Nandropausa# 7 - Libri letti e consigliati da Wu Ming - 18 settembre 2004

0. Preambolo [WM]
1. Valerio Evangelisti, Noi saremo tutto [WM1]
2. Sergio Endrigo, Quanto mi dai se mi sparo? [WM1]
3. Serge Quadruppani, La notte di Babbo Natale [WM1]
4. Enzo Fileno Carabba, Pessimi segnali [WM2]
5. Y.B., Allah Superstar [WM1]
6. Marco Philopat, I viaggi di Mel [WM1]
7. Giancarlo De Cataldo, Il padre e lo straniero [WM1]
8. Kem Nunn, Pomona Queen [WM2]
9. Segnalazioni in breve: Masterson, Campbell, Pagani, Pispisa[WM2]
10. Commenti dei giapsters ai libri consigliati a giugno
11. Non curarti di chi dice che tutto è finito (il romanzo, la letteratura etc.) [WM2, WM5, WM1]
Puntuale come sempre, ecco il settimo numero di Nandropausa, l'e-zine semestrale dedicata ai nostri consigli di lettura.
Intendiamoci: questa non è né potrà mai essere una panoramica esaustiva su quanto di interessante è stato pubblicato in Italia negli ultimi mesi. Siamo cinque esseri umani che leggono per diletto quando hanno il tempo e la forza di farlo, e il criterio con cui scegliamo che libro leggere è un non-criterio, dipende dai tiramenti di culo del momento.
Su Nandropausa, salvo alcune eccezioni (sassolini tolti dalle scarpe o perplessità da comunicare), segnaliamo libri che ci sono piaciuti davvero. Non abbiamo debiti da pagare (in ogni caso, non è così che li pagheremmo) né dobbiamo 'tenere buono' alcuno.
I libri non sono in ordine di gradimento, questa non è una 'classifica', sono tutti ex aequo.
Su Nandropausa recensiamo solo narrativa, al massimo biografie (se hanno un taglio narrativo).
Non siamo critici letterari né intendiamo diventarlo. I nostri sono [Meyer Lansky:] consigli da amici [/Meyer Lansky]
Rare eccezioni a parte, su Nandropausa commentiamo solo libri in catalogo e non introvabili.
In coda, alcuni commenti pervenutici sui libri segnalati nel numero scorso, e un'intervista che tre di noi hanno rilasciato via e-mail alla giornalista Giovanna Zucconi, a proposito di chi dice che oggi non c'è più la creatività di una volta, che il romanzo è finito, che la letteratura italiana è morta con Calvino etc. Fregnacce, insomma, e come tali le abbiam trattate. Ringraziamo Giovanna Zucconi per aver pensato a noi e aver riportato correttamente le nostre risposte.

Valerio Evangelisti, Noi saremo tutto, Strade blu Mondadori 2004, pagg. 430, € 15,50

Fa digrignare i denti e scartavetra le gengive, il nuovo romanzo di Valerio Evangelisti, Noi saremo tutto (Strade Blu Mondadori, pp.300, € 15). Ti ci avventi sopra, impasto di carne e piombo e frammenti d'ossa, e lo finisci con la bocca piena di sangue.
Noi saremo tutto racconta la vita e la sopravvivenza, l'orgoglio di intere comunità ma anche l'abiezione, il tradimento, la Cartagine distrutta del movimento operaio americano.
Dopo aver spento ogni fuoco di rivolta, gli States brancolano nel buio della loro storia, sotto un cielo di novilunio, in una piana circondata di nulla. Nell'esplorare quelle tenebre è utile fischiettare un ritornello. Per farsi coraggio, ma anche per usarlo a mo' di sonar. Tornano così alle labbra i canti dei wobblies, gli Industrial Workers of the World. Salgono, da pagine ingiallite di libri trovati chissà dove, gli inni del sindacalismo rivoluzionario e le strofe del poeta operaio Joe Hill. Rimbomba, oltre le nebbie del presente, la versione wobbly dell'Internazionale, che culmina nella citazione marxiana: "We have been naught, we shall be all". Non eravamo nulla, saremo tutto.
Evangelisti si è spinto nelle lande della damnatio memoriae, seguendo il persistere e periodico riemergere del mito IWW. Da Seattle a San Francisco a New York e di nuovo a Seattle. Dagli anni Venti agli anni Cinquanta fino agli ultimi giorni del secolo. L'epopea dei sindacati statunitensi, le grandi battaglie per il loro controllo ingaggiate su entrambe le coste da alleanze fluide, reversibili, un "tutti contro tutti" fra stalinisti, sindacati gialli, fascisti, gangster e governo federale.
La ricostruzione di quei conflitti assume una consistenza colloidale, si nuota nella poltiglia di vite triturate.
Evangelisti, prima di fare il romanziere, era uno storico del movimento operaio e socialista. Nei "titoli di coda" sciorina la più esoterica delle bibliografie, ma a colpire il lettore "sprovveduto" è soprattutto la non-chalance, l'apparente facilità con cui ricostruisce episodi dimenticati, riportando sul proscenio movimenti sradicati, spazzati via, annichiliti. In Antracite (2003) c'era il grande sciopero dei cow-boys del 1877. Qui c'è Seattle in mano ai soviet (come altro chiamarli?) durante il grande sciopero del '19, e c'è il blocco del porto di San Francisco nel '34, braccio di ferro coi padroni che i comunisti stravinsero (tanto da controllare il porto persino in epoca maccartista) e che cambiò il volto di quella città, ancora oggi la più progressista degli States, coi Verdi al 40%!
Con la medesima disinvoltura, Evangelisti descrive i numerosi, improvvisi cambi di strategia del Partito Comunista di Earl Browder, sezione americana del Komintern: dalla fase estremista della "lotta al socialfascismo" alla politica dei fronti popolari, a cui seguì un mezzo rovesciamento di fronte per via del patto Molotov-Ribbentropp (1939), linea che però, dopo Pearl Harbor e l'invasione tedesca dell'Urss, lasciò il posto a una sorta di "patriottismo americano" interclassista.
Dall'altra parte della barricata c'è gente loschissima, come il giornalista Willard Huntington Wright, meglio noto come S.S. Van Dine, celebre autore di gialli. Evangelisti lo restituisce alla sua figura storica di aristocratico ultra-reazionario, quasi nazistoide.
E che dire dei capi e capetti della mafia newyorkese, dei quali ci vengono offerte esilarate descrizioni? Su tutti resta impresso Willie Moretti, scimunito e sbavante per via della sifilide mal curata.

Anche in Noi saremo tutto c'è il "metallo urlante", come nell'eponima trilogia: grandi ponti d'acciaio ancora in costruzione, mostri sospesi a mezz'aria, cigolanti e fischianti al vento, annunciano una nuova era.
Ma la vera trovata di Evangelisti è stata la scelta del protagonista, Eddie Florio, personaggio laidissimo la cui folle, trentennale avventura si regge su due grandi intuizioni.
La prima è la totale assenza di sim-patia. Eddie (spia e voltagabbana, traditore di tutto e di tutti a cominciare dalla propria famiglia) è privo di qualunque fascino, si muove in uno spazio "inaccessibile" al lettore, che trova tutte le vie sbarrate all'immedesimazione.
La seconda è - come direbbe Eddie - il "potere della figa", il "campo di forza" del femminino. Florio assale e cerca di dominare l'altra metà del cielo, ma un'invisibile barriera lo respinge, e più ci prova più viene respinto, finché l'impatto non lo annienta.
E' una tematica già presente nelle precedenti opere di Evangelisti, ma in questo libro trova pieno sviluppo. Il trasformismo di Florio sarebbe perfettamente calibrato, le sue scelte di campo avverrebbero con un tempismo invidiabile, se egli non fosse ossessionato dalla "figa". L'irriducibile alterità di quest'ultima mette in crisi le sue strategie, e proprio lui, carnefice, stupratore, magnaccia e riduttore in schiavitù, si ritrova vittima, stuprato, sfruttato e schiavo del proprio desiderio. "Più cercava libertà, più trovava nuove schiavitù". Più si affida al celodurismo (in una scena imita i gesti del Duce visti nei cinegiornali), più si sente umiliato. Per tutto il libro è perseguitato da "spiriti", proiezioni del suo desiderio, come Amanda, Benedetta, Lucy... L'arrapamento sconfina in una sorta di "possessione", nell'alienazione da un corpo che pare abitato da spettri.
Impegnato com'è ad affrontare questa condizione, Eddie non può comprendere ciò che accade nel Paese. Certo, partecipa alla lotta contro il comunismo, ma lo fa per tornaconto personale, non perché gli importi davvero.
I "rossi", proprio come il femminino, non li capisce, gli sono radicalmente estranei. Ci è cresciuto in mezzo ma non ne afferra l'etica, e continuerà fino all'ultimo a non coglierne la filosofia.
Filosofia che, a conti fatti, si riduce a un solo monito: "Se te ne stai da solo, sei un povero stronzo e basta".
E' in questa doppia natura il segreto del funzionamento di Noi saremo tutto. E' un grande romanzo epico, ed è la storia di un povero stronzo.
[WM1, apparso su L'Unità il 3/11/2004]
Sergio Endrigo, Quanto mi dai se mi sparo?, Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri, pagg. 174, € 10,00

