Il folletto del mondo. Come nasce Stella del mattino

A tutt’oggi Lawrence d’Arabia di David Lean (1962) è considerato uno dei dieci film più belli della storia del cinema.
Personalmente sono d’accordo. Non saprei bene dove collocarlo nella mia personale Top Ten, ma certo vi rientra. Cast, colonna sonora, fotografia, regia, sceneggiatura: tutto contribuisce a farne un capolavoro che ancora tiene testa ai kolossal dell’era digitale. E’ talmente vero che alle parole “Lawrence d’Arabia” parecchi di noi visualizzano la faccia di Peter O’Toole, anziché quella del colonnello Thomas Edward Lawrence.
A questo si aggiunga che stiamo parlando di una figura quanto mai controversa, oggetto di biografie e controbiografie, scoop e rivelazioni che si susseguono da decenni. Lady D gli fa un baffo.
Con questa premessa dovrebbe già essere chiaro che per scrivere Stella del mattino ho dovuto prima di tutto aggirare un problema. Si trattava di fare i conti con uno dei personaggi più dibattuti del XX° secolo, grazie al suo best seller – I Sette Pilastri della Saggezza – e a una pietra miliare della storia del cinema.
Inevitabilmente ho optato per raccontare quella vicenda da un punto di vista particolare, scegliendo sguardi diversi, spiazzanti, che mi portassero per quanto possibile lontano dalle immagini fin troppo note.
Tutto è partito da una coincidenza, che a sua volta ne ha chiamata un’altra… e il risultato è il romanzo.
Per dirla in breve, Stella del mattino è la storia di un’indagine condotta da tre investigatori molto particolari sul conto dell’eroe d’Arabia e dell’eroe come figura archetipica. Del resto Robert Graves, J.R.R. Tolkien e C.S. Lewis erano tizi che di miti se ne intendevano. Tutti e tre classicisti, studenti a Oxford, nel luogo di culto delle lettere antiche per antonomasia. Tutti e tre scrittori e mitologi destinati a una fama internazionale nel corso del Novecento. Coincidenza vuole, appunto, che si trovassero a Oxford dopo la fine della Prima guerra mondiale, quando Lawrence tornò a casa dalla sua impresa guerrigliera. Meno casuale è il fatto che in quel momento tutti loro (Lawrence incluso) si trovassero alle prese con il problema di come superare l’esperienza vissuta al fronte, di come farci i conti e tornare a un’esistenza normale, se mai fosse stato possibile.
E’ chiaro quindi che Stella del mattino è un’opera di fantasia basata sulla documentazione storica, niente di diverso da quello che il collettivo Wu Ming fa di solito. La differenza, se vogliamo, è che in questo caso la documentazione si spinge parecchio in profondità, fino a mappare le relazioni personali tra alcuni personaggi del romanzo.
L’amicizia tra il poeta Robert Graves e T.E. Lawrence è raccontata da Graves stesso nella sua autobiografia del 1929 e nel corso degli anni ha prodotto un corposo scambio epistolare, a sua volta dato alle stampe. Quanto a Tolkien e Lewis (futuro autore delle Cronache di Narnia), si conobbero e divennero amici negli anni successivi al periodo narrato in Stella del mattino, tuttavia è chiaro che per chi conosce la loro vicenda (la storia degli Inklings etc.) sarà difficile leggere il romanzo senza pensare al dopo. Proprio per questo era interessante raccontare il Lewis che precede la conversione e la sua trasformazione in intellettuale cristiano militante: il giovane ateo incazzato, rancoroso e succube delle proprie ossessioni post-adolescenziali. Come tutti i convertiti tardivi, Lewis cercò di cancellare la parte più scomoda della propria vita. Se a questo si unisce il fatto che fu pressoché incapace di descrivere l’esperienza bellica che aveva vissuto, beh, questo dava buon margine per romanzare i molti coni d’ombra che risultano nella sua biografia. Essendo anche il più giovane dei protagonisti, non è stato difficile attribuire al suo personaggio le tesi più “anti-eroiche” sul conto di Lawrence e trasformarlo in un segugio in cerca della verità sul condottiero del deserto. E’ la parte più romanzata della storia, quella su cui ho speculato di più, anche se ho la presunzione di credere di aver salvaguardato il principio di verosimiglianza e plausibilità.
