inintelligibile. Quasi.
Da notare che non ho nominato nessuno dei romanzi con protagonista Montalbano. Ritengo che i libri di Camilleri più interessanti siano quelli esterni alla serie. Montalbano, col suo grande appeal commerciale, svolge il compito di garante della pubblicazione degli altri libri, che a loro volta entrano in classifica, e a buon diritto. Lo ha già detto qualcuno: con Montalbano Camilleri fa solo sesso, cose vastase; con gli altri libri è vero amore.
Il 2007 è stato un anno di intensa prisenza camilleriana nelle top charts e nelle polemiche. Oltre ai tre libri di cui sto per parlare - e al già citato lavoro critico di Bonina - sono usciti il Montalbano de La pista di sabbia, l'apocrifo caravaggesco Il colore del sole e un'antologia di Pirandello a cura di. Un'offensiva militare su larga scala con cinque (sei) libri che più diversi non potrebbero essere. Un'impresa che nessun altro autore sarebbe libero non dico di tentare, ma nemmeno di pensare. Noialtri WM nel 2008 avremo quattro uscite in libreria, ma al confronto di Camilleri siam poveri dilettanti.
Copertina Le pecore il pastore di Andrea Camilleri Nel marzo scorso il "saggio narrato" Le pecore e il pastore ha mandato su tutte le furie Santa Romana Chiesa, piazzando la lente d'ingrandimento sopra un certo fatterello, rivelando che appena ieri (1945) membri del clero regolare di questo paese organizzarono un sacrificio umano, nel caso specifico un suicidio collettivo. Le suore di un convento di clausura chiesero e credettero di ottenere da Dio uno scambio: anziché prendersi la vita di un VIP della gerarchia ecclesiastica, il Padreterno fu persuaso ad "accontentarsi" delle vite di dieci monache, assistite fino alla morte in un digiuno a oltranza, niente cibo né acqua. Il personaggio da salvare era il vescovo di Agrigento Giovanni Battista Peruzzo, in agonia dopo un attentato (e ignaro dell'iniziativa delle suore).
Quante anime di femmine servono per il controvalore di quella di un maschio? Il rapporto è di dieci a uno, come nelle rappresaglie naziste. L'orrido episodio incapsula e illumina l'ipocrisia, l'ignoranza superstiziosa, la tracotanza ideologica e il cancrenoso sessismo del clericalismo di ieri e di oggi. Camilleri ha scritto il libro nei giorni della persecuzione congiunta Stato/Chiesa nei confronti di Piergiorgio Welby, con tutte le ramanzine sulla "santità della vita", sul fatto che "nessuno è padrone della propria morte", sul "laicismo che pretende di sostituirsi a Dio" etc.
Chiaro, un libro da solo non cambia nulla, ma è stato bello vedere i ratzisti aggiarniare, scantarsi, sdunare e acchianari mura lisci pur di negare l'accaduto.
Pochi mesi più tardi, lo storico Sergio Luzzatto ha mandato in libreria la sua inchiesta storica su Padre Pio (a.k.a. l'uomo dell'acido fenico) e lo spettacolino di cabaret inquisitorio si è trasformato in una Woodstock di isteria, sputazza e minacce di morte.
Bisogna continuare, infilare non un dito ma entrambe le mani nelle piaghe della devastazione culturale operata in Italia da stregoni, baciapile e comitati di catto-affari. La protervia di costoro ha da tempo ri-superato ogni livello di guardia.
Copertina Voi non sapete di Andrea Camilleri Dopo l'estate è arrivato in libreria Voi non sapete, vocabolario ragionato dei pizzini di Bernardo Provenzano.
Camilleri ha già dimostrato diverse volte di saper trarre il meglio dall'ordine alfabetico (cfr. il glossario in appendice a Un filo di fumo; la raccolta di proverbi Il gioco della mosca; il dizionario di aneddoti teatrali Le parole raccontate). Tra epifanie, sparizioni, allusioni stratificate, morti finte, malattie vere, degenze clandestine e costruzioni sintattiche di ultra-avanguardia (in realtà di estrema retroguardia ma è la stessa cosa, basta invertire la direzione), in Voi non sapete Camilleri ricostruisce il mondo di Provenzano, contesto socio-linguistico in cui l'esortazione "Ditemi se andiamo incontro a un Santo Natale" ha un obliquo significato di minaccia.
