«Raccontare altrimenti». Cinque domande su letteratura e storia

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Poco meno di un anno fa, WM4 e WM2 hanno partecipato al convegno annuale dell’Associazione per gli Studi di Teoria e Storia Comparata della Letteratura. Titolo: L’immaginario politico. Impegno, resistenza, ideologia. Trattandosi di un appuntamento accademico di quelli tosti, i due si sono limitati a conversare, alla conclusione dei lavori, con Federico Bertoni, Emanuela Piga, Clotilde Bertoni, Daniele Giglioli e Guido Mazzoni.
In margine a quella chiacchierata, Federico Bertoni ha intervistato WM2 per la rivista digitale TransPostCross (N.1, Anno 4). Il risultato dello scambio è da poco on-line, insieme con altre “cinque domande su letteratura e storia”, rivolte dalla redazione ad Adelchi Battista ed Helena Janeczek.

Abbiamo pensato di riproporre l’intervista qui su Giap, dal momento che quelle domande sono state anche l’occasione di un bilancio, su quel che abbiamo imparato scrivendo romanzi storici, e un assaggio di quel che stiamo tentando di fare al di là di quella forma.
Segnaliamo che nello stesso numero della rivista compare anche un saggio di Emanuela Piga, Dalla storia alla letteratura: il ritorno del sommerso nel campo di battaglia del testo letterario, dove si parla di Timira. Romanzo Meticcio e di altri due romanzi sul “rimosso coloniale”, di cui scrivemmo quando Giap era ancora una newsletter: Regina di fiori e di perle, di Gabriella Ghermandi e Le rondini di Montecassino, di Helena Janeczek.

Cinque domande su letteratura e storia.
(Qui il testo in formato PDF)

Federico Bertoni: Sembrano passati secoli da quando neoavanguardisti e sperimentatori polemizzavano contro La storia di Elsa Morante. Nel frattempo varie tendenze artistiche si sono accavallate nel tentativo di archiviarsi l’un l’altra, con gran dispendio di prefissi su cui si ironizza anche nel titolo di questa rivista: Trans- , Post- , Cross- , Iper- … In questo contesto, sia in Italia che all’estero, riprende vigore il romanzo storico (o neostorico , secondo alcuni), con esiti commercialmente molto vistosi, dopo che il Novecento l’aveva collocato in una zona abbastanza marginale. E una volta tanto, produzione narrativa e riflessione critica sembrano muoversi di concerto, come dimostrano tanto gli scaffali delle librerie quanto le bibliografie accademiche. La prima domanda è quindi banale ma inevitabile: perché si scrive tanto di storia? Perché la storia fa problema, proprio in un’epoca spesso descritta in termini di “eterno presente” e in cui la coscienza storica, nel migliore dei casi, viene confusa con l’ossessione della memoria? C’è un nesso tra questo interesse e l’anelito a una nuova funzione politico-sociale della letteratura, dopo la (presunta) “fine del postmoderno”?

Wu Ming 2: Penso che il rinnovato interesse per la storia sia dovuto a un incrocio di fattori. Il primo è lo smarrimento : l’individuo che si perde nel bosco, solo, senza mappa né bussola, circondato da tronchi a perdita d’occhio, d’istinto cerca di tornare sui propri passi, in cerca di un punto di riferimento, se non addirittura del luogo di partenza. Questo stesso istinto – che non è ancora “coscienza storica” – mi pare fondi l’attuale brama di passato, la ricerca di un punto d’origine del presente. Credo che le persone intuiscano, fiutando l’aria, quello che Jameson affermava venticinque anni fa: nel tardo capitalismo è solo “storicizzando sempre” che possiamo recuperare una distanza critica, e costruire mappe cognitive con le quali orientarci. Il secondo elemento è il sospetto. L’idea che la vulgata storica è “scritta dai vincitori” e contiene verità parziali, inganni e censure è ormai moneta comune. Le reazioni a questa consapevolezza sono disparate: si va dal complottismo alla disillusione, ma è raro che la master fiction sia l’unica storia che uomini e donne si sentono raccontare. A questo, aggiungerei un terzo elemento, l’archivio. La disponibilità di documenti, fonti, saggi e testimonianze è aumentata in maniera esponenziale. Esperienze un tempo riservate agli storici di professione, oggi sono alla portata di chiunque. Con lo stesso motore di ricerca, quotidiano e banale, che usi per trovare la ricetta del purè di fave, puoi imbatterti nel casellario politico centrale di epoca fascista. Inciampare nei frammenti di vicende dimenticate è molto più facile di un tempo, ma questo naturalmente non ci trasforma in storici professionisti, anche se purtroppo c’è chi non vede la differenza. Più spesso, quell’inciampo genera frustrazione, perché il frammento ritrovato non trova a sua volta un quadro di riferimento, oppure lo trova, ma è proprio quella vulgata storica dalla quale ci si vorrebbe affrancare: il frammento diventa semplice complemento, piccola aggiunta che avvalora la vulgata, invece di metterla in crisi. Ecco allora che, come quarto elemento, la fiction si propone di mettere insieme i frammenti, di cucirli in una trama che restituisca loro un senso, una verità narrativa abbastanza solida da opporsi alla master fiction. Ci si rivolge alla fiction perché non di rado i saggi più rigorosi sono o troppo specifici (cioè limitati al frammento) o troppo vasti (cioè meno attenti al dettaglio). La narrativa, invece, può fornire una via di mezzo tra la particolarità dei personaggi e l’universalità dei significati. In questo suo ruolo, direi epistemologico, sta la sua funzione sociale, e dunque la sua responsabilità politica.