Tolkien era il personaggio meno avventuroso e plateale, un tipo tranquillo, tutto in superficie, e per questo è stata una bella sfida ricavare anche per lui un plot che fosse avvincente, una parabola compiuta. In sostanza ho immaginato le avvisaglie di una patologia post-traumatica che mettesse a repentaglio il suo quieto vivere. Come prendere un borghese piccolo e conservatore e metterlo davanti all’imponderabile, all’inconscio, ai fantasmi.
Da metà romanzo in poi mi sono reso conto che stavo scrivendo un libro sul valore terapeutico della scrittura. Una terapia non solo privata, personale, ma anche pubblica e sociale, visto che scrivere significa già condividere, interagire con il mondo. Del resto, solo attraverso la narrazione l’umanità è in grado di riconoscersi e fare i conti con la propria esperienza storica e ideale.
Alla fine, resto convinto di questa chiave di lettura.
Dopodiché, è ovvio che il personaggio sfaccettato di Lawrence, con la sua vicenda umanamente e politicamente contraddittoria, con la fama mediatica che fece di lui la prima pop star contemporanea, porta con sé una riflessione sulla mitopoiesi. Basta studiarne la storia e gli scritti, ricordare lo scalpore che la sua vita ha suscitato. Basta pensare alla definizione che, con un colpo di genio poetico, diede di lui il coriaceo Auda Abu Tayi: “il folletto del mondo”.
Ecco perché non avrebbe avuto senso scrivere una biografia romanzata o un romanzo biografico. Le biografie di Lawrence sono già grandi narrazioni, perché egli stesso ha speso la vita nel tentativo di trasformarla in un romanzo cavalleresco, una chanson de geste moderna.
Credo che alla fine ognuno dei tre investigatori raggiunga una verità tanto parziale quanto realistica sulla sua figura, e forse non è facile battezzarne una. Del resto, non ho mai avuto nemmeno per un momento la pretesa di sciogliere l’enigma-Lawrence. Se non altro perché le figure mitiche, quando vengono analizzate e non contemplate passivamente, servono proprio a questo, a riflettere e a porsi delle domande, molto più che a ottenere risposte nette. A me tutto questo è servito a raccontare una storia.
Settantatre anni dopo la morte, Lawrence ci osserva dalle fotografie e dai poster; i suoi occhi ci fissano dai meandri del XX° secolo e spingono lo sguardo fino a qui. Verrebbe voglia di chiedergli cosa ne pensa di quanto accade in Medio Oriente, o di quello che è diventata la sua icona. Lawrence è ancora con noi, meno ingombrante di quando era vivo ma non meno attuale, perché ci racconta qualcosa di universale e al contempo strettamente legato al nostro presente.
Sarà per questo che a guardare bene quelle foto, magari da certe angolazioni particolari, ci si accorge che l’espressione del viso nasconde un sorrisetto beffardo. E allora è difficile non immaginarlo mentre fissa l’obiettivo, in una posa studiata, e nell’istante prima dello scatto pensa: – Provate a prendermi, se ci riuscite.
Click.

Wu Ming 4, Aprile 2008

2 Responses to “Il folletto del mondo. Come nasce Stella del mattino”

  1. Tolkien protagonista di un romanzo? Ecco la conferma (e il libro) « Eldamar Says:

    [...] ricco di informazioni, anticipazioni e notizie sulle origini del racconto. Segnaliamo il notevole Come nasce Stella del mattino che raccontando la genesi dell’opera non manca di introdurre ognuno dei protagonisti. [...]

  2. Stella del mattino » Blog Archive » L’orizzonte condiviso del Deserto. Trauma e Mitopoiesi: Lawrence d’Arabia e Stella del mattino di Wu Ming 4 Says:

    [...] 16. “Da metà romanzo in poi mi sono reso conto che stavo scrivendo un libro sul valore terapeutico della scrittura. Una terapia non solo privata, personale, ma anche pubblica e sociale, visto che scrivere significa già condividere, interagire con il mondo. Del resto, solo attraverso la narrazione l’umanità è in grado di riconoscersi e fare i conti con la propria esperienza storica e ideale”, Wu Ming 4, in “Il folletto del mondo. Come nasce Stella del mattino”. [...]

Leave a Reply