Quella dei "portapizzini" è una rete di comunicazione intricata e sofisticata, intercettabile a fatica, inoltre ciascun biglietto da o verso Provenzano è linkato per vie dirette o traverse a tutti gli altri, è un grande ipertesto cartaceo, un wiki mafioso i cui autori sono nascosti dietro cifre ancora misteriose. Camilleri riprende le intuizioni e analisi di Palazzolo e Prestipino, autori del saggio Il codice Provenzano (Laterza, 2007), e le rielabora inserendo arregordi personali, piccole arguzie e stratagemmi da grande divulgatore e narratore popolare. Preso da solo, Voi non sapete non è certo uno dei Camilleri imprescindibili, eppure nel contesto della sua opera svolge un ruolo preciso e ha una collocazione meno periferica di quel che sembra.
Nemmeno qui mancano stoccate al clero: Camilleri ricorda che il cardinale Ernesto Ruffini, arcivescovo di Palermo dal 1946 al 1967, sostenne più volte che la mafia non esisteva ed era soltanto una malvagia invenzione dei comunisti. Compaiono macari preti e frati: confessano i latitanti e talora li nascondono, coprono le fughe, cancellano le tracce. Per approfondimenti rimando alle voci "Gesù Cristo", "Preti" e "Religiosità".
Copertina Il carico da undici di Gianni Bonina Con Maruzza Musumeci, l'ex-regista teatrale e televisivo propone ai lettori una delle sue operazioni più estreme sotto gli aspetti stilistico, linguistico e macari tematico, un convinto sfondamento nel visionario, nel mitologico e nel soprannaturale.
In una lingua agrigentina carica di arcaismi, Camilleri racconta la storia di Gnazio Manisco, emigrante a New York che torna a Vigàta a fine Ottocento e compra un terreno, lingua di terra che si protende nel mare e si chiama Contrada Ninfa. Lì si mette di buona lena: rende la terra coltivabile, compra animali e, davanti a un ulivo millenario, si costruisce d'intuito una casa che sarà per lunghi anni un work in progress, fatta di cammare cubiche di tri metri per tri accostate o sovrapposte l'una all'altra. La casa dà le spalle al mare, e anche gli arboli del campo ammucciano la vista del mare. Il mare è a pochi metri ma non si vede. Perfetto, perché Gnazio è talassofobico, lo scanta l'acqua salata, e anche quando ha attraversato l'Atlantico - andata e ritorno - non è mai uscito da sottocoperta.
Viene il giorno che, passati da un pezzo i quaranta, Gnazio decide di prender moglie. Poiché non canosce fimmine, si rivolge alla Gna' Pina, guaritrice che ambula con un sacco pieno d'erbe e rimedi naturali. Grazie a questa mezzanìa, Gnazio canoscerà la bellissima Maruzza Musumeci e la sua inquietante bisnonna, Minica, anzianissima eppure atletica e dalla voce arrapante.
Maruzza e Minica hanno sembianza di donne ma sono creature anfibie, il loro lignaggio è quello delle sirene che incantarono Ulisse, tra loro parlano con versi dell'Odissea. Per perpetuare la loro specie, le sirene scelgono come sposi uomini che non vadano per mare, non abbiano interesse per il mare, non impazziscano sentendo il loro canto. Uomini che, come Gnazio, siano l'esatto contrario di Ulisse.
Gnazio non canoscerà mai fino in fondo i segreti di Maruzza, né gli interessa scoprirli. Accetta la sua donna per quel che è, con tutte le sue strane abitudini, perché gli basta il grande amore che li lega. La coppia troverà un modus vivendi e avrà dei figli. Figli che...
