Animale di montagna. Harry Villegas, nome di battaglia “Pombo”


Spesso ciò che viene consegnato alla memoria come la fine di una vicenda è una costruzione intellettuale, un concetto. La realtà assomiglia più a un processo che a una collezione di fatti. Difficile, quasi arbitrario definire il principio e la fine. Sarebbe forse più giusto parlare di sorgere e declinare, di manifestarsi e di esaurirsi. Certo è che nelle vicende che costruiscono la storia degli uomini sarebbe difficile orientarsi senza definire coordinate. Senza un’idea di fine e di inizio, risulta impossibile applicare nozioni di ordine morale. Spesso la Fine è esemplare.
Prendiamo la vicenda di Ernesto Guevara in Bolivia. Il Che e i suoi, la guerriglia. La cattura. L’assassinio. La fine tragica, che determina il sorgere dell’icona cristologica. Siamo tutti d’accordo nel dire che la fine del Che è l’inizio della sua leggenda. Questa dinamica –fine che è anche inizio su un altro livello- ci è nota, la percepiamo come evidente, è quasi luogo comune.
Ma nella vicenda di Ernesto Guevara e dei suoi c’è qualcosa di concreto, di vivente, che sfugge alla morte, quel concetto che scambiamo per un fatto e che per noi è la fine per eccellenza. Qualcosa, o meglio, qualcuno: Pombo, Benigno, Urbano.
Nomi di battaglia, guerriglieri internazionalisti cubani. Hanno attraversato un evento che è passato alla storia come una fine. Sono sopravvissuti per incontrare altre vicende di segno simile. Nel caso di Pombo, la lotta in Angola contro i colonialisti portoghesi e i razzisti sudafricani, la lotta in Nicaragua a fianco dei Sandinisti.
Pombo è oggi sulla soglia dei settant’anni, e nel suo paese è un eroe.
Harry Antonio Villegas Tamayo nasce in una famiglia di contadini poveri afro-cubani. Fin dall’età di quattordici anni si impegna in attività contro la dittatura di Fulgencio Batista. A diciotto anni raggiunge la guerriglia sulla Sierra Maestra, ma il Che lo rimanda giù in pianura perché le armi con le quali si è presentato sono di piccolo calibro, e non si può affrontare l’esercito con quelle. Dopo qualche tempo, Harry si ripresenta con le armi giuste.
La sua carriera di guerrigliero comincia qui. In un’intervista recente dichiara:

«La guerriglia è una delle forma più complesse e difficili di Guerra Rivoluzionaria. Richiede grande capacità di sacrificio e grande tenacia. C’è un momento in cui ti è richiesto di rinunciare a tutte le comodità civili. Ti trasforma in un animale di montagna, e questo richiede convinzioni molto profonde. Per questo il Che diceva che la guerriglia permette di raggiungere il livello più alto della specie umana.»

Nella stessa intervista capiamo meglio le motivazioni che lo spinsero a quella scelta. Una formazione intellettuale, l’apertura di una prospettiva sul mondo: tutte cose che a un contadino cubano, all’epoca, erano precluse. E sono precluse a tutt’oggi ai contadini di molti paesi del globo. Finestre sul possibile, che non deve essere per forza identico al già stato. Bisogni primari, come il pane, l’acqua e il vestiario.
Dopo la presa del potere, il Che diviene ministro dell’industria e riserva a Villegas mansioni importanti. Ma ormai entrambi si sono trasformati in animali di montagna, che la convinzione e la fede in un ideale converte in esempi di umanità per l’umanità.
Verso la metà del decennio, il richiamo della lotta internazionalista si fa sentire. Villegas vorrebbe raggiungere il nord dell’Argentina, dove si cerca di accendere un fuoco rivoluzionario, ma il colore della sua pelle lo ostacolerebbe troppo. Colore che però lo rende perfetto per la guerriglia in Congo. Ma la missione nell’enorme paese centrafricano è tutto tranne che un successo. Il movimento dei Simba, di ispirazione marxista, deve vedersela con nemici interni ed esterni. Mercenari sudafricani e britannici, esuli cubani anticastristi: la spedizione del Che è bersagliata da imboscate, le comunicazioni sistematicamente spiate o deviate, le linee di rifornimento tagliate. Villegas combatte con valore, sempre al fianco del Che. E’ qui che si guadagna il nome di battaglia, Pombo (“linfa” in swahili). Dopo sette mesi privi di successi significativi, il Che viene convinto a lasciare il campo di battaglia dai suoi uomini e da due emissari di Fidel Castro.
Le motivazioni che spingono un combattente come Pombo vengono spesso scambiate, da un tempo che inforca gli occhiali del profitto personale ad ogni costo, per una forma di fanatismo. La categoria, a ben guardare, comprende tutto ciò che male si adatta a una visione del mondo come la nostra. Ma tra il “fanatismo” di Pombo e dei suoi e quello che sorge su base identitaria, culturale, che reinventa o inventa di sana a pianta limiti, “tradizioni” e confini c’è un abisso morale. Pombo è un combattente internazionalista. Nelle sue parole: «solidarietà non è distribuire ciò che avanza, ma dividere ciò che si ha.»
Echi da un’epoca che combatteva per la specie umana, per tutti gli uomini, che cercava nel tempo puro della rivolta, per dirla con Jean-Paul Sartre, la realizzazione dell’umano nell’uomo.
Poi il capitolo finale, la Bolivia. E’ il 1967. La colonna guerrigliera di Guevara conta una cinquantina di uomini. L’ELN (Ejército de Liberación Nacional de Bolivia) è ben equipaggiato e in un primo momento consegue buoni successi contro le forze boliviane. Il terreno di lotta è quello difficile e montuoso della regione di Camiri. In settembre l’esercito boliviano assesta però un colpo molto duro. Elimina due gruppi guerriglieri, uccidendo uno dei capi.
Un contadino indica all’Esercito il luogo dove i guerriglieri attraverseranno il fiume Guapay. Una parte della colonna rivoluzionaria è costretta allo scontro. In seguito, il Che viene circondato, ferito e catturato. Poi lo ammazzeranno con calma. Mutileranno il corpo, lo seppelliranno in gran segreto.
Per chi sfuggì all’accerchiamento, prima la fuga in Cile (determinante per il rimpatrio a Cuba fu Salvador Allende, amico del Che da molti anni) e poi – nel caso di Pombo – ancora la lotta, in Angola, in Nicaragua.
Pombo rimane fedele alla lezione appresa sulla Sierra, dove aveva incontrato il Che e la possibilità di un’emancipazione personale e collettiva, ormai molti anni prima. Quando l’ideale per cui ti batti è giusto, diventare un animale di montagna è un modo paradossale per realizzare la più alta umanità.