In una sera dell'estate 2003, entro in un cortile dell'ex-Macello comunale, via Azzogardino, Bologna. L'area dell'ex-Macello, ristrutturata e assegnata all'università e alla Cineteca comunale, si accinge a ospitare le due nuove sale del cinema Lumière, aule, laboratori etc. Mi trovo lì per vedere un concerto, anzi, una lunga improvvisazione a capella di Maggie Nichols, vocalista scozzese, esponente del jazz d'avanguardia nel Regno Unito, già nel Feminist Improvising Group e in vari altri progetti e collettivi.
Sul palco, Maggie (ex-ballerina, tra l'altro) esegue un tip-tap patafisico e comincia a offrire strilli, gargarismi, borbottii, lunghi sospiri raschiati. Sulla sinistra di chi assiste, il cortile è sovrastato da un palazzo. In quello che è probabilmente un appartamento di studenti fuori-sede, al terzo o quarto piano, è in corso una cena, o una festa. Sul balcone campeggia una bandiera della pace, e a dire il vero campeggiano pure alcuni stronzi, che iniziano a disturbare e prendere per i fondelli, fanno il verso a Maggie, ululano, gettano in basso pernacchie. La signora è una vera signora, non si cruccia, sorride, prosegue, addirittura li saluta con la manina. Proseguono anche loro. Il pubblico è incazzato nero, io rimpiango di non aver portato la fionda e le biglie d'acciaio, era proprio l'occasione di incrinare qualche costola.
A un certo punto Maggie fa una pausa e, incredibilmente, se ne esce con parole antiche, dalle profondità della storia: "Avaaaaan-ti popolooooooo, al-la riscooooosssaaa, bandie-rarossaaaaaa, bandie-rarossaaaaa". Che uno sia o meno comunista, è un momento magico, tanto più che termina con sacrosante variazioni: "evviva il socialismo, il comunismo, l'anarchismo, il femminismo, e la li-bertàààààà". Quelli sul balcone rimangono basiti e alfine si ricacciano la lingua in culo. Applauso, Maggie riprende coi vocalizzi, il bello deve ancora venire.
Tre quarti di performance: Maggie si rivolge a noi in un italiano stentato ma passabile. Ci dice che all'inizio degli anni Settanta, giovanissima, ha lavorato in Italia. Faceva la ballerina di fila nello show di Jee-naw Bra-mee-ayry, e se questa non è una sorpresa... Di quel periodo ricorda una canzone molto bella, le è passato di mente chi la cantasse, ma le parole non le ha mai scordate. A quel punto attacca Io che amo solo te di Sergio Endrigo: "C'è gente che ha avuto mille cose, / tutto il bene, tutto il male del mondo / Io ho avuto solo te / e non ti perderò, / non ti lascerò / per cercare nuove avventure..." E io mi commuovo, il cuore mi batte forte, dico sul serio, perché io adoro le canzoni di Endrigo. Maggie fa qualche errore di pronuncia ma l'interpretazione è accorata, scatta l'applauso, e io mi dico: "Per ringraziare questa donna, le restituirò un pezzo di vita e di memoria".
L'esibizione sta per terminare, corro a casa, prendo una delle mie raccolte di successi di Endrigo, mi riprecipito al Lumière, vado in petto al palco, allungo il cd alla cantante dicendole: "A gift for you, Maggie. This is the guy who wrote the song". Le dico il titolo e le indico la traccia. Lei rimane a bocca aperta, si commuove, mi ringrazia profusamente. "Ho fatto serata", come suol dirsi.
Endrigo ha una reputazione di cantautore triste del tutto immeritata. Nell'album Pompa (1977), gli Squallor lo nominavano in una ballata d'amore per una piattola triste, insieme ad altri presunti tetri figuri del cantautorato (Guccini, Branduardi, De Andrè etc.) Probabilmente pesa l'incipit del pezzo con cui Endrigo vinse Sanremo nel 1968, Canzone per te: "La festa appena cominciata / è già finita / Il cielo non è più con noi / La solitudine che tu mi hai regalato / io la coltivo come un fior".
In realtà Endrigo, anche non tenendo in considerazione le sue canzoni per bambini, non è soltanto struggimenti d'amore e malinconia, ha anche momenti distesi come La periferia, beffardi come Maddalena, sarcastici come Via Broletto.
Sono particolarmente legato a La periferia: "Io amo la periferia / da quando ho incontrato te / Mi piace aspettare la sera seguendo le strade / che portan lontano / dalla città / Le case in periferia / Risuonan di grida e di canzoni / E mille e mille panni colorati / Si muovono al vento, / bandiere di festa / solo per noi". Endrigo descriveva una periferia che era ancora spazio di transizione (paesaggistica e culturale) fra città e campagna, non ancora storpiata da speculazioni edilizie giganteschi parallelepipedi di cemento centri commerciali uno in fila all'altro svincoli autostradali, assordata dal traffico e dalle strida degli spettri degli alberi abbattuti. Nella città in cui vivo l'edilizia è assurta allo status di malattia mentale di massa, con periferie che ti viene da urlare d'angoscia quando le attraversi, per il rumore, il tanfo catramoso, il calore contundente assorbito e rilasciato dall'asfalto. Ma siccome la deturpazione la fanno le cooperative "rosse", è politicamente corretta, è indispensabile "sviluppo", e tutti zitti e mosca.
Marx e Engels scrissero che andava superata la distinzione fra città e campagna, ma questo non significa per forza divorare quest'ultima e annichilire le forme di vita che la popolano. Si può superare la dicotomia lasciando nella città spazi "incompiuti", squarci di campagna nel territorio urbano, come quei campi di Mais a Bologna (già condannati a morte, temo) tra via Scandellara, il Pilastro e l'Ipermercato Leclerc, o quei casolari con galline razzolanti e canti dei galli all'alba ai piedi delle Mura di Ferrara, praticamente in centro. Io ci sento tutto questo, nella canzone di Endrigo.
Caduto nel dimenticatoio per qualche tempo, tranne per noi che amiamo il vintage cool ("fresco di vendemmia"?!?!?), negli ultimi anni Endrigo sta godendo di una riscoperta lenta ma costante, iniziata con l'inclusione di due sue canzoni (Aria di neve e Te lo leggo negli occhi) nell'album Fleurs di Battiato (1999), proseguito con un omaggio in grande stile del Club Tenco e con la recente e ben promossa riedizione del suo unico romanzo, uscito qualche anno fa e passato inosservato (me ne avevano parlato i rivenditori Einaudi di Milano - Magda, Beppe, Aimo - durante la tournéè di Q). Si intitola Quanto mi dai se mi sparo?, l'ho letto d'un fiato, in un solo pomeriggio.
Il cantante Joe Birillo, "vecchia gloria" degli anni Sessanta e trasparente alter ego dell'autore, ci conduce e si conduce - Virgilio di se stesso - nella "città dolente" di indefiniti anni Ottanta (gli Eighties non sono un decennio, sono uno stato mentale, il peggiore). Attraversiamo con lui lo squallore di una provincia devastata, di una mezza età vissuta come pellegrinaggio al cimitero degli elefanti, di balere che sono sinagoghe del cattivo gusto, di una vita familiare atroce, sequela di fitte all'anima. Agenti, discografici, manager e giornalisti che sono personificazioni dello schifo. "Joe aveva resistito a lungo, era ora di lasciar libero il passaggio. Il mondo è vostro, accomodatevi. Mi raccomando, pulite tutto prima di andarvene. A Porta Portese aveva visto dei quarantacinque giri degli anni Sessanta ammucchiati alla rinfusa su una bancarella. Non aveva avuto il coraggio di chiedere il prezzo: quanto costa un Birillo d'annata, un Rita Pavone, un Morandi (rivalutato), un Michele? Mille lire, non sono mica dei Van Gogh, cazzo! Sic transit gloria mundi." Birillo - proprio come Endrigo - continua a incidere dischi con nuove canzoni, ma nessuno glieli fa uscire. A un certo punto ha un'idea, e la fortuna di proporla alla persona giusta. Di più non vi racconterò.
In America i Dick Contino trovano i loro Ellroy, i Dean Martin trovano i loro Tosches. Qui da noi, chi prenderà Endrigo, chi si ispirerà a lui per scrivere pagine memorabili, chi ne sbalzerà la figura sulle lastre d'oro del mito? Lo farei io, se avessi il tempo. Ma non ce l'ho. Questo è un appello ai colleghi narratori che mi leggono: occupatevi di Sergio Endrigo. Il suo sito ufficiale è: http://www.sergioendrigo.it/ [WM1]


Serge Quadruppani, La notte di Babbo Natale, Il Giallo Mondadori n.2863, 2/12/2004, € 3,60