Libro piccolo di grande poesia, Maruzza Musumeci abita un loco che "non appartenni né alla terra né al mari, è il loco indove ponno capitare tanto le cose che capitano 'n terra quanto le cose che capitano 'n mari."
L'ho letto assittato su una panchina degli Upper Barrakka Gardens, La Valletta, Malta, un'altra lingua di terra protesa nel mare, un azzurro pomeriggio di dicembre, la copertina del libro rivolta all'Europa.
Subito di fronte a me, la distesa del Mediterraneo.
Contrada Ninfa era là, cento miglia a nord-ovest, appena oltre l'orizzonte.
Caravaggio aveva coperto la distanza in dieci giorni, quattrocent'anni prima.
Ma questo è già un altro libro di Camilleri, e non l'ho ancora letto. [WM1]

LEGGI ANCHE, SE TI VA:
WM, Recensione de La presa di Macallè
WM, Recensione di Privo di titolo




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Brian Evenson, La colpa, traduzione di Enrico Monti, ISBN, 2007, pp. 288, € 15

E' molto difficile parlare di questo libro senza rovinare ai lettori il piacere della scoperta. Non perché la trama sia un susseguirsi di colpi di scena, un meccanismo perfetto che non bisogna svelare. Il fatto è che il racconto cambia pelle almeno cinque volte nel corso di 280 pagine e ogni volta ti ritrovi a pensare che il romanzo non è più come lo immaginavi, che le tue aspettative erano sbagliate e che dovrai fare i conti con qualcosa di diverso. Eppure, mentre superi lo choc, capisci che il racconto è sempre lo stesso, l'autore non ti ha ingannato, non sei vittima di un gioco di prestigio, messo in piedi per farti restare a bocca aperta e poi tutti a casa. Quando il protagonista è un adolescente come Rudd Theurer, la narrazione non può che essere mutante, la sua coerenza sta nel cambiamento, nel percorso di crescita contorto e allucinato di questo ragazzo dello Utah.
In principio, La Colpa è il romanzo di formazione di uno sfigato. Rudd è orfano di padre, non ha amici, sua madre lo opprime a colpi di buon senso e Libro di Mormon. E' timido, introverso e ha una spiccata attitudine per le ossessioni. Una frase, anche la più banale, può scavargli in testa per giorni.
Quando Rudd scopre di avere un fratellastro, Lael Korth, comincia a frequentarlo in maniera compulsiva, sebbene l'altro non gli dimostri la stessa dedizione e ammetta di essere suo fratello solo in maniera strumentale, per ottenere favori e complicità. Già qui il racconto ha fatto la prima svolta. Le disavventure sociali di Rudd passano in secondo piano e il suo rapporto ossessivo con Lael diventa il motore della narrazione. La colpa si trasforma in un romanzo sull'amicizia velenosa tra un ragazzo debole e affamato di conferme e un altro che si diverte a dominarlo.
Lael è un personaggio enigmatico, sua madre lo chiama Lyle e di lui non sappiamo nulla, se non quello che accade negli incontri con il (presunto) fratellastro. Rudd, al contrario, esiste anche al di fuori della coppia, sebbene in maniera sempre più faticosa, finché all'improvviso sembra trovarsi a un passo dal primo successo scolastico della sua carriera. Nel corso di un'attività didattica, sulle pagine del New York Times dei primi del Novecento, scopre una serie di articoli a proposito dell'assassinio di Anna Pulitzer. Accusato del delitto, un certo William Hooper Young, di religione mormone. Secondo una pista d'indagine, l'omicidio sarebbe da collegare al "sacrificio di sangue", un rito misterioso del quale i seguaci di Mormon hanno sempre negato l'esistenza. Rudd si lascia catturare dalla vicenda, la studia nei dettagli, la sogna. Coinvolge nella ricerca anche Lael, e per diverse pagine La Colpa cambia ancora aspetto, forse per la prima volta in maniera brusca e non del tutto riuscita, diventando un poliziesco sul caso Hooper Young.
Risultato: la professoressa chiede a Rudd di cambiare soggetto. Lui obbedisce e da quel momento comincia ad avere strane amnesie, vuoti di memoria, la sensazione di uscire dal proprio corpo.
