
Macao, 澳门, Repubblica Popolare Cinese
Non mi capita spesso di andare a Milano: negli ultimi due anni un po’ più spesso, per via di un corso di drammaturgia che tengo alla NABA. In febbraio le lezioni teoriche e a maggio tre giorni intensivi, otto ore al giorno, di laboratorio pratico. L’anno scorso, durante la tre giorni, Giuliano Pisapia ha vinto le elezioni e mi sono fatto travolgere dai festeggiamenti. Quest’anno, lo sgombero di Macao. I milanesi mi spieghino: è una coincidenza, oppure in quella città lì succede qualcosa di grosso ogni settimana?

Macao, v^^, Milano
Piccoli retroscena di un pomeriggio di passione: venerdì scorso, uno degli studenti mi manda una mail. “Prof, che ne dice se dirottiamo la lezione a Macao?”. Va bene, rispondo, e mi vedo recapitare un modulo molto professionale, dove indicare di cosa parlerò e con quali obiettivi, per poi spedirlo all’indirizzo di Macao Formazione. Urca, penso, questi fanno sul serio. Ma siccome non ho un’idea precisa di che lezione fare – non posso proporre il laboratorio sui testi, non fregherebbe a nessuno – chiedo che l’argomento lo si costruisca insieme, provo a capire cosa interessa e cosa no, ci metto dentro, come proposta, anche i temi del nuovo romanzo in uscita. A quel punto, silenzio telematico. Dico: ok, questi fanno sul serio ma c’hanno di sicuro le loro gatte da pelare. Improvviserò, non c’è problema. Quindi lunedì sera, dopo il primo giorno di laboratorio, vado alla Torre Galfa, e per la prima volta vedo il grattacielo di Macao, 30 piani, tutto illuminato di blu. Un dito medio color cobalto alzato in mezzo alla città, dritto in faccia alla sede regionale. Dentro, tra cavi elettrici volanti e muri scrostati, un’energia di corpi, voci e pensieri. Slogan, prese di posizione, racconti e documenti coprono le pareti e le fanno parlare. Mi confermano la lezione, anche se temono lo sgombero. Va bene, dico, e di che parliamo? “Abbiamo discusso a lungo, e alla fine abbiamo deciso che può parlarci del nuovo romanzo, che non è farsi pubblicità”. Penso: cavolo, questi fanno sul serio, hanno chiamato a suonare pure gli Afterhours e i Subsonica, e chissà se hanno discusso a lungo, prima di farli salire sul palco. Cantare il proprio repertorio non sarà farsi pubblicità? Magari hanno imposto di fare solo cover di vecchi traditional. La mula de Parenzo rifatta da Manuel Agnelli, sai che figata?
Arriva martedì mattina e arriva pure un sms: “Macao è tornato alla Cina”. Però, mi dicono, la lezione aperta si fa lo stesso, ancora più aperta, in mezzo alla strada. Va bene, dico, parleremo del “divenire profughi” di tutti noi, e di come raccontare questo divenire.
Nel frattempo, ricevo una mail da un amico milanese: “Boh, almeno potevi avvisarmi che presentavate Timira a Macao… E’ brutto doverlo leggere dal twitter di Einaudi…” Provo a chiarire l’equivoco e decido che la parola “Timira” non uscirà più dalla mia bocca per almeno 24 ore.
Alle tre del pomeriggio sono in piazza Macao, con il mio grappolo di studenti. La lezione si tiene in un’aula senza pareti, delimitata con strisce di scotch sui sampietrini. Le aule sono tre e in quelle attigue sono già in corso altre lezioni. Cartelli scritti a mano indicano chi parla e di che cosa. Ci sediamo per terra, si comincia. Siamo una quindicina di persone, non di più, ma pian piano se ne aggiungono altre, in piedi e a cerchi concentrici, e dopo un’oretta mi propongono di spostarmi dove c’è l’impianto audio, per parlare con il microfono, visto che molta gente vorrebbe partecipare ma non sente quel che si dice.