F.B.: Una porzione rilevante di narrazioni storiche novecentesche si iscrive in quella che Annette Wieviorka ha chiamato “l’èra del testimone”, soprattutto in rapporto alle tragedie del “secolo breve” e al suo epicentro traumatico, paradigma interpretativo di un’intera fase storica, la Shoah. Ora, per ovvie ragioni anagrafiche, quell’èra si sta avviando al tramonto, mentre si affacciano sulla scena letteraria scrittori di generazioni successive che non hanno esperienza diretta dei fatti ma che si dedicano a un minuzioso lavoro di ricostruzione storiografica o di evocazione “negromantica”, per risuscitare i fantasmi di epoche più o meno lontane (un caso letterario internazionale, qualche anno fa, è stato Jonathan Littell con Le benevole ). In questo, c’è forse un ritorno parziale ai metodi e ai paradigmi del romanzo storico classico, che si è sempre fondato su uno scrupoloso lavoro di documentazione. Ma da allora molte cose sono cambiate, incluse le forme di circolazione delle (e di accesso alle) informazioni, nonché il loro stesso statuto. Siamo ormai nell’”èra dell’archivio”, dove il confronto non è tanto con l’esperienza accumulata ma con un repertorio sempre più vasto di documenti, rappresentazioni, testimonianze mediate. Quali sono dunque le sfide e le strategie di un narratore che lavora in questo nuovo contesto? Non c’è il rischio di cadere in ciò che Fredric Jameson chiama “nostalgia” (di cui tanto oggi si torna a parlare), cioè “il disperato tentativo di appropriarsi di un passato perduto” attraverso immagini, simulacri, stereotipi, citazioni neutralizzate in una forma di pop history ?

WM2: La scomparsa dei testimoni diretti, dal punto di vista della letteratura, è un’occasione di rinnovamento, perché il romanzo, con i suoi personaggi, viene chiamato a costruire una nuova testimonianza, per quanto artificiale e in provetta. La cosiddetta “èra del testimone” non di rado si è trasformata in una dittatura, dove “io c’ero” diventava l’unica legittimazione, la garanzia definitiva di verità. Quando si ha di fronte una persona viva, che ha vissuto un determinato evento, è molto difficile separare il fatto della sua memoria dalla sua memoria dei fatti, cioè capire che, in una testimonianza, l’unico evento che davvero accade è la testimonianza stessa. Un evento, tra l’altro, che non è contemporaneo agli episodi ricordati, ma alla nostra ricerca su di essi. Il ricordo è adesso, non allora. Eppure, il più delle volte capita di concentrarsi sul riferimento di una memoria – sui fatti che essa descrive – piuttosto che sul suo significato cioè sulla descrizione di quei fatti, sul modo di darsi di quel riferimento e sulle strade che l’individuo sceglie per provare ad afferrarlo. Sotto questo aspetto, credo che la testimonianza in provetta, costruita da un romanzo a partire dall’archivio, possa essere meno ambigua. Chi sfoglia le pagine di un romanzo dovrebbe sapere che non sta maneggiando “verità storiche”, e che il riferimento di un romanzo non coincide mai con il mondo reale. Il romanzo storico è un invito a ragionare proprio sul significato degli eventi, sui tanti e differenti sentieri linguistici che imbocchiamo per attingere i fatti della Storia. Mentre lo stereotipo , la vulgata storica infarcita di cliché, cerca in tutti i modi di negare la distanza tra il proprio discorso e i fatti, il romanzo storico esalta quella distanza, la moltiplica, la mette sotto gli occhi del lettore e lo invita a percorrerla. O per lo meno: dovrebbe farlo, se davvero vuole proporsi come alternativa alla master fiction , ma non nel senso di verità alternativa che la sostituisce, monumento al posto del monumento; alternativa nel senso che racconta altrimenti, con altre modalità, senza cercare false consolazioni o verità di comodo.

