Da Camelot a Damasco – di Wu Ming 4

Come si debbano comporre i Miti affinché il Fare vada a buon fine“. Influenze letterarie e persistenza del mito nella costruzione dell’icona di Lawrence d’Arabia.

Testo della lecture tenuta da Wu Ming 4 all’Hammam Al Malik Al Zahir, nella Città Vecchia di Damasco, il 17 Ottobre 2008.
Un ringraziamento particolare ad Alessia Conti, per la traduzione in inglese, a Paola Di Giulio, per il reperimento di un testo originale, agli organizzatori di Reloading Images Damascus, per avere reso tutto ciò possibile.


1. Intro

Il sottotitolo di questa lettura è una citazione. Si tratta della traduzione provocatoria ipotizzata dal professor Gilbert Murray, negli anni Venti del secolo scorso, dell’incipit della Poetica di Aristotele.
La traduzione normalmente accreditata è infatti molto diversa e suona così:

“Qui tratteremo della poetica nel suo insieme e delle sue forme, quale finalità abbia ciascuna di esse, e come si debbano comporre le trame affinché la poesia riesca bene”.

Per dimostrare come sia sempre difficile tradurre in una lingua moderna concetti complessi provenienti da idiomi antichi e da contesti storici lontanissimi dal nostro, il professor Murray provocava i suoi interlocutori azzardando una traduzione letterale dei termini aristotelici. “Poietikés” deriva dalla parola “poiesis”, che in greco antico indica il “fare”, e il termine “mythos” può essere tradotto letteralmente con “mito”.
La sua traduzione, quindi, metteva in luce una sfumatura di significato assai differente del celebre passo citato:

“Qui tratteremo del Fare nel suo insieme e delle sue forme, quale finalità abbia ciascuna di esse, e come si debbano comporre i Miti affinché il Fare vada a buon fine.”

Non essendo io un grecista né un filologo non sono interessato a indagare la fondatezza della traduzione proposta da Murray, ma la sua provocazione mi è particolarmente utile perché centra il cuore della questione che vorrei affrontare, vale a dire il rapporto tra “epos” (racconto) e storia.
Ovviamente l’argomento è di per sé vastissimo e supera di gran lunga le possibilità di analisi di un semplice romanziere. Ciò che vorrei tentare è quindi qualcosa di più mirato e circoscritto, ovvero scegliere un eroe storico moderno e provare a sezionarne l’icona per isolare i mitologemi che la compongono, e che ne determinano a mio avviso il successo duraturo.
Non solo. Indagando l’icona prescelta, quella di Lawrence d’Arabia, che si staglia sulla grande storia del XX secolo e arriva fino a noi, qui e ora, proprio a Damasco, non compio evidentemente una scelta casuale. Sono convinto che l’icona di Lawrence d’Arabia e la sua epopea possano rivelare una specularità tra le contraddizioni insite nella sua vicenda storica e quelle proprie della figura dell’eroe come ci è stata tramandata dai poeti antichi.

“Un personaggio il quale, a seguito di determinate circostanze, è portato a sostenere un ruolo, incarna un mito che gli preesiste e di cui non sospetta neppure la potenza, e lo realizza per gli altri e per sé, dandogli così il suo senso e il suo significato” (Jean Markale, Introduzione a Eleonora d’Aquitania – la regina dei trovatori, 1978).