In Italia i libri di Serge Quadruppani non trovano collocazione stabile in una collana che permetta di trovarli in libreria. Da troppo tempo l'opera dello scrittore d'Oltralpe è confinata nei Gialli Mondadori, tra i libri da edicola, garanzia di grande diffusione sul brevissimo periodo e repentina irreperibilità dopo qualche settimana.
Quadruppani, 52 anni, oltre a essere il traduttore francese di autori italiani come Camilleri, Evangelisti e De Cataldo, è autore che sorprende, scuote, commuove con romanzi perfetti, li divori e li richiudi stordito, lasciano macchie sul cuore. Qui da noi non è ancora molto conosciuto e ha patito scelte editoriali... bizzarre, come quando la Mondadori mandò in libreria L'assassina di Belleville, terzo volume di una trilogia, senza fornire ai lettori alcun "riassunto delle puntate precedenti". [En passant: la Mondadori ha appena rifatto lo scherzo con Zero Kill dell'algerino Y.B. (al secolo Yassir Benmiloud), anch'esso ultimo episodio di un trittico, incomprensibile senza aver letto i primi due.]
Quadruppani si muove in una terra stilistica tutta sua, piccola république autonoma ai confini con il Manchette di Nada, il Malet de La vita è uno schifo e il Buñuel de Il fantasma della libertà. Il suo metodo? Forzare al massimo le regole e convenzioni del polar (il crime novel francese), fermandosi un millimetro prima di romperle. La poetica? Esplorare (criticandole, ma comprendendone le ragioni) le alternative individualistiche alla lotta di classe: scorciatoie solipsistiche, vendette disperate, uniche vie praticabili da chi non può rifarsi in altro modo delle ingiustizie subite. Lo sfondo è la società del controllo, mondo trasfigurato dai dispositivi di sorveglianza, edificio sociale i cui soffitti sono come i finti specchi della candid camera: tu non vedi chi sta al piano di sopra, ma loro vedono te. Ancor più sullo sfondo: la degenerazione antropologica, il capovolgimento della rivoluzione sessuale, l'integrazione mercantile dei grandi cambiamenti di costume post-Sessantotto. Siamo all'intersezione fra il pensiero radicale francese e le Lettere luterane di Pasolini.
L'anno scorso era uscito La breve estate dei Colchici (Il Giallo Mondadori n.2822, 8/5/2003), ove si narrava del ritorno di fantasmi del passato sulle torri di guardia di un'agiata esistenza borghese, quella di ex-rapinatori ultrasinistri rientrati nei ranghi a spese di un loro amico, spedito in galera da una losca macchinazione.
In questi giorni, invece, è in edicola La notte di Babbo Natale (Il Giallo Mondadori n.2863, 2/12/2004), splendidamente tradotto da Maruzza Loria. Attenzione, è una vera e propria trappola, nel senso che lo apri, ne leggi qualche riga per vedere com'è e, stumf!, ci cadi dentro e lo leggi fino alla fine, senza soste.
Che c'entra l'11 Settembre con il tizio armato vestito da Santa Claus che, alla cena di Natale in casa Boutonnier, fa strani giochi e mette i convitati l'uno contro l'altro? C'entra, c'entra... E c'è un legame tra i professionisti della sicurezza che agitano a scopo di lucro lo spauracchio del terrorismo e il film che l'undicenne Jeanne ha visto da piccola, una notte, durante un attacco d'insonnia? Fidatevi, c'è.
Una delle dichiarazioni di poetica del libro si trova a pag.86, in forma di elencazione di tecniche di controllo. Si va dai "nanotrasmettitori nelle secrezioni corporali" alle "microtelecamere impiantate nella fronte di animali di compagnia" per arrivare ai cannoni d'api geneticamente modificate da usare contro i manifestanti e concludere così: "[...] L'immaginazione al servizio della sicurezza: un'inchiesta dimostrò l'eccellente penetrazione di questo slogan che, secondo i creativi, realizzava 'la sorprendente alleanza tra un tocco di utopia sessantottina e il nuovo ideale occidentale di sorveglianza generalizzata'".
Anche spingendo innanzi a sé paradossi come questo, Quadruppani sviluppa le contraddizioni dell'odierno capitalismo, ne approfondisce la dialettica. Il risultato, strano a dirsi, riporta alla mente certi romanzi filosofici dell'Illuminismo. Scriveva Diderot: "Colui che prendesse ciò che scrivo per verità, sarebbe forse meno in errore di colui che lo considerasse come favola". Precipitatevi in libreria e, per soli €3,60, portatevi a casa un pezzo di verità. [WM1, apparso su L'Unità il 9/12/2004]

Leggi anche la recensione di Tommaso De Lorenzis su Carmillaonline:
http://www.carmillaonline.com/archives/2004/12/001125.html
e quella di Nino G. D'Attis su Blackmailmag:
http://www.blackmailmag.com/serge_quadruppani.htm

Enzo Fileno Carabba, Pessimi segnali, Marsilio Black, € 12

Ritrovare un fratello che non sapevo di avere è un'esperienza che la vita non mi ha ancora riservato. Quindi, rinuncio al paragone. Fatto sta che leggere questo libro mi ha fatto uno strano effetto. Come salire in cima a una montagna, vedere uno che viene su dall'altra parte, arrivare in vetta e scoprire che è un vecchio amico che non sentivi da tempo. La vetta in questione potrebbe essere Monte Budadda, confine ideale tra la Valmadero e il Valdarno, tra Castel Madero e Torresola, Tra Guerra agli Umani e Pessimi segnali. Resisto volentieri alla tentazione di fare un elenco, con tutte le incredibili somiglianze - di atmosfera, di personaggi, di dettagli microscopici - che esistono tra questi due romanzi. Chi li leggerà entrambi, avrà modo di scoprirle, se ne avrà voglia.
Piuttosto, vorrei soffermarmi su una somiglianza nelle premesse, su alcune cose che questo romanzo riesce a fare e che finisce per farmelo sentire così vicino, forse perché va a segno dove anch'io ho mirato, non spetta a me dire se con eguale fortuna.
Enzo Fileno Carabba riesce a raccontare una storia che è surreale e verosimile allo stesso tempo, assurda ma per questo credibile (come direbbe Tertulliano), grottesca nel suo essere quotidiana. Che ci parla della realtà senza essere realista, ma usando un linguaggio quasi fiabesco, con inquitanti misteri, oscuri presagi, foreste di simboli, leggende. Tutto ciò che l'onesto realismo ama eliminare, quando si tratta di raccontare una storia vera.
Nei gusti del pubblico e dei critici, al momento, il realismo la fa da padrone. Piacciono le storie vere. Al cinema si riscopre il documentario, per supplire alle deficienze della TV. In letteratura si chiede agli scrittori di mettere una pezza sul vuoto lasciato aperto dal giornalismo d'inchiesta. Tutto questo va bene, per carità, noi stessi abbiamo scritto valanghe di romanzi storici, quindi okay, purché si lasci spazio al resto. Purché gli unici parametri per valutare un racconto non siano quanto è vera la storia, quanto sono verosimili i personaggi e via discorrendo. Altrimenti, addio Viaggi di Gulliver, Metamorfosi e compagnia bella. Pensateci: quante volte, negli ultimi film italiani che avete visto, c'erano elementi "ai confini della realtà", episodi inspiegabili, dinamiche grottesce senza l'esorcismo della comicità? Io ne ricordo solo uno: Tutta la conoscenza del Mondo, di Eros Puglielli. Il che non vuol dire che gli altri facciano schifo, anzi, vuol dire soltanto che il realismo non è più soltanto una modalità d'espressione. E' diventato un diktat produttivo. Il noir e il giallo piacciono/non piacciono a seconda di quanto colgono delle dinamiche socio-criminali. Lavorare con lentezza piace/non piace a seconda di quanto è fedele allo spirito degli anni Settanta... Non sarà un po' riduttivo?
Ma tornando al romanzo: se uno lo legge in chiave realista e fa il volontario sulle ambulanze, allora accende le sirene e va dritto dall'autore a rompergli la faccia. Perché una delle cose più divertenti e coraggiose che fa questo romanzo è sparare sulla Croce Rossa, intoccabile per antomasia. I crocerossini di Torresola sono dei decerebrati (come tutti gli abitanti, d'altronde) che sfruttano gli obiettori, truffano il comune, si eccitano col sangue, le armi, i corpi paramilitari e i pornazzi di ultima. Come dire che non è che siccome uno fa il volontario, allora è senz'altro un mezzo santo, puro come l'agnello pasquale. E già dire questo non è poco: l'aiutare il prossimo è una gran cosa, ma non redime dai peccati (almeno non su questa terra).
Terza cosa molto coraggiosa di questo romanzo, dopo lo sgambetto al realismo e quello al Buon Samaritano, è giocare con la quotidianità del mistero e, in tempo di gialli, thriller e noir, non mettere in piedi nessuna detection vera e propria. Sondare le crepe nel tessuto della realtà senza ricondurle per forza a una spiegazione, un motivo razionale che le riconcili con la realtà stessa. La realtà è fatta molto più spesso di misteri che non si svelano. La polizia trova l'assassino una volta su trenta, non come nei telefilm. Il realismo tradisce la realtà molto più di quanto non dichiari. Le storie vere sono spesso incomprensibili.
O come dice la nonna di Augusto: c'è qualcosa oltre la vita, ma soprattutto, c'è qualcosa durante. [WM2]
Y.B., Allah Superstar, Einaudi Stile Libero Big, 2004, pagg.138, € 12,00