Quanto al pericolo della “nostalgia”, credo che l’antidoto consista in un approccio “caldo” al materiale d’archivio, ai documenti e anche agli stereotipi . Intendo dire che il passato è perduto, ma non del tutto . Non posso fare esperienza diretta della Presa della Bastiglia, non la posso vedere con i miei occhi, però la posso sentire. So cosa significa ribellarsi, e l’ingiustizia l’ho provata spesso sulla pelle. So cosa si prova in un tumulto di strada, e se non lo so, posso provare a capirlo, ricostruendo con attenzione un certo contesto e rimanendo sensibile. Se sono un narratore autentico, posso trasmettere queste emozioni al mio pubblico, senza farmi prendere da quella nostalgia che nasce invece dal distacco totale, dall’impossibilità di riavere l’oggetto del proprio desiderio. Ne posso riavere un pezzo, e forse il pezzo più importante.

F.B.: Un “componimento misto di storia e d’invenzione”: la vecchia formula di Manzoni metteva l’accento sullo statuto ibrido del romanzo storico, genere fondato su un “assunto intrinsecamente contraddittorio”, a indicare che già nella versione classica la distinzione tra realtà e finzione era meno pacifica di quanto si pensi abitualmente. Sta di fatto che, nella narrazione storica contemporanea, la commistione tra fact e fiction è giunta alle estreme conseguenze, anche perché i paradigmi di verità e la stessa autorevolezza della conoscenza storica si sono indeboliti. Quali sono le opportunità e i rischi di questa indistinzione? Ha ancora senso parlare di verità (storica, poetica, finzionale)? E quel che un narratore guadagna, in termini di penetrazione storiografica, non rischia di costeggiare facili mode alimentate dall’industria culturale (alla Dan Brown, tanto per intendersi)?