Poi, quando le ossessioni di Rudd sembrano raggiungere l'apice, il romanzo scarta ancora. E' la seconda parte: cambia il punto di vista e la protagonista diventa Lyndi, una diciottenne appena investita da una terribile tragedia familiare. Sola al mondo, Lyndi conoscerà Rudd e inizierà a frequentarlo, fino alla decisione di sposarsi. In queste pagine La Colpa è il racconto implacabile di come una donna possa legarsi a un uomo per una sorta di crociata, contro i suoi fantasmi e contro la propria solitudine.
A proposito di fantasmi, Lael, Hooper Young e il suo complice Elling, sembrano scomparsi, dimenticati, ma la cerimonia nuziale nel tempio mormone li riporta in vita. Insieme a loro, emerge qui in maniera dirompente l'indagine filosofica che percorre tutto il libro: che legame esiste tra religione e violenza, tra fede e ossessione? Evenson risponde alla domanda riferendosi al culto che meglio conosce, per averlo professato, e descrive alcuni particolari del rito mormone: segni e simboli all'incrocio tra massoneria, cristianesimo e occultismo, considerati sacri dai praticanti, che giurano di non rivelarli mai, nemmeno sotto minaccia di morte.
Da questi gesti, intrisi di sangue e vendetta, si scatenano le ultime, allucinate follie di Rudd Theurer. E' la terza parte del romanzo, dove La colpa si trasforma in incubo. Un incubo alla Stephen King, talmente visionario e allo stesso tempo credibile da lasciare inquieti e nervosi oltre l'ultima pagina. [WM2]




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Manolo Morlacchi, La fuga in avanti, Agenzia X, pp.216, € 15

E' difficile recensire La fuga in avanti di Manolo Morlacchi. Come una torta appena sfornata, questo libro andrebbe lasciato a raffreddare sul davanzale. Chi intende parlarne in modo equanime deve avere la volontà e la forza di riempire certi buchi, ed è fatica improba mantenere una distanza senza cedere alla tentazione della ripulsa. La priorità è duplice: criticare il libro per quello che è, non è o sarebbe potuto essere, senza mancare di rispetto alla carne e al sangue che lo formano.
Insomma, cos'è questo libro? E' una testimonianza di amore filiale e nipotile. Ed è un contenitore di microstorie della Milano operaia e antifascista, dagli albori del socialismo a poco fa, passando per il ventennio, la ricostruzione, il boom e la bufera degli anni Settanta.
Appunto, i Settanta. La fuga in avanti è qualcosa di "sbagliato", che si colloca sul "lato cattivo": il Lessico famigliare di un figlio e nipote di brigatisti. Un figlio che ha amato i propri genitori e, dopo la loro morte, li ringrazia per lo "splendido clima" (!) in cui ha trascorso l'infanzia. Un figlio che non descrive "demoni" alla Stavrogin, bensì mamma, papà e zii, esseri umani coi loro affetti e sorrisi, le loro passioni, le forze e le debolezze. E' proprio questo a rendere il libro... oltraggioso, inaffogabile nel pour parler di un'epoca dominata da falsi pacificatori.
Manolo Morlacchi era bambino quando suo padre Pierino entrò nel circuito delle carceri speciali. Pierino veniva da una delle più note famiglie comuniste del quartiere Giambellino, e suo figlio ne approfitta per narrare la saga, le scelte, le avventure e disavventure di tre generazioni di militanti, sullo sfondo di una Milano proletaria che non esiste (quasi) più.
Il libro di un familiare di chi scelse la lotta armata è merce rara, o meglio: è raro perché non è abbastanza merce. Sono altri i punti di vista vendibili e acquistabili, abbonda la pubblicistica di/su ex-terroristi spettacolarizzati, che si rifanno vivi a parlare ex cathedra, magari dopo un risciacquo nel "sociale" targato CL. Sono narrazioni fatte su misura per la stagione del rimorso senza ripensamento, parenti strette di quei saggi su sangue dei vinti e cuori neri in cui l'antifascismo militante è ridotto a nihilismo e Grand Guignol.