Nel caso di T.E. Lawrence si può dire che l’eroe stesso ha partecipato consapevolmente alla costruzione ex post del proprio mito, collegandolo a una lunga genealogia precedente. La capacità di Lawrence e dei suoi sodali di raccontare la propria vicenda in forma di epopea eroica ha fatto sì che Lawrence d’Arabia si presenti a noi come un coacervo di citazioni mitiche e leggendarie, sedimentatesi nel corso dei secoli.
Analizzando la figura di Lawrence d’Arabia come prodotto dell’intreccio di storia e mitopoiesi, è possibile capire non solo le ragioni del suo successo e della sua persistenza nell’immaginario occidentale, ma anche quanto ciò sia ancora esemplificativo del rapporto asimmetrico tra Oriente e Occidente.
Come già accennato, T.E. Lawrence non fu soltanto un uomo d’azione, un agente segreto, un guerrigliero dinamitardo, ma prima di tutto un letterato, un intellettuale, uno studioso delle Crociate, un apprendista archeologo. I suoi studi oxoniensi lo fecero entrare in quella cerchia di uomini di lettere che formavano la classe dirigente dell’Impero britannico. In quel contesto la sua indubbia intelligenza si mise sufficientemente in luce da farlo scegliere per il ruolo di agente di collegamento che l’avrebbe reso famoso durante gli anni della Rivolta Araba (1916-1918) e in quelli successivi.
La vulgata su Lawrence d’Arabia vuole che egli sia stato un agente britannico inviato a prendere contatto con alcuni principi arabi, per sollecitarli e guidarli alla rivolta contro l’impero ottomano. Nello scenario mediorientale durante la Prima Guerra mondiale, ciò avrebbe fatto l’interesse dell’impero britannico, impegnato a sconfiggere i Turchi e disposto a promettere l’indipendenza agli Arabi se lo avessero aiutato a farlo. Ma tale promessa era falsa, dato che gli accordi segreti tra le potenze dell’Intesa prevedevano invece la spartizione del Medio Oriente in rispettive aree di influenza. Durante la sua permanenza presso gli Arabi, Lawrence intraprese un’iniziativa personale, sostenendo le loro ragioni e azioni anche a discapito del dovere d’obbedienza ai propri superiori. In altre parole tentò di far guadagnare agli Arabi un ruolo sufficientemente importante nello scenario bellico e politico, tale da costringere le potenze dell’Intesa a riconoscere l’indipendenza araba.
Lawrence riuscì a condurre le cose a modo proprio e a raggiungere l’obiettivo militare che si era prefissato: Damasco, l’antica capitale dell’impero arabo. Una meta simbolica, prima ancora che strategica. Ma questo non fu sufficiente a fare ottenere agli Arabi ciò per cui avevano combattuto. La Siria e il Libano caddero sotto l’influenza francese; Mesopotamia e Palestina sotto quella inglese. Gli Arabi dovettero accontentarsi del deserto.
L’impresa si infranse davanti alla ragion di stato e alle manovre diplomatiche alla Conferenza di pace di Parigi. Questo generò nell’animo di Lawrence un profondo senso di colpa, spingendolo a descrivere se stesso come una sorta di “traditore in buona fede”, vittima per metà dei propri ideali romantici, e per metà delle circostanze.
In questa sede non ripercorrerò l’intenso dibattito storiografico che dura da oltre mezzo secolo sulla vita e le imprese di T.E. Lawrence, una diatriba che ha spesso diviso i commentatori in favorevoli e contrari, con tutte le posizioni intermedie che si possono immaginare. Questo perché non mi interessa qui valutare se davvero Lawrence sia stato un eroe o un antieroe, un rivoluzionario o una spia dell’imperialismo, quanto piuttosto rintracciare questa ambiguità negli stessi precedenti mitici a cui la sua figura allude.
Dopo la guerra, Lawrence tornò a Oxford e ottenne una borsa di studio a All Souls College per redigere il resoconto della Rivolta Araba, che più tardi sarebbe diventato I Sette Pilastri della Saggezza.
Si è discusso molto sulle percentuali di verità e falsità contenute nel libro. Personalmente considero la questione poco interessante. Questo perché sono convinto che la veste del memoriale di guerra nella quale l’opera si presenta ai nostri occhi sia solo un pittoresco travestimento. In realtà, come ha sostenuto Angus Calder, si tratta di un romanzo epico, uno dei pochissimi prodotti nel XX secolo, o, se si preferisce, di un poema epico in prosa moderna.
E’ proprio da qui, dalla letteratura che vorrei far partire l’indagine. Ogni scrittore infatti porta con sé un bagaglio di letture che l’hanno influenzato. Nel caso di Lawrence l’espressione va intesa in senso stretto, perché portò con sé nel deserto due libri. Un terzo non poté portarlo – era composto di due tomi molto ingombranti – ma fu come se l’avesse fatto, dal momento che costituiva l’immediato precedente letterario della sua impresa.