WM2: Se si sceglie di mescolare fatti e finzione, bisogna sapere che si tratta di un processo irreversibile. Capita che i lettori, dopo aver letto un nostro romanzo, ci chiedano di distinguere la storia vera dalla finzione verosimile, ovvero la finzione basata sull’archivio da quella basata sull’invenzione, e ancora i documenti storici da quelli ipotetici, e così di seguito, in un processo a cascata che nella maggior parte dei casi non può arrestarsi al livello dei singoli capitoli, ma dovrebbe analizzare ogni singola riga. Propria l’impossibilità di separare gli ingredienti originali della miscela, dovrebbe spingere il lettore a concentrarsi sul significato, quella che potremmo chiamare verità poetica. La stessa struttura del romanzo dovrebbe suggerire al lettore di non leggere con l’intento di apprendere fatti nuovi, ma nuovi significati. Obiettivo del romanzo storico, infatti, non è quello di affermare nuove verità di fatto, ma di falsificare vecchie narrazioni ormai logore. Sbriciolare la storia monumentale, non costruire un nuovo monumento, più vero del primo. O meglio: sbriciolare il monumento, per poi combinare i frammenti in una nuova struttura, come fanno i bambini con i giochi di costruzione. Il prodotto di quei giochi ha una caratteristica fondamentale: non è mai definitivo, si può smontare e rimontare a piacere, ed è il prodotto stesso, la costruzione, che dichiara: “io sono fatto di pezzi”. Chi la guarda vede bene le giunture, sa che non si tratta di una statua di marmo, e in un certo modo inizia anche lui a giocare nel momento stesso in cui osserva la costruzione, ne studia i pezzi, immagina di muoverli, la smonta e la rimonta col pensiero. Un romanzo storico onesto dovrebbe fare quest’effetto al lettore, e tener conto che il pubblico di oggi non è più il pubblico di Manzoni. La stragrande maggioranza dei documenti che utilizziamo e trasformiamo per costruire i nostri romanzi, non si trovano in archivi polverosi, accessibili solo a una setta di esperti: stanno lì, a un clic di distanza da chiunque voglia andarseli a studiare. Questo, in un certo senso, rende lo scrittore ancor più libero di emulsionare fatti e finzione, perché l’archivio di partenza di quel processo è in qualche modo condiviso, e il lettore curioso può ricostruire il processo stesso, interrogarsi sulle scelte dell’autore, comprendere più a fondo la verità poetica che egli aveva in mente. Tutto questo, però, a patto di rispettare i contesti. L’intrico di fatti e finzioni ha un senso solo se il contesto nel quale quell’intrico si inviluppa è ricostruito con attenzione e rigore. Non si tratta di disegnare con più o meno dettagli di realtà lo sfondo sul quale si muovono i personaggi. E’ l’idea stessa di sfondo a essere scorretta: il romanzo storico non può più accontentarsi di un’ambientazione storica, ma deve interagire con una vera e propria realtà aumentata. Se a livello dei singoli eventi la storia procede per ipotesi narrative, anche controfattuali, al livello del contesto non posso fare altrettanto. O meglio: posso farlo, ma se lo faccio dev’essere una mossa dichiarata, talmente dichiarata che quel romanzo storico diventa ucronia, fantascienza. Posso inventarmi di sana pianta la vicenda di un piccolo gerarca fascista di provincia, ma se il fascismo che racconto non si confronta con le leggi razziali, non sto più scrivendo un romanzo storico. E anche nel caso volessi fare un romanzo ucronico dovrei comunque chiedermi: è davvero possibile un fascismo che, fatto salvo tutto il resto, non giunga a promulgare le leggi razziali? O che magari – come il franchismo – eviti l’entrata in guerra a fianco di Hitler? Anche un romanzo ucronico, in fondo, ci costringe a prendere posizione sulla storia, a distinguere eventi marginali e fondanti. Non si può fare letteratura impunemente.

F.B.: Vorrei spostare decisamente l’accento sulla posta in gioco politica della narrazione della storia. Moltissimi romanzi contemporanei condividono infatti un assunto che potremmo riassumere con una nota massima di Don DeLillo, prestata al personaggio più paranoico di Libra: “la storia è la somma totale delle cose che ci tengono nascoste”. Non si tratta esattamente di una novità, se già un adepto del segreto come il Vautrin di Balzac diceva che “ci sono due storie, la storia ufficiale, menzognera, che viene insegnata, la storia ad usum Delphini; poi la storia segreta, in cui ci sono le vere cause degli avvenimenti, una storia vergognosa”. Ma anche in questo caso, l’immaginario contemporaneo ha amplificato e radicalizzato un’idea tradizionale, rischiando di gettarla nel meccanismo usurante del luogo comune e disinnescarne il potenziale critico. Come bisogna lavorare, da scrittori, per evitare che perfino la controstoria diventi una moda? Quale intelligenza strategica può decostruire la master fiction di un sistema economico-culturale sempre più pervasivo, capace di metabolizzare e di volgere a suo profitto anche le espressioni di dissenso?

WM2: Anzitutto, credo che non ci dobbiamo spaventare per il mostruoso appetito dell’industria culturale – e più in generale del capitalismo avanzato. Si tratta di un sistema vorace, che non può trattenersi dal consumare, cioè dal trasformare in risorsa qualunque soggetto finisca nel suo campo visivo: dalle foreste, alle relazioni, alla critica stessa. Tuttavia, non vogliamo smettere di dire “ti amo”, solo perché quella frase è ormai associata a soap opera e cioccolatini. Dobbiamo solo trovare un modo autentico per dirlo. Non a caso, l’ autenticità questa parola così fuori moda – è una delle virtù alle quali la letteratura si appella più spesso, ma allo stesso tempo, una delle più difficili da definire. Il ricorso alle emozioni contro il distacco nostalgico, di cui parlavo nella risposta precedente, va proprio nella direzione di un racconto più autentico, ma è chiaro che anche le emozioni possono essere simulate, o usate come foglie secche per coprire una trappola. La sfida, mi pare, è quella di dar conto di sé, come sostiene Judith Butler: non pretendere di costruire una controstoria neutra, o neutrale, oppure assolutamente universale, cioè consolatoria. Tutto quello che non sapete è vero, recita il titolo di un libro di Beppe Grillo. Al contrario, produrre controstorie con incorporata la propria parzialità, con una prospettiva dichiarata, e allo stesso tempo, cercare di connetterle tra loro, perché la loro parzialità non si trasformi in marginalità, magari scambiata per pensiero radicale, quando invece è la ciliegina che fa più bello il dessert del Capitale.