Come come? "Antisemitismo"? "Giudeofobia"? Naaaah, frequentate troppo certi blog. Quelle son le solite cazzate messe su in quattro e quattr'otto dal Cretinetti neo-con di turno, o teo-con, comunque con (alla francese). No, Allah Superstar è un'altra cosa, porta a nuovi estremi la satira degli opposti integralismi, dell'orientalismo, dell'occidentalismo, dello scontrociviltismo, del laicismo, di quel che da noi si chiama "terzismo", del citazionismo, di quel che è diventato l'umorismo, addirittura del "matrixismo" (la tendenza a utilizzare ad nauseam le banali e consunte allegorie presenti nel film Matrix, tendenza che pure qui da noi... ma non fatemi parlare).
Allah Superstar va ben oltre la stessa "Trilogia algerina" 1998-2001 (di recente Mondadori, con un gesto d'estremo disprezzo nei confronti dei lettori, ha pubblicato il terzo episodio senza dar conto degli altri due). Chi è l'autore? "Y.B.", alias Yassir Benmiloud, algerino che vive in Francia. Nella trilogia di cui sopra raccontava la mattanza degli anni Novanta, FIS, GIA, etc. "Il protocollo di un Islam fondamentalista vale ampiamente un'avventura di Lara Croft. In più è autentico 3D". In Zero Kill, il sicario jihadista Youssef Sultane muore durante un attentato e va in paradiso, dove l'arcangelo Ismaele gli fa un quiz sull'Islam e appura che, al pari di tutti i fanatici (il mullah Omar, Vittorio Feltri, Adel Smith), non ha capito nulla del Corano. Nel frattempo, sulla Terra, proseguono complotti e colpi di stato striscianti, i fondamentalisti sono manovrati dai militari, cani e porci e avvoltoi convergono su Algeri, compreso l'agente Scully di X Files, tra riscritture di Sade visto da Pasolini etc. (frequenti i richiami al cinema italiano, nei libri di Benmiloud). Ma veniamo all'ultimo romanzo.
Kamel Léon (suona come caméléon, "camaleonte"), animale bicolore di banlieue, diciannovenne algerino di 2a generazione (ma orfano di madre francese), vita incastonata nella pop culture post-11 Settembre, vuol fare lo stand-up comedian, cabarettista-da-combattimento, vuol fare monologhi travestito da estremista kamikaze, barba finta e cintura di esplosivi. Non ha ben chiaro quale debba essere il messaggio, sa però che può far ridere. Se poi riesce a far incazzare tutti, e magari beccarsi una fatwa come Rushdie, toccherà il cielo con un dito: "una fatwa, ecco cosa ci vuole per diventare di moda, è più veloce del Grande Fratello, dura di più..." Il padre e i suoi amici sono però fondamentalisti: "Quando Bin Laden ha tirato giù le Torri gemelle, mio padre ha detto, me lo ricordo benissimo, testuali parole: - Non so chi è figlio di puttana che ha fatto questo ma io invito lui a mangiare il cuscus a casa mia quando vuole! - Questo per dire che l'Islam dei miei avi è fraternità e condivisione". Lo stesso Kamel, pur essendo insofferente incoerente poco deferente, si ritiene un bravo musulmano, "connesso con Allah a banda larga", quindi non ha bisogno di pregare, pregare è per chi ha ancora il modem a 56k.
"L'Algeria francese è qui", dice Kamel. Tutto il contesto in cui si muove è "post-coloniale". Infatti nomina in continuazione Ali La Pointe, protagonista de La battaglia di Algeri di Pontecorvo. La guerriglia di La Pointe è "roba di gran classe", ecco, e in qualche modo ispira la comicità-guerriglia di Kamel. Post-coloniale è anche il ritorno di Frantz Fanon, unico autore citato direttamente, e ben due volte, sempre lo stesso brano di Pelle nera, maschere bianche in cui si attacca quella che Marcuse chiamerà poi la "tolleranza repressiva" (nello specifico, quella del bianco nei confronti del nero).
Allah Superstar condivide non pochi tratti con il Tristram Shandy di Sterne, padre di tutti i romanzi "schizzati" degli ultimi due secoli (e mezzo): parodia dell'inizio ab ovo (ossia dal concepimento); riflessioni sul nome del protagonista; io narrante; dialogo diretto col lettore; divagazioni continue; trattazione della complicata storia di famiglia con tanto di strane fìsime del padre e, infine, frequente ricorso all'elencazione caotica di cose, situazioni e persone (si veda l'appendice "In memoriam", lunga sfilata di tutti i personaggi, gli enti, i concetti, nel medesimo ordine d'apparizione nel romanzo).
Benmiloud è innamorato del linguaggio, ne celebra il potere ubriacante, questo è un fulmineo romanzo rap, rapsodia sull'Algeria francese, autopsia della parola, biopsia per la lingua creola, complimenti a Lorenza Pieri che è riuscita a rendere lunghe sfilze di rime e scioglilingua [*], par di sentire Caparezza: "La spizzo scivolare nella bocca della metro ancheggiando sul finale, troia totale del trasporto comunale, sogno segreto degli utenti fraudolenti, fascino discreto della pubblica finzione, ammira la purezza della figlia del vagone, falla ondeggiare su un'aria di räi, fratello, presto capirai..."
Per alcuni, pagine piene di veleno. Per altri, pagine piene d'antidoto. Fate voi. [WM1]


* Eccellente anche la traduzione di Zero Kill fatta da Iacopo De Michelis.

Marco Philopat, I viaggi di Mel, ShaKe 2004, pagg. 319, € 15,00

Si sarebbe tentati di pensare a I viaggi di Mel - come al terzo volume della "trilogia dei decenni" - del resto c'è scritto pure in quarta - Trilogia a ritroso - Costretti a sanguinare era gli anni Ottanta - ricordati nel prurito del tessuto cicatriziale - dammi una lametta che mi tagliuzzo le braccia al convegno sul punk - e le palle degli occhi a rotolare sui pavimenti dei tuguri okkupati - più qualche puntata a Londra - Philopat parlava di se stesso da adolescente - La banda Bellini - di cui ci siamo già occupati su Nandropausa - era gli anni Settanta ricordati dal santo beone - il fondatore del collettivo del Casoretto - il più celebre servizio d'ordine del movimento milanese - gli scontri di piazza come chiave per raccontare gli anni dal '68 al '77 - Philopat l'uomo col registratore - poeta/storico orale - Iceberg Slim del ghetto dell'italica memoria - A rigore I viaggi di Mel - dovrebbe essere gli anni Sessanta - dei beatniks - dei "capelloni" - raccontati da Melchiorre Gerbino - fondatore della rivista Mondo Beat - uno che se apriva una parentesi - "non riuscivi nemmeno a orientarti - che subito diventava un'altra fiaba - grande quanto il quadro intero" - Ma il libro è un oggetto ibrido una raccolta - di testimonianze vere e immaginate - Philopat si supera e rovescia sulla pagina un linguaggio materico - pieno di mota e di detriti - e regala pezzi di bravura - Milanese DOC - scrive interi capitoli in romanaccio sguaiato - "Qua ce sta 'na paccata de froci" - o in avvocatese della Trinacria - "Si deve ammettere che il provvedimento urgente adottato nei suoi confronti - nella fattispecie l'assunzione all'Ente Nazionale Previsione Infortuni" - Caratterizza le diverse voci con interiezioni - la madre di Gerbino attacca sempre con "Eeehhhh" - Philopat cos'è? Un ventriloquo o un medium? - Il lettore si domanda - epperforza se lo domanda! - come ha costruito il libro - come ha lavorato e quanto tempo ci ha messo - Ci stavano bene i "titoli di coda" cazzo - Ma dicevamo - In realtà si deve ammettere che 'sto libro è fuori dalla trilogia - nella fattispecie la "eccede" - va ben oltre gli anni Sessanta - OK racconta pure quelli - i Sixties della brama di viaggiare - e il mito della Scandinavia e la patonza del Nord - come già ne La meglio gioventù - prima parte della prima parte della prima parte - ma senza l'autocensura da prima serata rai - senza tradurre cock con "pisello" e butthole con "buchetto del culo" - o qualcosa del genere - c'è molto più sesso e droga - Poi s'arriva a Milano e uno si aspetta - un affondo balestriniano - nelle vicende del campeggio Nuova Barbonia - e nell'epopea di Mondo Beat - arrivano calano manganelli spaccano teste corpi nudi in fuga benpensanti che guardano gli sta bene sporcaccioni da oltre il recinto gli sta bene - La vita operosa di Milano è stata sconvolta ieri pomeriggio da una ventata improvvisa di violenza e di furore senza precedenti - Invece Philopat lascia il buco - lo riempirà direttamente Gerbino - uomo dai mille nomi - nell'appendice con tante foto - e c'è un effetto curioso - perché Philopat come sempre storpia i nomi - Gunilla diventa Ludmilla - Valcarenghi diventa Vaccareni etc. - come ne La banda Bellini Erri De Luca = Henry La Bibbia - al contrario Gerbino mette i nomi veri - e a dire il vero ne mette pure troppi - si toglie i sassolini dalle scarpe anzi i macigni - contesta le versioni della storia data da Nanda Pivano in C'era una volta un beat - e da Gianni De Martino ne I capelloni - e "contesta" è un eufemismo - parla di complotti fotomontaggi infiltrazioni - Meglio se si limitava a raccontare nei dettagli - la narrazione ha una tale forza - da umiliare ogni versione precedente - invece così è troppo rancore - Intanto Philopat prosegue e racconta le peregrinazioni - in giro per il mondo per tutti i Seventies - Oceania Africa America latina - le due tormentate storie d'amore - con "Ludmilla" e "Sterlizia" - sempre con le radici in Sicilia - nei pressi di Calatafimi - e sessanta apparizioni al Costanzo Show - una comparsata alla Calusca quando c'era ancora Primo - e lì Philopat ha l'idea - e quasi otto anni dopo eccoti il libro - conclude la trilogia e la porta oltre se stessa - Philopat l'uomo col registratore - poeta/storico orale - Iceberg Slim del ghetto dell'italica memoria. [WM1]
Giancarlo De Cataldo, Il padre e lo straniero, E/O 2004, pagg.143, € 8,50