2. Tracce sulla sabbia

Sono due volumi imponenti, rilegati in pelle, non a caso poi ripubblicati in diverse versioni ridotte. La prima volta che l’opera ha visto le stampe, per i tipi della Cambridge University Press, correva l’anno 1888, lo stesso della nascita di Lawrence.
L’autore è un poeta viaggiatore, nonché medico: Charles Montagu Doughty. Il titolo originale dell’opera è Travels in Arabia Deserta. Si tratta del resoconto di un viaggio svoltosi tra il 1876 e il 1878, che Doughty intraprese aggregandosi a una carovana di pellegrini in viaggio per l’haj da Damasco alla Mecca, e che lo portò a girovagare in lungo e in largo nel cuore della penisola arabica.
Il libro di Doughty divenne un vero e proprio spartiacque per gli orientalisti della generazione di Lawrence, perché coniugava appunto letteratura e avventura esotica. Non era il primo travelogue a fornire agli inglesi una visione delle regioni e degli abitanti dell’Arabia interna. Prima di Doughty era toccato al più famoso e affascinante orientalista del XIX secolo, Richard Francis Burton. Burton consacrò la propria vita e la propria penna a indagare quelle zone delle mappe dove ancora campeggiava la scritta “hic sunt leones”, nonché a collezionare usanze e attitudini esotiche. Uno dei suoi viaggi più celebri è quello del 1853, quando, travestito da pellegrino islamico, riuscì ad accedere alle città sante della Mecca e Medina.
E’ sulle orme di questi esploratori letterati che Lawrence si muove con disinvoltura. La sua storia non esisterebbe senza quella degli illustri predecessori.
Ciò che li accomuna tutti, anche se in misura diversa per ciascuno di loro, è quello che Edward W. Said definisce “orientalismo”. Costoro infatti condividono la fascinazione per l’esotico e selvatico Oriente; il senso della superiorità occidentale; e alcune specifiche argomentazioni sull’Oriente, atte a diventare istituzioni filosofiche e culturali. E’ questione di vedere l’Oriente, capirlo, raccontarlo, e in questo modo racchiuderlo nei parametri della narrazione europea. L’Oriente diventa così una proiezione della mente occidentale.
Perfino Burton, il più eclettico e curioso di quell’eletta schiera, è in fondo uno che si mimetizza tra i nativi, ne assume i panni, la lingua, perfino la religione, con l’intento di capirli e descriverli. Il suo è un approccio da etologo, un raggiro, o, se si preferisce, un omaggio alla stessa scaltrezza occidentale.
Doughty e Lawrence invece, a prescindere dalle vesti che sceglieranno di indossare, non abdicheranno mai alla propria “britannicità”[1]. Il loro razzismo è figlio dell’età positivista: pretestuosamente scientifico e irrimediabilmente paternalistico.
Ecco quello che Lawrence scrive nell’introduzione al libro di Doughty, edizione del 1921:

“Il ritratto che [Doughty] traccia dei semiti, ‘sprofondati in una cloaca fino agli occhi ma con la fronte che tocca il cielo’, riassume appieno la loro forza e al tempo stesso la loro debolezza, nonché le singolari contraddizioni del loro pensiero, che acuiscono la nostra curiosità quando li incontriamo per la prima volta”. E ancora: “Sono un popolo dalla mentalità chiusa e limitata, il cui intelletto inerte rimane incolto per mancanza di curiosità. La loro immaginazione è vivace ma non creativa”.

Per Lawrence la curiosità è prerogativa dei bianchi occidentali. Ne consegue che anche l’esplorazione e la scoperta lo siano. Fin dalla cosiddetta scoperta dell’America l’atto di “scoprire” e già un atto lessicale di conquista, che precede l’atto violento, la sottomissione di coloro che sono stati raggiunti dagli occhi occidentali. Sotto questo aspetto quindi l’eploratore che al ritorno in patria si mette a scrivere i propri memoriali di viaggio ha un ruolo fondamentale. Questi avventurieri, spesso avvolti da un’aura romantica, sono stati gli apripista dell’imperialismo europeo, sia in senso geografico sia in senso culturale. E questo anche quando – come nel caso di Burton o Lawrence – hanno subito il fascino dell’alterità e hanno criticato duramente la miopia delle politiche coloniali europee.
Del resto è ancora la letteratura dell’epoca vittoriana a consegnarci uno dei romanzi più belli e importanti sulla figura dell’esploratore bianco, mostrandocelo già nella veste di mercante e colonialista. Mi riferisco a Cuore di Tenebra di Joseph Conrad (1899), uno degli autori preferiti di Lawrence, che volle incontrare al ritorno dalla guerra.
Nessuno più di Conrad ha saputo mettere a nudo quel misto di ferocia capitalistica e misticismo del “white man’s burden” che hanno caratterizzato la visione espansionistica occidentale e che si celava dietro la figura dell’avventuriero, sospinto dal proprio senso di superiorità e onnipotenza. Un’onnipontenza che nelle solitudini selvagge poteva portare gli occidentali a lasciarsi innalzare al rango di re taumaturghi, leader semidivini, in nome di un’idealità destinata a diventare incubo collettivo. Nel romanzo di Conrad, la figura di Kurtz appare come una sorta di profeta perverso e folle, ma pur sempre gigantesco, immane, a suo modo grandioso. Emblematica e la distinzione tracciata nel romanzo dall’alter ego di Conrad, il marinaio Charles Marlow, che narra ai lettori la storia in questione. Marlow distingue tra “conquistatori” e “colonialisti”… questi ultimi sarebbero quelli come Kurtz, imperialisti imperfetti, ma che credono davvero alla propria missione:

