[Il racconto che segue, scritto da Wu Ming 1, è alla base del melologo Canti divergenti, che sarà eseguito per la prima volta stasera a Bologna, Serre dei Giardini Margherita. Il pianista Fabrizio Puglisi e il chitarrista Domenico Caliri hanno composto la musica, una suite per voce narrante, duo jazzistico e ensemble orchestrale. Quest’ultimo altri non è che il FontanaMIX Ensemble diretto da Francesco La Licata.
La serata inizierà alle 20 ed è parte delle celebrazioni del centenario della nascita di Luciano Berio (1925 – 2025). Il programma di sala include anche Chemins II dello stesso Berio e una composizione di Fabio Cifariello Ciardi basata sulla trascrizione strumentale della voce di Hind Rajab, la bambina palestinese a cui è dedicato anche il recente film della regista tunisina Kaouther Ben Hania, intitolato proprio The Voice of Hind Rajab.
Mezzo appuntamento con Luciano Berio è uno spin-off del romanzo Gli uomini pesce. Buona lettura e, a chi verrà stasera, buon ascolto.]
1.
La gondola attende, carica di organi sessuali recisi. I fiori altro non sono. L’uomo omaggia gli amori e le morti con organi riproduttivi strappati ai loro corpi, destinati ad avvizzirsi in pochi giorni o poche ore. Ci sarà forse un’altra dimensione, un altro mondo in cui la specie dominante è un vegetale evoluto che corteggia l’amata o saluta i defunti con mazzi o corone di peni o vulve di vari animali, da odorare tagliati di fresco – senti che profumo – e gettar via quando sono marciti…
Guarda un po’ che vado a pensare si dice Ilario. Forse mi sto occupando troppo di piante?
San Zanipolo trabocca di musica e gente. Dalla basilica fluttuano note d’orchestra, di coro e poi d’organo, un organo che dev’essere colossale, poi s’ode la messa cantata. Ciò che avviene là dentro è intenso, e innalzante, tanto che Ilario immagina la chiesa mollare gli ormeggi e prendere il volo. Una mongolfiera gotica diretta a San Michele, con la folla a giubilare mentre si allontana.
Il campo e l’intero sestiere son pieni di corpi, a migliaia.
E tu pensi di trovare Berio in questa ressa, si dice Ilario. Non solo: pensi di riuscire a parlarci.
Ma sì, siamo mezzi d’accordo, ribatte a se stesso.
Giovedì 15 aprile 1971, mezzogiorno. Negli anni a venire tanti diranno d’esser essere stati qui oggi. Tanti che la città non potrebbe contenerli. Ma già così, con chi c’è davvero,
sono esequie memorabili.
Ed è un giorno feriale, pensa Ilario. Ce n’era di gente che amava Stravinskij…
È perché Venezia è lusingata. Qui il maestro era di casa, e ha chiesto d’esserci sepolto.
Attendere che termini la funzione, seguire il corteo funebre – già, ma come? – e al termine beccare Berio a latere, per farci ‘ste benedette due chiacchiere.
Oppure: niente corteo, beccarlo adesso, al volo, e dargli appuntamento per dopo, un ammazzacaffè in un qualche bacaro prima di lasciare Venezia.
È il problema dell’essere mezzi d’accordo. Ne manca metà.
Mentre attende, Ilario torna con la mente al loro primo incontro.

Igor Stravinskij, 1882 – 1971.
2.
Berio è appena tornato da New York.
Sono due ritorni, in realtà. Uno dentro l’altro, come le matrioske che proprio ora gli tornano in mente, mentre ascolta il coro prorompere:
Dies irae,
dies illa.
Le bambole russe in casa del maestro, a Hollywood. North Wetherly Drive, vicino all’incrocio con Sunset Strip.
Il ritorno piccolo e contingente. Deciso su due piedi per il secondo funerale, il funerale vero, l’evento che passerà alla storia. A Manhattan non c’è stato che un preludio.
E il ritorno grande, definitivo. Il rientro in Italia dopo quasi dieci anni. L’America, questa volitiva sineddoche, è tanta, ti dà sempre il tutto per la parte, è un corno dell’abbondanza di stimoli, di soldi, di futuro, ma la scorpacciata alla fine stomaca, e ti manca l’Europa.
E pensare che il maestro, homo Europaeus in ogni fibra, è rimasto oltreoceano per… quanti anni? Quasi trenta.