Torna in libreria Il padre e lo straniero di Giancarlo De Cataldo, già uscito per Manifestolibri nel 1997, un lustro prima della consacrazione dell'autore con Romanzo criminale.
Il nostro presente - l'imminente 2005, quarto anno della "War on Terror" - interroga il libro in nuovi modi e ha orecchie giuste per ascoltare le risposte.
Il romanzo si presenta come un noir sul rapporto padri-figli, il cameratismo maschile e la società multietnica. Ho scritto "si presenta" perché questi sono i piani di lettura immediati. Leggendo, la faccenda si complica, i piani si moltiplicano.
Quello che ci troviamo tra le mani è un piccolo, sofferto exemplum: fa riflettere sull'avere più padri, e sul dovere di esser padri dei figli altrui, ben oltre il vincolo biologico, le nazionalità, le differenze culturali. Quest'assunzione di responsabilità è l'unico modo per non farsi annientare dalle tragedie della vita. Mani che aiutino a rialzarsi dopo le brutte cadute, di questo abbiamo bisogno. Fin qui il messaggio suona piuttosto ovvio, per quanto, ehm, giovi senz'altro ripeterlo, ché tutti vivremmo meglio se razzolassimo conformi a prediche ritenute "banali". Tuttavia, a rendere l'exemplum davvero incisivo e per niente banale è il modo in cui il protagonista Diego (anzi, "Marini Diego"), dipendente statale dalla vita bigia e intorpidita, diviene autocosciente e responsabile. Sì, perché il discorso sull'avere più padri e più figli lo sente fare a Walid, mediorientale di un Paese mai nominato, la cui vita è avvolta nel mistero.
I due si incontrano all'ingresso di un istituto per bambini gravemente handicappati. Diego è padre di Giacomo, Walid è padre di Yussuf, bimbi dal cervello così menomato da non poter affrontare i minimi compiti di una giornata nel mondo. L'amicizia con Walid permette a Diego di uscire dalla narcosi dell'autocommiserazione, lo rende partecipe di una realtà creolizzante, contaminata. Le mani che lo aiutano a rialzarsi provengono da una cultura altra, non ancora atomizzata, in cui l'individuo-consumatore non è la principale identità di un essere umano. Anche questa cultura ha le sue tare, non è auspicabile adottarne i costumi clanico-tribali, ma qui non si descrive una conversione o un'annessione, bensì un incontro, con la condivisione di esperienze dolorose e la ricerca di una sintesi, un superamento, un colpo di reni che ci proietti di là dal presente e dalle sue miserie. Non un episodio della "conquista d'Eurabia" - come vaneggia qualcuno - bensì una fusione di patrimoni culturali, in uno sforzo di coniugare libertà e appartenenza, autonomia e mutuo appoggio, precisamente il dilemma su cui si sono arrovellati tutti i fautori del cambiamento sociale. De Cataldo, quasi inavvertitamente, mette i piedi nel piatto dell'infinita querelle tra "comunitaristi"/"differenzialisti" e "universalisti dei diritti"/"interventisti umanitari", ma è un narratore, non un teorico, e questo non è un saggio, ma una storia minuta di delusione, angoscia, dignità.
A un certo punto Walid scompare, entrano in scena agenti dei Servizi e delinquenti transnazionali, le identità segrete vengon via come bucce di cipolla, Diego si ritrova in uno scenario tipo Il terzo uomo. La discesa agli inferi è rapida, tutto sembra finito, la palingenesi arriva in modo del tutto inatteso.
Un libro intenso, emozionante, eppure misurato. Anzi, emozionante perché misurato. La lingua usata da De Cataldo, lavorata col cesello dell'esperienza vissuta, commuove molto più di qualunque show-case di languori e retorica strappalacrime.
Se avete o state per avere un bimbo, Il padre e lo straniero vi colpirà, certo, ma non dove né come vi aspettavate.
Se di De Cataldo conoscevate solo Romanzo criminale, beh... and now for something completely different! [WM1]
Kem Nunn, Pomona Queen, Meridiano Zero 2004, € 13,50

Pomona Queen è un romanzo sorprendente, nel vero senso della parola. Una sorpresa continua, che non mescola i generi, né li contamina, secondo la moda corrente, ma li incastra uno nell'altro, stravolgendone le dimensioni, non l'integrità. Se vogliamo, più una matrijoska che un pastiche.
Comincia, e pensi di aver scovato un allievo talentuoso di Elmore Leonard. C'è Dean, il protagonista-che-fa-un-mestiere-un-po'-assurdo (venditore ambulante di aspirapolveri). Ci sono i trucchi del mestiere in questione e ci sono un mare di casini, subito dietro l'angolo, in attesa del buon Dean, a.k.a. Johnny Magic. Tali casini si materializzano sotto forma di una ghenga di biker, capitanati da Dan Brown, un sottosviluppato con istinti omicidi. La situazione iniziale è delirante al punto giusto. I dialoghi filano che è un piacere, stracolmi di turpiloquio. Le danze cominciano e tu credi già di sapere che razza di musica riempirà la pista.
Invece no. Arrivi a pagina 66, ed Elmore Leonard cede il passo a Steinbeck e all'epopea di un buco di culo di città, alle porte di Los Angeles, dove un tempo hanno prosperato le piantagioni di arance, poi quelle di villette, poi il vuoto pneumatico del Rapido Declino. Questa città è Pomona e la sua litania di promesse mancate, dai primi frutteti, all'incendio di Chinatown, all'autostrada per San Bernardino, diventa a tratti il vero fulcro narrativo ed emozionale del romanzo. Perché Dean ha due segreti nel cuore: uno riguarda il bisnonno William Tacompsy McCauly, proprietario terriero dei bei tempi andati, l'altro una ragazza dai capelli rossi, che suonava il violino e adesso non c'è più. Questo secondo segreto spalanca a sorpresa un'ulteriore registro, fatto di riflessioni esistenziali e malinconiche verità che con Leonard hanno ben poco da spartire e rieccheggiano piuttosto l'inarrivabile Bandini di Chiedi alla polvere.
Il resto sono atmosfere di decadenza metropolitana e illusioni di progresso che ramazzano i rimasugli di speranza verso gli angoli della pagina, fino all'atto finale e al disvelamento di alcuni segreti, certo non tutti.
Sorprendente, bisogna che lo dica, anche la scelta di mettere in copertina le cromature di una Harley Davidson: è vero che il romanzo parla di una ghenga di biker, ma è anche vero che questi non montano MAI in sella, continuando a spostarsi su un furgoncino scalcagnato. Altrettanto fuorviante, sempre in questo senso, la definizione di romanzo on the road, dato che tutta l'azione si svolge a Pomona e dintorni, in un raggio di massimo venti chilometri. Quindi attenzione: Pomona Queen non c'entra niente con le moto, né con le suggestioni da Easy Rider. Piuttosto ha a che fare col Sogno Americano e con i suoi cascami. In realtà, è un romanzo dove chiunque abbia fame di storie può trovare pane per i suoi denti, e faccio davvero fatica a immaginare qualcuno che potrebbe rimpiangere i 13 euro e 50 di scommessa: con in sella Stefano Bortolussi, grande traduttore che molti già conosceranno, Kem Nunn è un cavallo vincente. [WM2]

Andrew Masterson, Il secondo avvento, Marsilio 2004, €16,50
Eddie Campbell, In giro per le isole con Bacchus, Edizioni BD 2004, € 15,00