“[i Romani] non erano colonizzatori; credo che per loro amministrare significasse solo spremere soldi, e basta. Erano conquistatori, e per conquistare basta la forza bruta [...] La conquista della terra, che perlopiù significa portarla via a chi ha il colore della pelle diverso dal nostro o il naso un po’ più piatto, non è una bella cosa se ci si riflette su troppo. Solo l’idea può riscattarla. Un’idea cui possa appoggiarsi; non un finto sentimentalismo ma un’idea; una fede disinteressata nell’idea – qualcosa di superiore che uno si crea, di fronte a cui si inginocchia, a cui immola sacrifici…” (cap. I)

Questo elemento ideale acquista un peso enorme, perché riscatta la realtà brutale del colonialismo, assegnando a esso il compito di esportare la civiltà. Un’impresa eroica, salvifica, che trasforma i pionieri occidentali in missionari.
Volendo tracciare un parallelo con un’altra grande opera letteraria del XIX secolo, si può dire che per il Kurtz conradiano valgono le parole con cui Hermann Melville descrive il capitano Ahab in Moby Dick (1851):

“Roso di dentro e arso di fuori dagli artigli fissi e inesorabili di un’idea incurabile” (cap. XLI).

Fermiamoci qui, perché seguendo la prima pista letteraria abbiamo toccato un punto focale, abbiamo incontrato uno dei volti in chiaroscuro dell’eroe. Non ho citato a caso Melville, perché tornerà utile alla fine.
La figura dell’occidentale bianco che si reca presso i neri richiama quella dell’eroe che viaggia attraverso una terra sconosciuta, straniero in terra straniera, e può contare su una lunga tradizione leggendaria. E’ una delle declinazioni più ricorrenti e allo stesso tempo più antiche dell’eroe. L’archetipicità di questa figura eroica sta nel suo essere solitaria, forte, unica perché giunta dall’esterno. L’eroe arriva in una terra selvaggia o esposta a una grande minaccia, e la libera, uccidendo il mostro, riportando l’ordine, eliminando la bestialità, le forze primitive della terra. Sono molti i nomi mitologici che si potrebbero citare nel ruolo di stranieri salvatori. Nella mitologia classica greca si affollano personaggi come Teseo, Perseo, Giasone, Eracle… Nella genealogia del poema epico europeo vengono in mente Odisseo, Enea, Beowulf, Sigfrido, e tanti altri.
Solo l’eroe straniero può compiere questa impresa “civilizzatrice”, perché gli indigeni non sono capaci di agire da soli, sono vittime della propria decadenza o selvatichezza, hanno bisogno di essere riscattati o sospinti al riscatto.
E’ precisamente in questi termini che Lawrence racconta la propria impresa. Nel suo libro l’intera Rivolta Araba appare come un’emanazione del suo stesso ego, che funge da filtro di ogni evento e pulsione: “Io suscitai e spinsi innanzi con la forza di un’idea uno di questi marosi (e non dei più piccoli), finché raggiunse e superò il culmine, e a Damasco si ruppe” (I Sette Pilastri della Saggezza, Introduzione, cap. III). Coloro che hanno preteso di leggere I Sette Pilastri della Saggezza come una testimonianza reale hanno criticato l’autore per questa scelta apparentemente puerile, ignorando che si tratta di un romanzo epico, e che l’epica non può mai fare a meno dell’eroe. La figura eroica è precisamente questo: un personaggio in grado di identificarsi con l’intera comunità, di filtrare l’intero flusso degli eventi attraverso se stesso.
Tuttavia non dobbiamo dimenticare i due libri che Lawrence teneva nella bisaccia appesa al basto del suo dromedario quando è arrivato qui a Damasco, e che aveva ancora con sé di ritorno a Oxford.