Articolo uscito sul mensile GQ – edizione italiana, novembre 2010

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[Esiste un libro italiano interamente dedicato a Harry Villegas, scritto dal giornalista Roberto Borroni. Si intitola Pombo. Dalla Sierra Maestra a La Higuera: Dieci anni con Che Guevara, Negretto editore, Mantova 2009.]

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5 commenti su “Animale di montagna. Harry Villegas, nome di battaglia “Pombo”

  1. Mi piace pensare che diventare un animale di montagna significhi non voler dare un nome alle cose. Significhi voler essere “cosa stessa”, come un sentimento. Un animale di montagna vuole restare sentimento, allontanandosi dai limiti di un corpo, che, per quanto agognato e scelto, per quanto considerato il migliore, non basta. Non basta mai. Un animale di montagna MAI vuole fermarsi perché sa che fermarsi significa scegliere, e scegliere significa escludere. Un animale di montagna è un sentimento che comprende, disposto al suo spegnersi pur di non deformarsi e pur di lottare per scacciare le nubi dell’ingiustizia anche dall’altra parte del cielo. Mi piace pensare che sia un animale di montagna anche quel sentimento che, con un colpo al cuore a 37 anni, decide di spegnersi, lasciandoci meravigliosi versi, tra cui… “Aderire o non aderire?/La questione non si pone per me./È la mia rivoluzione”.

    Giacomo.

  2. cercando on-line nel mio sistema bibliotecario ho trovato questo:
    Pombo : un uomo della guerriglia del Che : diario e testimonianze 1966-1968 / Harry Villegas ; traduzione e cura di Roberto Massari
    Massari editore

  3. Massari è l’editore “guevarologo” par excellence! :-)

    Su Pombo, fondamentale anche il diario congolese del Che, pubblicato qualche anno fa con il titolo “L’anno in cui non siamo stati da nessuna parte” (Ponte alle Grazie, 1994).

  4. @Wu Ming 1

    Ti chiedo scusa se sono OT, ma mi piace ricordare un altro animale di montagna, l’italiano Gino Donè Paro, morto un paio di anni fa.
    Nella sua biografia si legge che Ernesto Guevara gli confidò che se non avesse incontrato Fidel sarebbe emigrato in Italia per specializzarsi contro l’asma, nella facoltà di medicina di Bologna.

    « Cuba è stato un esempio di purezza, di dignità, di idealismi puri. » (Gino Donè Paro)

    http://www.youtube.com/watch?gl=IT&feature=related&hl=it&v=Az8GNV41Msg

  5. Anche se politicamente scorretto, sul Che segnalo “Una passione per Che Guevara” di Jean Cau. A me è piaciuto molto.

    “Ci sono eroi in tutti i campi e martiri ovunque. Tranne che gli uni muoiono disperati perché la loro causa è vinta e gli altri con il sorriso sulle labbra perché la loro fede, dopo di loro, erigerà gli archi del suo trionfo. Sì… No… Sì, in un solo caso: se Dio esiste quando la vittima cammina verso il rogo. Ma se Dio non esiste, Che? O se la Rivoluzione non è un dio? Allora non restano altro – anche se egli vuole con il suo ultimo respiro animare le braci della sua fede – che la solitudine e lo stile di un uomo. Musica!”

    (J.C.)