Il ritorno di Joe Panther si differenzia dall'episodio uno per due aspetti fondamentali. Primo, la trama è assai più serrata e convincente. Il finale è secco, preciso, senza le molte sbavature del precedente. Secondo, i riferimenti alla Bibbia, ai santi e ai miracoli, rivisitati in chiave punk sono molto meno presenti: giusta scelta, perché a forza di spalmarla, anche l'idea migliore diventa sottile. Tuttavia, si sente la mancanza di alcune digressioni da martirologio che erano il piatto forte de Gli Ultimi giorni.
Joe Panther, in ogni caso, è sempre lui: ha sempre trentatré anni, spaccia sempre eroina al suo amato gregge, è sempre convinto di essere Gesù di Nazareth. Con un piccolo particolare in più: il Cristo d'Australia, trasferitosi sulla costa Ovest, a Perth, sta per avere un figlio da un'ex-tossica con preferenze omosessuali.
Nel frattempo, è tornato anche Bacchus. Un altro che è in giro dall'alba dei tempi e non vuole saperne di mettersi a riposo. Anche lui drogato - di vino e ambrosia. Anche lui violento, deciso a sistemare una volta per tutte scazzi e offese del tempo dei Titani.
Eddie Campbell, col suo disegno grezzo, talmente lo-fi da sembrare trasandato, continua a giocare con i miti dell'antica Grecia e le loro nerissime conseguenze nel mondo presente. Campbell è australiano, come Masterson. Le prime avventure di Bacchus (L'immortalità non è per sempre e Gli dei del business) risalgono al 1986. Quelle di Joe Panther sono della fine dei Novanta.
Secondo me c'è un legame, ma giudicate voi… [WM2]


Andrea Pagani, Capriole di Comico, Pendragon 2004

Il succo di questa storia è antico come il privilegio: c'è un nobile che ha un figlio da una serva. Il bambino non può vivere a palazzo e viene affidato a una famiglia modesta. Il bambino cresce e cerca giustizia. L'aristocrazia si difende come sa: corrompe, manipola, distrugge prove, spedisce in manicomio i testimoni della vicenda…
La storia è realmente accaduta, agli inizi del Settecento, tra Bologna e Imola, e Andrea Pagani ha il merito e la fortuna di averla scovata e ricomposta, da un archivio all'altro delle due città, scoprendo addirittura che nel Libro dei Nati custodito alla Biblioteca dell'Archiginnasio, l'anno in cui Pompilio vide la luce, il 1682, è il solo mancante dell'intero secolo.
A partire da carte processuali, lettere e verbali di interrogatorio, Pagani dà vita a una vicenda che mette insieme la precisione del restauro, la scelta non casuale dei temi, la capacità di muovere i personaggi sulla scena, raccontando una storia che non si chiude in una dimensione da museo, ma ci parla - attraverso il filtro degli anni - del nostro presente e dei suoi conflitti.
Oltre a questo, l'autore ha saputo prendersi il giusto spazio, sia nei coni d'ombra della ricostruzione storica, sia tra le pieghe dei fatti più documentati. Da un lato ci sono personaggi che la Storia ci ha consegnato appena abbozzati - come il padre adottivo del protagonista - e che questa storia riempie di significati. Dall'altra c'è l'intreccio di sapore gotico che Pagani ha intessuto per andare incontro al suo finale, dimostrando di saper intervenire sui buchi della vicenda con un rammendo che non la rende soltanto più compatta, ma anche più avvincente. [WM2]

Segnaliamo infine l'uscita di Multiplo, primo romanzo di Guglielmo Pispisa degli inossidabili Kai Zen, per i tipi della Bacchilega Editore, un incredibile volume su carta lucida (!) a impatto zero. Non l'abbiamo ancora letto, ma andiamo sulla fiducia, sapendo come scrive Guglielmo e anche grazie alla prefazione di Carlo Lucarelli. Magari lo recensiremo nel prossimo numero di Nandropausa, sperando che a quella data sia uscito anche il secondo romanzo del nostro messinese: Città Perfetta, pubblicato da Einaudi Stile Libero con la benedizione de iQuindici. Nell'attesa, leggetevi questo e fateci sapere. [WM2]

Ho letto l'ultimo romanzo di Massimo Carlotto, L'oscura immensità della morte, tutto d'un fiato, senza riuscire, per tante ragioni, a prendere respiro: provateci voi a farlo (non a leggere tutto d'un fiato, a respirare... anche se...va beh).
La storia, i protagonisti, l'ambiente, le emozioni che escono fuori dalle pagine ti mozzano letteralmente il fiato. E non è per una questione di 'suspence', ma perchè il sordido, il cattivo, il male, tutto lo schifo che l'essere umano nasconde dentro di sè esce fuori e dilaga sulle pagine, ti invade, ti pervade, e tu stai lì, a provare le stesse identiche emozioni che prova il protagonista 'buono', quello insomma che la società apprezza e compatisce (odio, vendetta, dolore), raggomitolato su te stesso perchè ti senti violentato, catturato da sensazioni che magari hai sempre nascosto dentro di te, che hai sempre pensato non ti appartenessero, che hai sempre aborrito negli altri. Io, devo dire la verità, ho avuto paura leggendo questo libro, esattamente come l'ho provata leggendo Arrivederci, amore, ciao. Paura perchè mi sono sentita sbattere in faccia direttamente tutto il marciume che imperversa in questa società. Sotto gli occhi di tutti, ma ignorato. Sono, di nuovo, rimasta agghiacciata dalla logica perbenista e ipocrita che regna nel posto dove viviamo...e non è solo il solito Nord-Est: quanto sarebbe stata reale la storia, fosse stata ambientata in Brianza? L'altra volta a metà lettura ho buttato via il libro perchè stavo troppo male per leggerlo tutto d'un fiato, stavolta mi sono fatta coraggio, ho abbracciato il mio gatto per avere un po' di conforto e sono andata avanti fino alla fine.
Continua così Massimo, noir o non noir, da Il Fuggiasco a Le Irregolari fino a L'oscura immensità della morte: cè un mondo di merda intorno a noi, se ne siamo consapevoli, riusciremo a sopravvivere, forse quasi indenni.
salùd
Biancaneve, 23 giugno 2004
L'oscura immensità della morte. Un romanzo forte, che non fa sconti, scritto con un linguaggio che lascia il segno dentro, senza addolcire mai neppure una parola, un romanzo che mantiene sempre alta l'attenzione.
E' la prima volta che mi avvicino a Carlotto, e devo dire che è stata davvero una bella scoperta.
Racconta una storia di disperazione, e la trasformazione della vittima in carnefice, l'evoluzione di un "regolare" in un giustiziere: un padre di famiglia, un rappresentante di vini, abituato a trattare con la gente, sempre sorridente, battuta pronta, si trova, dopo la morte della moglie e del figlio, solo, fuori da ogni morale, da ogni etica.
Davvero al di là del bene e del male.
Per 15 anni sopravvive, aggiustando scarpe e duplicando chiavi. Una vita fatta di cibi precotti, vino nei cartoni, televisione tanta, sempre accesa, ma niente cronaca, polizieschi, niente che possa ricordare da vicino la morte della moglie e del figlio.
E poi all'improvviso, il rapinatore che, strafatto di coca, gli ha tolto, senza motivo, la famiglia, lo ricontatta.
Vuole la grazia.
E non si sa bene per qualche arcaica ragione in Italia la grazia passa proprio da chi non può, mai, avere la lucidità e l'oggettività per decidere: come può la vittima giustificare il carnefice?
E questa è la scossa che serve a mandare all'aria il precario equilibrio che il protagonista si era fino a quel momento costruito.
Ed è un processo, breve, di trasformazione profonda: e Carlotto riesce a farci entrare nella testa del protagonista, nella freddezza che lo guida nel suo percorso di rivalsa e di vendetta.
Parallelamente invece, il criminale percorre la strada inversa: il suo è un processo di "espiazione" che arriva alla rinuncia della libertà [...]
Come è davvero tutto relativo....
Lori, 17 agosto 2004
Un brevissimo commento a L'oscura Immensità della Morte di Massimo Carlotto che ho divorato nel tragitto in treno La Spezia - Torino.
Premetto che di Carlotto ho letto tutto e che è uno dei miei autori preferiti.
Questo libro è un piccolo gioiello ricco di sensibilità e di travolgente cinismo grazie all' io narrante che ti fa immedesimare nella vittima e nel colpevole. E' la trasfigurazione del nostro intimo dolore tanto personale da farci pensare che nessun' altro sia in grado di capirlo. E anche la consapevolezza di poter agire senza limiti forti del fatto che aver sofferto tanto possa darci il diritto di far soffrire gli altri come l' ingenua giurata popolare che ha la grande colpa di fare la volontaria in carcere.
Un Noir che ti lascia con l'amaro in bocca dove l' unica redenzione possibile viene dal male.
Grazie WM1 e WM5 per la vostra splendida recensione.
Stefania Rasetti, 12 agosto 2004