3. Il cavaliere cortese

Sir Thomas Malory era un cavaliere vissuto nel XV secolo, al tempo della Guerra delle Due Rose in Inghilterra. In prigione scrisse Le Morte d’Arthur (1485), che dopo i “romanzi” di Chrétien de Troyes è forse la più famosa opera dedicata al ciclo arturiano, quella che ha fissato un canone per le cronache della Tavola Rotonda, al quale tutti gli autori successivi si sono ispirati.
Si capirebbe assai poco del mito di Lawrence d’Arabia se non si tenesse conto di questa lettura, talmente importante per Lawrence da protrarla fino ai bivacchi nel deserto. Non ci sono dubbi che l’immagine del cavaliere d’animo nobile, profondamente ispirato, che attraversa mille peripezie, debba molto alla più famosa saga medievale.
I cavalieri della Tavola Rotonda rappresentano l’ideale della cavalleria, sono i portatori di un modello aristocratico fondato sul coraggio e sulla gentilezza d’animo. Riuniscono in se stessi la forza, l’arte delle armi, e l’amore platonico per una dama; la fedeltà al proprio signore, al re, e l’amore per il bello.
Che si tratti di uccidere un drago o trovare il Santo Graal, l’eroe arturiano si confronta con un’avventura, una quest, che ha spesso valore universale, per un’intera comunità o per l’umanità. Lawrence interpreta esattamente in questi termini il proprio ruolo o almeno se lo lascia ritagliare addosso. L’intreccio di relazioni tra sé e i capiclan arabi descritto ne I Sette Pilastri, riecheggia i legami di fellowship o di concorrenza tra i cavalieri del ciclo arturiano. Perfino lo schema narrativo de I Sette Pilastri ha qualcosa in comune con l’opera di Malory: l’opera è suddivisa in libri e capitoli che isolano specifiche imprese compiute da pochi eletti cavalieri. Che si tratti di far saltare in aria un treno o di attaccare un avamposto turco, o magari di vincere uno scontro campale, non è difficile rintracciare lo schema con cui ci vengono narrate le gesta dei campioni di Artù nei romanzi cortesi.
Ma è ancora l’elemento ideale che deve interessarci, oltre evidentemente, a quello storico.
L’epoca e l’ambiente culturale di Chrétien de Troyes, il primo trovatore a comporre i romanzi del ciclo arturiano, sono quelli della corte dei Plantageneti e delle Crociate, nel tardo XII secolo. Chi sono i mecenati dei trovatori che cantavano l’amore cortese tra i cavalieri di Artù e le loro dame ispiratrici? Personaggi come Eleonora d’Aquitania e suo figlio Riccardo Cuordileone.
Tra una guerra e l’altra Riccardo I si dilettava di poesia, e non bisogna dimenticare che intraprese la Terza crociata per recuperare il transetto della croce di Cristo caduto nelle mani di Saladino. In questo modo Riccardo pretese di incarnare sia l’ideale cavalleresco cortese, sia il precedente ideale cavalleresco cristiano, quello cantato nel ciclo carolingio, che narrava le gesta dei cavalieri di Carlo Magno in lotta contro l’espansione araba. Riccardo si proponeva come incarnazione di Rolando e di Lancillotto.
Lawrence conosceva bene la materia storica in questione perché si era laureato con una tesi sull’architettura militare delle Crociate e aveva viaggiato attraverso il Medio Oriente in cerca dei resti delle fortezze cristiane. Riccardo Cuordileone era una delle sue figure storiche e letterarie di riferimento: cavaliere, principe, intellettuale, guerriero, pellegrino, poeta.
Poeta.
E’ proprio la poesia a condurci all’altro libro nella bisaccia di Lawrence, forse il più inaspettato, se si pensa al contesto in cui veniva letto. Si tratta dell’Oxford Book of English Verse (1250-1900), la raccolta dei migliori componimenti poetici inglesi di tutti i tempi.
Perché la poesia? Questo è apparentemente uno di quegli indizi che potrebbero sembrare degni di minor nota. Invece è vero il contrario. La poesia è la forma letteraria più antica e più evocativa. Il linguaggio poetico è ciò che proietta le parole oltre il tempo storico, nell’eternità. Senza poesia non si danno eroi, ovvero canzoni di eroi. Nessuno di noi può svincolare i grandi eroi epici dai poemi che ne hanno narrato le gesta.
Ecco quindi che il terzo libro ci fornisce l’indizio più importante: dietro una figura eroica c’è sempre un poeta. E chi è il poeta cantore di Lawrence d’Arabia se non Lawrence stesso, capace di sdoppiarsi e tenere entrambi i ruoli?
Ascoltate la più famosa citazione da I Sette Pilastri:

“Tutti gli uomini sognano, ma non allo stesso modo. Coloro che sognano di notte nei recessi polverosi della loro mente, scoprono, al risveglio, la vanità di quelle immagini; ma quelli che sognano di giorno sono uomini pericolosi, perché può darsi che recitino il loro sogno a occhi aperti, per attuarlo. Fu ciò che io feci.” (capitolo introduttivo).

E ancora, ecco la descrizione del primo sbarco sulle coste arabe:

“Ma quando alfine gettammo l’ancora nel porto esterno, al largo della città bianca, sospesa fra il cielo sfolgorante e il suo riflesso nel miraggio che fluttuava sulla vasta laguna, il caldo d’Arabia comparve all’improvviso, come una spada sguainata, e ci mozzò la parola.” (Libro I, cap. VIII).

Non sono immagini ed espressioni poetiche queste?

Ma se poteva restare qualche dubbio, è sufficiente prendere in esame l’epigrafe del libro, che altro non è se non… una poesia. Una poesia importante che a sua volta si rivela un piccolo vaso di pandora in quanto a rimandi epico-letterari.
E’ dedicata “a S.A.”. I biografi si sono dati battaglia nel corso dei decenni per svelare la misteriosa identità dietro le due iniziali. La tesi più accreditata è che si tratti di Selim Amhed, meglio noto come Dahoum, un giovane siriano che Lawrence aveva conosciuto durante gli scavi archeologici a Carchemish e del quale si era innamorato. Lo portò perfino con sé a Oxford, prima della guerra, e lo idealizzò al punto da farne la propria “dama”.
Non scelgo a caso la parola. I trovatori medievali dedicavano sempre i loro componimenti a una gentildonna che con la propria bellezza e il proprio animo gentile li aveva ispirati. Spesso si trattava di una principessa o di una regina. Allo stesso modo, i cavalieri di cui quei romanzi cantavano le gesta consacravano le proprie imprese ai corrispettivi letterari di tali donne idealizzate. Non era difficile riconoscere Eleonora d’Aquitania dietro la regina Ginevra, o almeno immaginarle molto simili. Ecco quindi che la dedica più frequente dei romanzi cavallereschi era “a Son Altesse“, nel francese d’oil, ovvero a Sua Altezza. Il poeta Robert Graves, amico di Lawrence, ha in effetti sostenuto questa intepretazione delle iniziali in apice alla poesia. Ebbene io credo che una verità non escluda l’altra. S.A. può indicare una persona precisa, Selim Ahmed, e al contempo evocare una figura allegorica, o se si preferisce un canone letterario. La teoria di Graves infatti è suffragata da molti particolari. A iniziare dalla prima strofa:

Ti amavo, perciò ho sospinto queste fiumane d’uomini tra le mie mani
e ho scritto la mia volontà nel cielo, tra le stelle,
Per Conquistarti la Libertà, la casa preziosa dai Sette Pilastri,
perché i tuoi occhi risplendessero per me
Quando noi venivamo.

Si può dire che Lawrence, come Riccardo Cuordileone, voglia incarnare entrambe le figure del romanzo epico: il cavalier servente che compie l’impresa per la sua amata, e il crociato, che persegue un’idea, e che nel XX secolo non lotta più per la fede cristiana, ma per qualcosa di non meno importante: la libertà e l’autodeterminazione di un popolo oppresso. Il fatto che il popolo coincida con la persona amata fa quadrare il cerchio e chiama sulla figura letteraria di Lawrence tutta la tradizione epico-cavalleresca europea.


4. Il destino dell’eroe

“…ho scritto la mia volontà nel cielo, come stelle” è un verso emblematico.
Quale fosse la volontà di Lawrence è lui stesso a dircelo:

“Intendevo creare una nazione nuova, ristabilire un’influenza decaduta, dare a venti milioni di Semiti la base sulla quale costruire un ispirato palazzo di sogni per il loro pensiero nazionale.” (I Sette Pilastri della Saggezza, cap. intr.)