Un altro condimento indigesto, da aggiungere all’ autenticità, è il conflitto, l’Uno che diventa Due, e il Due che diventa Quattro. Oggi si fa un gran parlare di storytelling come strumento di propaganda. Ebbene, se consideriamo la pubblicità come la narrazione ideale del capitalismo, allora dobbiamo sabotare il divenire-pubblicità delle nostre controstorie. Una delle tossine narrative più evidenti della pubblicità è proprio la mancanza di conflitto, la riduzione ad Uno. Il che, tutto sommato, significa che la pubblicità non fa davvero storytelling, perché una delle caratteristiche irrinunciabili della narrazione è proprio l’inciampo, la violazione della norma. Se tutto torna, allora non c’è racconto, c’è soltanto piatta cronaca. Ma una violazione, per essere tale, deve produrre conflitto. Altrimenti, è la classica differenza che non fa differenza, ovvero una differenza che non ha significato. Dunque, le nostre controstorie saranno davvero contro, davvero indigeste, se si concentreranno su quel che non torna (da una determinata prospettiva), senza cedere alla tentazione di far tornare tutto, ma con l’obiettivo di raccontare perché non torna, qual è la posta in gioco, quali le parti in causa, quali le ragioni e le emozioni contrapposte (e non da ultimo: cosa succederebbe se una delle parti in conflitto avesse la meglio? Quali nuovi conflitti potrebbero nascere? Quanti nuovi Due si produrrebbero, dentro quell’apparente Unità?)

F.B.: Vorrei chiudere tornando alla nostalgia. Mi chiedo cioè se il ritorno a un passato più o meno remoto possa funzionare (anche) come meccanismo compensativo, come apparato di risarcimento simbolico con cui surrogare una pienezza di senso che manca nel presente. La Storia come forma possibile di un vuoto? Lo storico e il narratore come negromanti? Le gesta di vecchi fantasmi come esorcismo della nostra impotenza? Tesi troppo provocatoria e tendenziosa? O forse solo bisogno di trovare i nostri miti (anche) nel presente?

WM2: A proposito del mito, Furio Jesi diceva che la macchina mitologica potrebbe anche essere vuota, ma che è necessario fermarsi sul bordo di quel possibile vuoto, non lasciarsi prendere dalla vertigine, e sforzarsi di capire lo stesso come funziona la macchina.

Il ritorno al passato, per noi, nasce dal bisogno di capire come funziona la macchina della storia: come si produce l’oblìo, e come lo si può colmare. Come si produce e si diffonde il falso, e come lo si può contrastare. Come si produce la vulgata, la storia monumentale, e come si può sbriciolare il monumento. Naturalmente, si tratta di un’indagine portata avanti con strumenti narrativi, e la sua ricaduta sul presente è prima di tutto critica : grazie alla distanza temporale, grazie ad archivi parzialmente ordinati, raccontare la Storia diventa una palestra del raccontare altrimenti, una palestra dove si rafforzano muscoli critici e consapevolezze che possono aiutarci a raccontare altrimenti anche l’oggi, a individuare le tossine della narrazione dominante e a contro-narrare in maniera efficace e davvero alternativa, non solo nei contenuti, ma soprattutto nelle forme, nelle modalità testuali.

Fatto questo, non disdegniamo certo la dimensione mitopoietica del raccontare il passato. Pensiamo anzi che troppo spesso le culture alternative hanno guardato al mito con sospetto: spaventate dal vuoto (o dal pieno) della macchina mitologica, hanno preferito tenersene lontane, e quando l’hanno usata, lo hanno fatto in maniera inefficace, consegnando sempre più vaste porzioni di immaginario alla mitocrazia. Invece, crediamo che si debba insistere nel tentativo di evocare miti genuini, storie malleabili, sempre in movimento, che diventano luoghi d’incontro di una comunità, senza che questo significhi scendere a patti con la propaganda o con la retorica celebrativa di certi anniversari.

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