A Los Angeles, ma con una capra in cortile, che fa tanto racconto di Gogol’ o Turgenev. La teneva per berne il latte, che gli piaceva tanto.
Con l’approssimarsi dell’epilogo, col corpo che annunciava il cedimento, anche lui si era deciso a tornare in Europa. Ci sono persone che non possono morire americane. Troppo vecchio mondo, dentro di loro, e in fondo all’anima di Stravinskij c’era un bimbo di Oranienbaum. L’Oranienbaum fin de siècle.
Così s’era trasferito a New York, una tappa di riavvicinamento. L’Europa era là in fondo, oltre la pozzanghera.
Il Golfo di Finlandia, dov’era venuto al mondo.
Parigi, dove aveva fatto scalpore e ottenuto la fama.
Venezia, la città che più aveva amato, dove oggi le sue spoglie concludono il viaggio.
Prendere un aereo e attraversare l’oceano pur di assistere a due riti funebri, uno in fila all’altro, della stessa persona.
Sorvolare l’Atlantico pensando: lo sta facendo anche la salma. Non capita ogni giorno.
Luciano lo sente come un dovere. In tutta la sua vita, l’incontro più sconquassante,
il più innamorante che ha avuto – musically speaking, of course – è stato quello con lui,
Igor Fëdorovič Stravinskij. Le Sacre, Les noces, la Sinfonia di Salmi… Ha avuto poi l’onore di incontrarlo, e più di una volta. Ne ha anche registrato la voce. Prima o poi la userà, ci farà qualcosa, ma solo se non parrà predatorio, o comunque irrispettoso.
Il rosa dei crisantemi.
Il mogano della bara.
Il rosso del drappo sul catafalco.
Il bianco abbacinante dei ceri, alti come… come Primo Carnera.
Ah. Come mai quell’associazione?
Ma certo: un altro che non volle morire in America.
Le mani di Craft che dirige l’orchestra.
Il pope dalla lunga barba nera fa oscillare il turibolo.
Addio, padre, e grazie.

Giorgio Strehler con Bertolt Brecht, Milano, 10 febbraio 1956.
3.
La prima italiana dell’Opera da tre soldi. Al Piccolo di Milano, regia di Strehler. Davanti a Brecht in persona! Che anno era?
Doveva essere il ’56.
Allora… Forse Brecht non c’era? È morto proprio quell’anno…
Forse ricordo male, pensa Ilario. Ma sull’incontro con Berio la memoria è nitida. Quattro chiacchiere per caso nel foyer e a un certo punto:
– Ah, ma Lei è Ilario Nevi, il regista di documentari.
– Sì, e Lei è il collega del mio amico Maderna, in quello strano covo dove fate la musica tecnologica.
– Ogni musica è tecnologica, – risponde Berio sorridendo. – Anche il più misero zufolo è una macchina.
Sono subito passati al tu.
– Forse lo sai già, allo studio di fonologia abbiamo fatto una cosa che può ricordare il tuo lavoro, ma per la radio. Una specie di documentario, ma è prosa poetica con suoni elettronici, si intitola Ritratto di città. È pronto da un anno, ma chissà se lo trasmetteranno mai…
– Dentro la Rai siete le cenerentole, eh? Coi vostri aggeggi misteriosi, figurarsi, che potranno mai capirne quei cioccapiatti…
Poi Ilario ha dovuto spiegare «cioccapiatti».
Berio ha descritto in breve quella sorta di radiodramma. Ilario si è incuriosito: – E se venissi ad ascoltarlo lì da voi?
Poi si sono salutati, ché Strehler impelleva.
Si sono rivisti un altro paio di volte, quando Ilario capitava a Milano. Era là nel ’61, alla prima esecuzione di Visage. Un altro radiodramma, ma con parole che non erano parole, frasi che non erano frasi, proferite in nessuna lingua eppure evocandole tutte. Una sequela di vocalizzi, gemiti, grida, risate, mugolii con il labbro tra i denti, incisi su un un nastro magnetico che ora, sputandoli come dardi, forava una cortina, o un imene di suoni elettronici. Era la voce, più volte tagliata e ricomposta, di Cathy, mezzosoprano, moglie del compositore e sua complice di scorribande. A tratti sembrava una bimba in piena lallazione, ma ma, ba ba… Più spesso un’amante in piena foia che scala la montagna dell’orgasmo, diretta al picco. Non era solo la voce, era… tutto il corpo. Non è mancato l’imbarazzo, molti volti erano arrossiti – forse per questo s’intitolava Visage? – e più di uno in sala avrà avuto un’erezione.