Come abbiamo visto, l’eroe persegue un’idea, pretende di imporla al mondo, guidando “fiumane d’uomini”. Il sottotesto è che nessun altro se non lui è degno di compiere un’impresa del genere.
Qui entra in gioco un’altra componente fondamentale della figura eroica. Vale a dire l’immagine ideale che l’eroe ha di se stesso, del proprio compito.
I protagonisti della tragedia greca, e già i loro predecessori nell’epica, incorrevano spesso nel peccato di hybris. E’ un concetto questo che si colloca tra la “superbia” e la “prevaricazione”, e che ha comunque a che fare con la rottura delle leggi armoniche che reggono il cosmo. L’eroe in questo caso manca alla propria missione di ristabilire l’equilibrio e accelera invece il caos, pretendendo di forzare i limiti umani, cioè storici, e macchiandosi così di crimini gravi. L’eroe diventa antieroe. Il caso paradigmatico è quello dell’eroe tragico Edipo, che mentre si propone come salvatore di Tebe, infrange inconsapevolmente tutti i tabù e diventa invece fattore di rovina sociale.
Anche in questa ambiguità, e forse soprattutto in questa, Lawrence d’Arabia soddisfa una lunga tradizione letteraria.
Lawrence non riuscì a dare agli Arabi l’indipendenza promessa e la sua figura storica rimane tutt’ora incastrata tra quella del liberatore e quella del traditore doppiogiochista. Buona parte dei suoi sensi di colpa post-bellici erano dovuti al rapporto indirettamente proporzionale tra la sua ascesa come pop star e i risultati ottenuti sul campo delle vicende politiche.
Se infatti ci muoviamo a ritroso dal ciclo arturiano e da quello carolingio, ci imbattiamo nel più importante poema anglosassone antico, Beowulf (VIII secolo d.C.), che per alcuni filologi attenti ha come tema precisamente questo: gli eccessi di un capo, l’orgoglio personale.
E’ stato il professor J.R.R.Tolkien a sostenere per primo questa interpretazione e recentemente lo scrittore Neil Gaiman l’ha riproposta sceneggiando il film tratto dal poema (Beowulf, di Robert Zemeckis, 2007).
Il poema è diviso in due parti. Nella prima si narra l’impresa dell’eroe svedese Beowulf che attraversa il mare per andare in soccorso del vecchio re danese Hrothgar, la cui reggia è minacciata da un orco sanguinario. Beowulf affronta il mostro a mani nude, lo mutila e lo uccide. Dovrà poi affrontare e uccidere anche la madre dell’orco, una creatura marina giunta per vendicare il figlio.
La seconda parte invece si svolge diversi anni dopo, quando ormai Beowulf è diventato re del proprio paese e non è più nel fiore degli anni. Un terribile drago sbucato dagli anfratti della terra prende a devastare il regno. Beowulf decide quindi di ripetere l’impresa di gioventù: affrontare da solo la minaccia, consapevole che sarà forse la sua ultima battaglia. Infatti nello scontro col drago rischia di venire sconfitto e solo l’aiuto non richiesto di un vassallo fedele gli consentirà di uccidere la bestia. Tuttavia Beowulf non sopravvive alle ferite e guadagna una morte da eroe, con le armi in pugno.
Secondo Tolkien si tratta di un dramma della coerenza. La coerenza all’ideale eroico appunto, spinge il protagonista a mettere in gioco tutto pur di rimanere fedele all’icona eroica stessa.
Quando Beowulf deve affrontare l’orco nella reggia di Danimarca, sceglie di rinunciare ad ogni vantaggio offerto dalle armi, in nome della “sportività” cavalleresca (versi 434-440). Anche quando, molti anni dopo, si tratta di affrontare il drago, è a malincuore, solo per sopraggiunti limiti d’età, che Beowulf si vede costretto a portare con sé le armi (versi 2518-2523). Tuttavia ancora una volta decide di sfidare il mostro da solo, privandosi dell’apporto dei suoi fedeli guerrieri:

Questa non è un’impresa per voi,
non è a misura d’uomo, ma solo alla mia,

confrontare le forze col Mostro,

o far apparire il proprio valore.