La fuga in avanti, con tutti i suoi limiti e dislivelli, ha il pregio di non correre incontro ad alcuna moda. Di più: Morlacchi scrive il libro più inattuale, più in controtendenza che si possa immaginare. Ci vuole coraggio, anzi, incoscienza, a far uscire un'opera del genere. Eppure, persino chi all'epoca combattè la lotta armata con ogni mezzo (anche malsano, e sarebbe ora di riflettere sul lascito della legislazione d'emergenza) potrebbe trarre beneficio da alcune pagine di questo libro, perché è importante ri-umanizzare il nemico e non rimanere prigionieri di un rancore che spegne l'anima (come nel romanzo di Carlotto L'oscura immensità della morte).
Limiti e dislivelli, dicevo. Per essere davvero un libro riuscito, La fuga in avanti avrebbe necessitato di un maggior controllo della materia e della scrittura, ma non è cosa che si possa chiedere a una persona tanto coinvolta emotivamente. Certo, con un po' di respiro in più e qualche reticenza in meno sarebbe stato un romanzo popolare anomalo e inconciliante... ma allora avrebbe dovuto scriverlo qualcun altro, ed è chiaro che nessun altro avrebbe potuto scriverlo. Quel che resta è vivida memorialistica da un'angolazione inusuale, con quaranta pagine di fotografie ad arricchire il racconto.
Ho appena usato la parola "reticenza" e intendo spiegare perché. Ci sono troppi non-detti. L'autore rimane sostanzialmente acritico nei confronti delle Brigate Rosse, o quantomeno del loro "nucleo storico". In nessun punto Morlacchi aggiorna o corregge le proprie impressioni d'infanzia: "I compagni del nucleo storico. Guardavo a loro con gli occhi di un bambino che osserva i propri eroi che lottano contro le forze del male... Mio padre e i suoi compagni erano uomini giusti, capaci di intelligenza, ironia e grande altruismo; avevano tutti i pregi che mi era così difficile trovare nel mondo 'libero'."
Del resto, pure in ambienti insospettabili sopravvive una visione "romantica" delle prime BR: il passaggio dall'epoca Curcio-Cagol al "militarismo" di Mario Moretti è visto come una coupure, una rottura di continuità, ma troppi elementi vengono rimossi dal quadretto alla Robin Hood. Dal carcere, a partire dal 1980, il "nucleo storico" finì per appoggiare la linea iper-sanguinaria di Senzani e del partito-guerriglia, "patrocinando" azioni ripugnanti e insensate. Una su tutte: l'esecuzione con colpo alla nuca delle guardie giurate Sebastiano D'Alleo e Antonio Pedio, a Torino, al solo fine di far trovare sui corpi un comunicato contro una pentita (Natalia Ligas) che non era nemmeno tale.
L'incaglio in una palude di cadaveri non fu conseguenza di uno sbandamento, di un'uscita di carreggiata: è una possibilità insita in qualunque culto dell'avanguardia separata dalle masse. Quasi cent'anni prima della nascita delle BR, Marx ed Engels avevano condannato duramente la fascinazione per le società segrete e dichiarato che, almeno in Europa, la rivoluzione non sarebbe stata "affare per massoni". Forse, nei loro incubi, i due capostipiti avevano visto il videotape della condanna a morte di Roberto Peci, dichiarato traditore su base biologica - per consanguineità con un pentito - dopo un "processo" senza difesa. Pornografia della violenza degradante, reality show di faida mafiosa, il tutto accompagnato dall'Internazionale, inno mai tanto svilito e insozzato, nemmeno nei giorni delle purghe staliniane. Quel singolo episodio è un dado super-concentrato, contiene un minestrone di tutti gli errori del movimento comunista.
Riconoscere l'orrore anche dentro l'amore non è "fuga all'indietro", né significa abiurare il conflitto. Al contrario, è il solo modo per tornare a pensarlo fecondo. [WM1]

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