Poi, col fatto che Berio era in America, non si sono più sentiti. Fino a due mesi fa. Saputo che era di nuovo a Milano, tramite Maderna ha avuto il numero e lo ha chiamato.

«Qualcosa resta sfuggente».
4.
Il pope, barba nerissima e baffoni all’insù da corsaro, intona l’inno.
Eterna memoria del Tuo servo, o Signore,
eterna memoria del Tuo servo, o Signore,
concedigli riposo in un luogo di luce,
in un luogo verde,
in un luogo di frescura,
ove riposano gli altri giusti.
Un luogo di luce.
Un luogo verde.
Vieni a farti un giro nel Delta e capirai, ha detto Nevi.
Già. Dopo le esequie, o al margine di esse, Berio ha un «mezzo» appuntamento con quel regista. Venuto da Ferrara con in mente una proposta.
Si sono incontrati… quante volte? Tre, quattro, tra fine anni Cinquanta e primi Sessanta. Non si vedono da allora.
Nevi… Ha sempre esercitato su di lui una… Un’attrazione, qualcosa che non sa dire. È uscito da ogni incontro provando contrasti tra emozioni, ammirato ma anche frustrato. Qualcosa resta sfuggente, in quell’individuo. Che pure è così charmant.
La sua telefonata… La prima, quella più lunga… Che straniante esperienza. Dopo tutto quel tempo, giusto un saluto, svelti convenevoli ed è partito in quarta citando Brecht.
«Ein Gespräch über Bäume fast ein Verbrechen ist».
Parlare di alberi è quasi un crimine, quando tutt’intorno si compiono stragi. Ma Nevi ha cambiato le carte:
– Oggi non parlare di alberi è delittuoso. Parlare di alberi significa sempre più parlare di stragi. A tal proposito, ora che sei di nuovo a tiro, ho una proposta da farti. Una collaborazione.
A quel punto, non sa il perché, Berio si è schermito.

Luciano Berio (1925 – 2003) in un fotogramma della serie Rai C’è musica e musica (1972).
5.
– Per la verità non sono proprio “a tiro”…
– Non torni in Italia in pianta stabile? Così mi han detto.
– Sì, ma… Mi sono imbarcato in un progetto che mi porterà molto in giro, una cosa per la televisione che ho scritto con Vittoria Ottolenghi, non so se la conosci…
– Lei no, ma ho conosciuto la sorella, che è attrice.
– Insomma, facciamo un documentario a puntate sulla musica, con decine di interviste a miei colleghi in giro per il mondo. La Rai dovrebbe trasmetterlo l’anno prossimo, in prima serata.
– Addirittura. Non sono più i tempi delle cenerentole, ne deduco. Il regista chi è?
– Mingozzi.
– Gianfranco? Lo conosco benissimo, è delle mie parti. Anzi, salutamelo, quando lo senti. Ecco, in un certo senso questo mi fa da apripista: vorrei che componessi musiche originali per un mio progetto.
– Un film.
– Esatto. Un mediometraggio.
– E vorresti da me la colonna sonora.
– Ancora esatto.
– Non ne ho mai composte, non so se è nelle mie corde. Sai che ha detto una volta Stravinskij? Che la musica può sposarsi con le parole o con le immagini, ma con entrambe è difficile, diventa bigamia.
– O libero amore.»
– Ma scusa, con tutti i musicisti specializzati che ci sono… Perché non chiedi a Macchi, per dire?
– Lo chiedo a te perché ho seguito il tuo lavoro, e so che hai fatto di tutto, sei uno che aggiunge frecce al suo arco.
– Ho anche suonato i timpani al Lirico in una rivista di Wanda Osiris, se è per quello…
– Pensa te cosa si viene a sapere! Quando è stato?
– Nel ’49. Avrò fatto di tutto, però non faccio tutto.
– Non pretendo mica che accetti su due piedi e a scatola chiusa. Se ci vedessimo di persona, potrei spiegarti bene.
– Beh, intanto, se mi fai degli accenni…
6.
Ilario li ha fatti, ma l’altro è rimasto sul vago.
– Va bene, ne parleremo, aggiorniamoci più avanti.
– Vieni a farti un giro nel Delta e capirai.