Un pugno nello stomaco. Questo è il libro di M.Carlotto, L'oscura immensità della morte; un racconto che sovverte tutti gli schemi di uso comune riguardo i buoni e i cattivi, il criminale e la vittima, quello che è giusto e quello che è sbagliato.
Qui il "buono" non è la vittima, un uomo che ha perso moglie e figlioletto durante una rapina: di solito è sulle vittime che si riversa la pietà, mentre in questo caso la vittima è più criminale del criminale. E il criminale, quello "canonico", lo sbandato cocainomane che ha ucciso, il bugiardo, quello che non s'è mai "pentito" di quello che ha fatto, alla fine ti sta pure simpatico....
Carlotto disegna un mondo dove tutto è possibile e lo fa con stile, racconta violenza con mano lieve, penetra nella mente buia del protagonista e ti trascina nell'abisso insieme a lui. A leggerlo, questo libro, ti rendi conto dell'inutilità che spesso permea frasi e gesti, quando si vuole per forza riportare entro schemi consueti - e quindi conosciuti - sia i fatti che sconvolgono l'esistenza, sia le singole reazioni a questi fatti. E soprattutto hai la conferma che il dolore non giustifica le tue azioni, non ti rende intoccabile; e che cristallizzare un'esistenza - quella della vittima, del criminale, del complice - ad un solo, unico momento, è ancora più barbaro della violenza stessa.
Daniela, 19 agosto 2004


Tra le svariate letture d'inizio estate, anche Tre uomini paradossali di Girolamo De Michele. Le ore trascorse a leggerlo sono state, nel numero, esigue. Per farla breve: il romanzo è stato assimilato nell'arco di due pomeriggi, tramite una lettura vorace e ininterrotta.
Alcuni giorni di decantazione hanno permesso di metabolizzare i flussi narrativi, compressi nello spazio di 193 pagine in fibra riciclata.
Ecco evidenziati gli aspetti che più ci hanno sorpreso:
1) Uno stile di scrittura prezioso che non rallenta il ritmo della prosa, in grado di correre veloce nella direzione di un finale mozzafiato ( le alterazioni dei battiti cardiaci sono assicurate ).
Una narrazione raffinata e al contempo rapida, posta con abilità al riparo dal pericolo di tempi morti: fatto inusuale per il noir che in genere predilige enunciati diretti ed essenziali, un'economia di parole finalizzata a comporre una prosa asciutta, piegata all'esigenza dell'immediatezza.
2) La potenza del realismo descrittivo che produce sincerità nel tratteggio di luoghi, atmosfere, personaggi.
Cura dei dettagli, onestà e capacità narrativa ad alto livello abitano queste pagine; consentono al lettore di sviluppare l'empatia, l'adesione totale alle vicende raccontate: è il piccolo miracolo che si ripete, ogni volta in cui ci si imbatte in una buona storia, in un testo valido che non necessita del ricorso a trucchi furbetti volti a captare la benevolenza di chi legge.
Unico neo, a parer nostro, ma di dimensioni lillipuziane: certi riferimenti ( leggibili in chiave di omaggio ) alla figura di C. Lolli che ci appaiono inseriti in modo un poco forzato e non utili ai fini dell'intreccio.
I dubbi sull'interpretazione del finale, noi li sciogliamo prediligendo l'immagine di un'amicizia che non viene tradita ma che esce rafforzata, a dispetto della violenza del metodo utilizzato a rinsaldarla, capace di passare attraverso il consumo della vendetta e lo sfruttamento del ricordo di una storia d'amore.
Un grazie a chi ha scritto e ai "15 invisibili" che hanno letto e recuperato.
Anna Luisa. ( 4-7-2004 / h 3,00 )


Vi mando le righe che scrissi sul mio blog pochi giorni dopo l'uscita di Tre uomini paradossali. Dopo poche ore GdM mi ha risposto, così ho ripostato il tutto con una mia aggiunta.
Se lo ritenete un contributo valido per nandropausa-bis, questo è il permalink (per comodità in coda trovate il testo).
http://pruriti.splinder.com/post/2228883#2228883 Ciao e buon lavoro! A.
Ho letto (ieri, tutto d'un fiato, e staccarmene per andare al compleanno di mia sorella è stato peggio che lasciare un amore...e con la stessa gioia ritrovarlo poi) il libro di Girolamo DeMichele Tre uomini paradossali e volevo parlarne!!
L'ho trovato veramente un libro splendido, per l'atmosfere, il modo di raccontare, l'aria di Bologna che si sente sotto ogni frase ed ogni luogo attraversato (e io non son di Bologna sòrbole, ma è una città a cui mi piace ritornare, qualche volta, a riposare le stanche membra).
Ho amato, per averlo vissuto forse nello stesso modo, la descrizione di quelli che sono stati gli anni '80 (si aprono con l'attentato alla Stazione di Bologna, si chiudono con la caduta del Muro di Berlino, passando per il gol di Paolo Rossi e la tragedia dell'Heysel...e solo chi c'era, posso dirlo, può capirlo, da quelle descrizioni..).
Mi ha intrigato come 'noir', mi ha intrigato coi personaggi, mi ha intrigato con lo schiudersi di mondi paralleli e interpretazioni diverse, rispetto a quella, 'rassicurante' che tutti noi conosciamo..mi ha intrigato perchè io c'ero, nel '77, però, cazzo! avevo solo 7 anni!!!!!
Mi è piaciuto perchè paradossali non erano solamente i tre uomini che realizzavano il titolo:
- Andrea, poliziotto ma neanche tanto ex-settantasettino
- il protagonista (senza nome...o sbaglio?), investigatore privato, ai margini della società quel tanto che basta
- Cristiano, il terrorista, condannato a trent'anni, e conoscitore del Manzoni A MEMORIA (e dico, a memoria, capperi!!)
ma anche tutto il resto dei personaggi marginali e non..terroristi, bastardi, fidanzate morte, e chi più ne ha più ne metta.
Che altro? Me ne sono innamorata, lo ammetto. Mi ha prodotto, ad una prima lettura (e quindi emotiva quanto basta), emozioni che pochi libri mi sanno produrre. Lo rileggerò, comunque, per vedere se anche ad una seconda lettura meno emotiva manterrà le promesse ampiamente mantenute ieri.
Che altro dire? Forse solo "...ho visto cose che voi umani..." a buon intenditor...
A presto
hasta la victoria
Biancaneve, 23 agosto 2004

J. Hösle, Prima di tutti i secoli
Leggere questo libretto è stato come un tuffo nel passato: alzi la mano chi, come Hans e come molti della mia generazione, figli di un cattolicesimo "di maniera", non ha mai fatto almeno una volta le riflessioni che il piccolo protagonista fa sulla fede, sui santi e sui parroci che ascolta durante le funzioni. Si alzi in piedi chi, beato lui, non s'è mai domandato come han fatto i santi ad esser diventati tali; magari con un pizzico d'invidia per queste figure così lontane da noi, invidia sostituita subito con un'alzata di spalle, perchè in fondo tutta questa santità è scomoda da vivere... Il mondo di Hans bambino è un mondo bigotto ed iprocrica, intransigente, che guarda come nemici tutti coloro che sono "diversi"; però, in fondo, è un mondo dove c'è spazio per tutti, perchè spesso l'intransigenza non impededisce la conoscenza e quindi il rispetto per lo stesso altro, come succede alla "povera zia Marta". E' un mondo destinato a ! finire e quello che verrà dopo sarà peggiore oltre l'immaginabile. Ma Hans tutto questo non lo sa ancora, anche se registra il fatto che qualcuno ha sostituito il pio saluto "il Signore sia lodato" con un gracchiante "Heil!"; e continua a raccontare i suoi giorni scanditi da preghire e processioni, attanagliati da sensi di colpa spesso immaginari, generati dai troppi vincoli imposti ad un bambino così piccolo e curioso. Su questa religione egli non ha dubbi, perchè i suoi genitori gli sono da esempio; solo quando il dolore piomberà nella sua vita - un dolore devastante, come solo la morte di una persona cara può essere - solo allora comincerà ad accorgersi che i santi, "quando hai bisogno di loro, hanno sempre la stessa espressione".
Un libro bello, divertente e malinconico al tempo stesso; sono curiosa di conoscere il resto della vita di questo bambino "che balbetta, a volte di più, certe volte meno".
Daniela, 31 agosto 2004
L'Ultimo sparo di Cesare Battisti comincia di corsa e finisce di corsa. Un "delinquente comune" salta a pié pari l'asfissiante tradizione comunista, si immerge come un pesce nella socialità radicale e tumultuosa degli anni ‘70, beve il bisogno palpabile di libertà, uguaglianza, ricchezza di sapere e desideri, si scontra con la repressione dello Stato e con la triste geometria teatragona del partito armato, e - con un colpo di reni finale - si siede "sulla soglia del limbo" e prova a "guardare lontano" approdando all'esilio e - si presume - alla scrittura.
Un romanzo "dromologico" vien da dire, che fa conflagrare le velocità diverse e incommensurabili che hanno distrutto il vecchio e fatto il nuovo in Italia alla fine del secolo scorso.
Qui si scontrano le diverse velocità del desiderio di un nuovo soggetto scolarizzato, precario, che ha in odio l'etica del lavoro e la lentezza della tradizione comunista che non ha saputo che dare degli "untorelli" ai velocissimi e guizzanti virtuosi della mobilità. Il passo pesante dello Stato che ne bracca e distrugge la radicalità politica si incrocia con la "mossa del cavallo" del capitale che riuscirà a trasformare nella sua risorsa produttiva per eccellenza proprio quei comportamenti che gli zelanti custodi del valore della forza-lavoro non riescono né a comprendere né a digerire. L'"eventuale"ed emotiva violenza dell'autonomia impatta la teorizzata porta stretta della lotta armata.
Si vede bene che quando in questione c'è tutto questo non rimane molto spazio per nozioni moralistiche di pentimento e riconciliazione, che infatti sono del tutto estranee alla scrittura ribelle e "irredenta" di Battisti. Una scrittura che trova il suo colpo di genio proprio nello scartare ogni pretesa di riflessione strettamente politica sul periodo e nel mettere invece al centro il racconto "biografico". All'ideologia della politica si contrappone così l'immediata politicità dei comportamenti di una intera generazione che è stata dannata e spogliata di tutto, mentre le sue migliori caratteristiche creative e innovative sono state piegate alle leggi di uno sfruttamento tanto più pervasivo quanto più occulto nei suoi modi.
Elisabetta, 3 agosto 2004