Da bravi profughi, alziamo le chiappe e migriamo compatti verso una nuova terra.
Si riprende, domando scusa a chi non vorrebbe ascoltare: non ho scelto io di imporre la mia voce con l’amplificazione. Si continua. Domande, risposte, altre domande: lo sforzo di costruire una narrazione collettiva; il bisogno di darsi tempo; la trappola della mediazione al ribasso, del “minimo comune denominatore” come punto di vista unificante.
Un tizio mi si avvicina e mi domanda se può fare un intervento di mezz’ora sulle banche e la moneta. Gli dico di rivolgersi a qualcun altro, io sono soltanto un ospite, mi hanno chiesto di parlare dalle 15 alle 18 e resto fedele alla consegna.
Il tizio mi ripete la proposta altre due volte, ma alla fine desiste.
Poi, mentre sto per rispondere a una domanda, arrivano in corteo gli operai di una fabbrica occupata, la Jabil di Cassina de’ Pecchi. Interrompiamo il dibattito e ascoltiamo il racconto della loro battaglia. Quindi il microfono, di mano in mano, giunge a un signore con i capelli bianchi e il signore ci spiega di essere pensionato, dopo quarant’anni di lavoro come artigiano. “La loro storia – dice indicando gli operai – l’ho capita bene. Invece – dice indicando me – le storie di cui parli tu non le ho capite. Ma tu lavori? Ma voi – dice rivolto a tutti quanti – Voi, lavorate?”. Si prende qualche applauso, qualcuno urla che “Ognuno ha la sua lotta” e io capisco che la lezione è finita. Però prima di finirla vorrei ribattere, vorrei domandare a quel signore se devo per caso spedirgli il curriculum, prima di poter parlare, vorrei provare a spiegargli quel che non ha capito, come si fa appunto a lezione, ma il tizio delle banche si avventa sul microfono, prende una sedia e parte con la sua mezz’ora di economia in pillole. Sento puzza di “la crisi l’hanno causata le banche” e forse pure di signoraggio, così mi allontano in buon ordine, in dissolvenza.
Uno degli occupanti viene a ringraziarmi, si scusa per il finale, dice che una domanda su Timira me l’avrebbe fatta volentieri. “Strano che uno scrittore, il giorno dell’uscita di un suo libro, venga a sedersi per strada, davanti a un centinaio di persone, e non faccia nemmeno un cenno al romanzo che ha scritto”. Chissà, forse ha ragione. Mia suocera me lo dice sempre, che dovrei andare da Fazio.
Lascio “Piazza Macao” – per poi ritornarci la sera, in mezzo a migliaia di persone – con la misura precisa di quanto sia difficile gestire un’assemblea permanente, un collettivo aperto e appassionato. Quanta pazienza, tempo, dedizione e cura siano necessari per confrontarsi, decidere, darsi del noi e agire insieme.
Perché siamo tutti profughi, ma siamo anche tutti sbirri di frontiera.
Siamo indiani nati nelle riserve e ormai nelle praterie, tra i bisonti e l’orizzonte spalancato, abbiamo bisogno di ritrovare l’orientamento.
come non detto dimitri mi ha anticipato, non avevo ancora visto la sua risposta prima del mio commento
Grazie alle tue narrazioni.
ma ha senso sforzarsi di narrare una lotta unitaria quando chi lotta o dovrebbe farlo non avverte l’unitarietà della cosa?
non si dovrebbe partire dalle pratiche (vivere) prima di preoccuparsi delle narrazioni?
scusate se sto divagando o riportando in auge un argomento già trattato..
Mi è venuto in mente dopo, linko
questo splendido pezzo di @Adrianaaaa che dice le stesse cose che volevo dire io ma megliio
infatti, manca una virgola.
senza virgola, le due definizioni sono uguali. :-)
gracias.
Denunce a Macao:
http://milano.repubblica.it/cronaca/2012/05/21/news/macao_scatta_la_denuncia_per_l_occupazione_a_brera-35569498/