– Non appena tiro il fiato.
Dopodiché, ambedue hanno avuto da fare, altro da pensare.
Finché Ilario non ha letto di Stravinskij, del suo decesso, delle spoglie che sarebbero partite alla volta di Venezia per l’ultimo saluto. Tra una settimana, ha pensato, e Berio ci sarà. Non potrà non esserci.
Ogni giorno ha provato a chiamare, col telefono che a Milano trillava a vuoto.
Tre giorni fa, lunedì 12, qualcuno ha alzato la cornetta.
– Hello? – ha detto una voce stanca, e subito si è corretta: – Pronto.
– Pronto, sono Ilario Nevi. Spero di non disturbare.
– Ciao, non preoccuparti, è il jet-lag… Ho fatto andata e ritorno con l’America neanche fosse Genova-Imperia…
– Ci metto la mano sul fuoco che giovedì sarai a Venezia.
– Sono tornato prima apposta.
– Ci sarò anch’io. Se non è troppo osare, possiamo darci un mezzo appuntamento? Per parlare di quell’idea…
Ed eccolo qui. Mentre ascolta l’organo, Ilario si rumina in testa le parole.

Valle Falce, il Bosco della Mesola e la Sacca di Goro negli anni Quaranta del XIX secolo.
7.
Nel Delta del Po c’è un antico bosco, detto «della Mesola».
È uno scampolo delle foreste che un tempo coprivano il litorale adriatico, dietro i magnifici cordoni di dune. Sono lecci maestosi, e dentro è una meraviglia, ci sono i cervi. Cervi di una specie autoctona, mai usciti di lì, a un passo dal mare, a pochi chilometri dai villeggianti.
Fino all’anno scorso, accanto al bosco c’era una palude, o valle, come le chiamiamo noi, valle Falce. Anche quello un posto d’incanto, uno scrigno di ricchezze naturali. Adesso non c’è più. L’hanno «bonificata», così dicono. Dalle mie parti sono decenni che si prosciugano valli in modo forsennato, sono luoghi preziosi che stiamo perdendo. Vogliono andare avanti finché non ne resterà un metro quadro. Da quando han prosciugato valle Falce, la falda acquifera si è abbassata, e nel bosco i lecci han cominciato a seccarsi.
Questi pazzi vanno fermati. Io provo a dare un contributo, per quanto piccolo. Il film vorrei chiamarlo Valle di lacrime.
Conosco i lavori che hai fatto con l’elettronica e la voce umana. Sarebbe bello dar voce alla valle, al bosco.
Ho sentito anche le tue Folk Songs, si potrebbe lavorare sulla canzone degli scariolanti:
A mezzanotte in punto,
si sente un gran rumooor…
E un gran rumor in effetti si sente, quello della folla che applaude il feretro. Lo stanno portando fuori dalla chiesa, per caricarlo sulla gondola.
8.
Una gondola portava il feretro, un’altra la precedeva con a bordo pope e chierici. La calca le seguì lungo il Rio dei Mendicanti, fino al ponte, finché poté, intasando le fondamente e impedendo a Ilario di farsi strada. Altre gondole formarono uno sciame e poi un acquatico corteo funebre, che si staccò da riva e traversò il canale, volto all’isola di San Michele, al cimitero.
Ilario arrivò, trafelato, che già erano puntini lontani. Certamente Berio era là, pensò. Cercò a sua volta una gondola, ma erano tutte prese.
È il problema dell’essere mezzi d’accordo. Ne manca metà. Quando non esisteva la telefonia mobile, supplire a tale mancanza era difficile, talora impossibile.
Ilario, come suol dirsi, se la mise via.
Quanto a Berio, per un attimo si chiese se Nevi fosse mai arrivato a Venezia…
Dopodiché, pensò ad altro.
Che suono fa un’idea che cade nel vuoto?
Dall’indomani, il regista e il compositore furono di nuovo ghermiti dai loro impegni. Ilario pensò che l’idea di coinvolgere Berio fosse nata sotto una cattiva stella e serenamente vi rinunciò.
Come da suggerimento, contattò Egisto Macchi.
La colonna sonora di Valle di lacrime uscì su vinile per l’etichetta Ayma nel 1974. Oggi è introvabile, anzi, sarebbe il caso di ristamparla.
Ilario Nevi e Luciano Berio forse si sentirono ancora al telefono, o forse no.
Quel che è certo: non si incontrarono mai più.