Da Il Messaggero del 12 novembre 2004:

Wu Ming: il futuro è un anonimo letterario [Ah, i titolisti...]

di Giovanna Zucconi

Ho intervistato uno scrittore che in realtà sono cinque, dialogando con tre senza incontrarne neanche uno. Avere a che fare con i Wu Ming costringe a mettere ordine nella questione dell'identità, che coincide con quella della creazione letteraria: chi è l'autore? La creatività è il tema di questa intervista multipla, concentrato di una conversazione via email durata qualche giorno. Quanto all'identità: nel '99 quattro scrittori bolognesi pubblicano il romanzo Q con lo pseudonimo Luther Blissett. Nel 2000 se ne aggiunge un quinto e nasce un nuovo collettivo di scrittura, Wu Ming, che in cinese mandarino significa "anonimo". Wu Ming pubblica un altro corposo romanzo, 54, e firma la sceneggiatura del film Lavorare con lentezza di Guido Chiesa, quello su radio Alice e la Bologna del '77. Ma le identità dei cinque membri della band non sono segrete, ciascuno ha nome e cognome nonché un nome d'arte: Wu Ming 1, 2, 3, 4 e 5, seguendo l'ordine alfabetico dei cognomi. Complicato? Escono anche tre romanzi solisti: da Fanucci Havana Glam di Wu Ming 5 alias Riccardo Pedrini; da Einaudi Guerra agli umani di Wu Ming 2 (Giovanni Cattabriga) e proprio in questi giorni New Thing di Wu Ming 1 (Roberto Bui), già osannato come "la narrazione nazionale che esprime la massima potenza e bellezza quanto a storie, stili, lingue, strutture negli ultimi quindici anni di letteratura di noi che qui viviamo". [Seee, bum! :-)]
Fine della carta d'identità. Sarà un caso [in effetti, sì], ma alle domande sulla creatività hanno risposto proprio i tre Wu Ming che hanno pubblicato romanzi a firma singola.


"Creatività" è una parola che per voi ha un senso, e quale?

«Per un gruppo come il nostro è molto naturale considerare la creatività un fatto collettivo. Diciamo spesso che il genio individuale non esiste, almeno nelle praterie della narrazione. Essere creativi significa fare da terminale, da riduttore di complessità per un enorme flusso di storie, intuizioni, sentimenti. Questo flusso non appartiene mai a un cervello soltanto: la benzina dell'ispirazione sta nel contatto con altri individui e comunità. Tra parentesi, questo è il motivo per cui il testo dei nostri libri è copyleft, liberamente riproducibile, in sostanza: gratuito (lo si può scaricare da Internet, modificare, fotocopiare...). Le storie sono di tutti. Appartengono alla comunità e ad essa vanno restituite».

Il risponditore ufficiale è Giovanni Cattabriga alias Wu Ming 2, però interviene anche Wu Ming 5 (Riccardo Pedrini):
«La creatività è un aspetto dell'istinto di sopravvivenza. È una funzione che pertiene alla mente umana da sempre. Sopravviverà alla "fine" di ogni forma di espressione culturale. Miti delle origini, storie di dei ed eroi, poesia, letteratura, filosofia, storia, pittura, fotografia, cinema, musica eccetera sorgono e si sviluppano in base a cause e condizioni storicamente definite. Non sono forme "a priori" dell'intelletto umano. Sono strategie selezionate dall'interazione con l'ambiente. Proprio perché la creatività appartiene alla specie, l'eventuale "fine" della letteratura non dovrebbe preoccupare. Per migliaia di anni gli uomini hanno vissuto esistenze gioiose e complete "senza" la letteratura. Ciò di cui l'umanità non può fare a meno, piuttosto, è la narrazione: tutte le conoscenze che abbiamo sul mondo sono narrazioni, né più né meno».
E Wu Ming 1, Roberto Bui: «Io comunque dico che se c'è qualcuno che parla di "fine della letteratura" quando ogni anno in tutto il mondo si stampano centinaia di migliaia di titoli di narrativa e proprio mentre la letteratura e la narrazione sono uno dei fenomeni più rivitalizzati dalla blogosfera e da Internet in generale, mi viene da definirli "cascami di pregiudizio idealistico": l'Idea di letteratura coltivata da un pugno di critici e accademici diventa più importante di ciò che succede nel mondo. E' come quando si parla di "morte del romanzo", nonostante il romanzo sia da duecento anni a questa parte la forma letteraria più diffusa, più popolare, più utilizzata, e tutti i media vi attingano senza sosta, a partire dal cinema. Più che di morte del romanzo o della letteratura, parlerei di senescenza dei tromboni: siccome non si scrivono più i romanzi che lessero da giovani, allora non esistono più romanzi tout court».

Che cosa è meglio fare, lavorare sulla scrittura, cercare di modificare il linguaggio visto che non si possono inventare nuove trame? O cedere alla tentazione "massimalista" di rinnovare anche le storie, credere che ci siano ancora molte cose da raccontare?

Di nuovo Wu Ming 2: «Il termine massimalista è esattamente quello che usiamo per definire il nostro progetto narrativo, quando andiamo a presentarlo in giro per l'Italia. Perché dovrebbe essere un cedimento? Ci piacciono le storie grasse, abbondanti, incastonate una nell'altra. Crediamo che i terreni del racconto possano e debbano sottrarsi alle enclosures dell'economia. Troppe volte la nostra vita ha a che fare con la scarsità, l'austerità, la mancanza di risorse, lo stringere la cinghia. Grazie alle storie possiamo sperimentare qualcosa di diverso, e dobbiamo farlo, perché ogni centimetro di esistenza che liberiamo da un'ottica di partita doppia è un pertugio, una crepa dentro la quale far filtrare la vita. Amiamo costruire strutture solide per le nostre trame: scatole resistenti dove pigiare storie fino a dar l'impressione che stiano per scoppiare. La bravura è tutta lì: se la scatola tiene, hai vinto la sfida. Se la scatola scoppia, hai fatto solo casino, e il lettore è costretto a mettere in ordine. Questo non significa che grandi capolavori del minimalismo, come i racconti di Raymond Carver, ci lascino indifferenti. Il problema è che troppo spesso il minimalismo è una scusa per non raccontare, troppo spesso ci regala soltanto noia, e così di rado riesce a riempire la scatola buttandoci dentro solo un paio di mutande».


Come ci si ribella al ricatto della "fine della letteratura?"


«Primo, secondo il metodo di Wittgenstein, dimostrando che si tratta di un non-problema. Quando qualcuno dice che la letteratura è morta, consiglio sempre che gli si faccia un elettrocardiogramma: probabile che sia morto lui. Il critico che dichiara finita la letteratura, sta spesso dicendo che è finita la letteratura-così-come-la-intendeva-lui, che non riesce più a trovare ciò che aveva imparato a considerare letteratura. Secondo, basta far vedere come le storie - e dunque la letteratura, ma anche il cinema, la musica, il teatro... - continuino a svolgere la loro funzione fondamentale, cioè aggregare gli individui, dar vita a comunità in costante trasformazione. Le piccole e grandi comunità di persone che si raccolgono intorno a siti come carmilla o come il nostro, intorno a certi blog, intorno ai molti esperimenti di scrittura collettiva che attraversano la rete, sono solo alcuni esempi possibili - limitati al mondo del web - di come le storie scritte non abbiano ancora smarrito il loro potenziale. Di come nuove storie possano dar vita a nuove comunità. Di come, in definitiva, la letteratura possa ancora cambiare il mondo. O almeno dare una mano».



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