(2532-2535)

Qui è detto chiaramente: l’eroe non può che essere una figura solitaria. Ma il suo non è necessariamente un atto altruistico, un sacrificio individuale per la salvezza collettiva, bensì, al contrario, la celebrazione della propria superiorità, del distacco dai comuni mortali, ai quali è proibito affiancarlo, perché ne sminuirebbero la gloria. A lui solo spetta dimostrare la propria nobiltà, il coraggio, lo sprezzo del pericolo e della vita. E questa è la cosa che conta più di ogni altra, anche se mette a repentaglio la sorte di tutti.
Nella sua celebre rilettura del Beowulf, Tolkien suggerisce che l’anonimo autore del poema volesse sottolineare precisamente questa ambivalenza dell’eroe.
Del resto, se facciamo ancora un salto all’indietro nel nostro excursus e consideriamo le opere che fondano la letteratura occidentale, non troviamo figure molto diverse.
L’Iliade, il più antico poema epico della letteratura europea e mediterranea (che narra la prima invasione occidentale dell’Oriente) è il poema di Achille. L’eroe greco, alto, forte, biondo, che in singolar tenzone sconfigge Ettore, il campione di Troia.
In questo caso il suo distacco dal resto degli uomini è sottolineato dal fatto che Achille è quasi un semidio, figlio di un mortale e di una ninfa marina. Ma soprattutto l’Iliade è il poema dell’ego dell’eroe. Disonorato dai capi Achei, che gli sottraggono la schiava preferita, Achille diserta la guerra, infischiandosene del fatto che questa scelta comprometterà le sorti del conflitto. Il suo onore è più importante anche della vita dei compagni.
Tanto è vero che solo la morte dell’amico/amante Patroclo lo riporta sul campo di battaglia, per compiere una vendetta privata. E’ ancora una motivazione personale a fare la differenza.
Nei suoi scritti, e in particolare nell’ultima pagina de I Sette Pilastri della Saggezza, Lawrence dichiara che fu essenzialmente una motivazione personale a spingerlo a fare ciò che fece. Una motivazione che ha molto a che spartire con quella di Achille. Ma di questo parlerò tra poco.
Il parallelo tra Lawrence e Achille, ovvero tra I Sette Pilastri e l’Iliade si riscontra anche nell’attitudine di Lawrence come scrittore. I Sette Pilastri contiene esplicite citazioni dalle tecniche della letteratura epica. Ad esempio le lunghe nomee di capi arabi o ufficiali britannici che parteciparono alla rivolta ci ricordano i capitoli dell’Iliade in cui vengono nominati uno a uno i guerrieri achei e troiani. Questi elenchi e le lunghe digressioni presenti ne I Sette Pilastri possono apparire superflui agli occhi di uno storico, ma non a quelli del narratore epico. Nell’introduzione a I Sette Pilastri della Saggezza, Angus Calder fa notare che: “Un dettaglio superfluo per la ‘storia’, almeno per come viene scritta solitamente, è essenziale per l’epica. Perché genera la sensazione che l’interezza della vita è in qualche modo presente e viene tenuta in considerazione”.
L’andamento del libro di Lawrence, tuttavia, richiama ancora di più l’altro poema omerico, l’Odissea. La narrazione infatti non si discosta mai dall’unico protagonista e ne segue il viaggio attraverso mille peripezie fino a Damasco. Non a caso proprio con la traduzione dell’Odissea si cimentò Lawrence.
Nel primo verso del poema, Odisseo è definito “polytropos“, che i traduttori rendono con “ricco di astuzie”, “dal multiforme ingegno”, e che Lawrence traduce con “various-minded“. Tuttavia il termine viene tradotto anche con “dalle molte facce” e “dai molti rivolgimenti” (intesi come ribaltoni della sorte). Il suo corrispettivo persiano e mesopotamico è uno dei protagonisti de Le Mille e Una Notte, il marinaio Sinbad. Più in generale si tratta di una figura archetipica della mitologia universale: colui che è capace di inganni, trucchi, e travestimenti.
Nella mitologia dei nativi nordamericani questo archetipo è incarnato dal coyote, uno degli animali totemici, così come nell’universo fiabesco europeo è la volpe. Le leggende popolari inglesi, del resto, hanno immortalato questa tipologia eroica nel personaggio di Robin Hood, che assalta convogli e organizza imboscate nella foresta. Anche Robin Hood si traveste e inganna i nemici sul proprio aspetto e sulla propria identità. Non per niente l’animale scelto dalla Disney per indossarne i panni nel film del 1973 è una volpe antropomorfa.
Odisseo è l’eroe che progetta l’inganno del cavallo di legno e riesce così a intrufolarsi dentro le mura di Troia, mettendo fine al conflitto decennale. Nella storia della letteratura è senz’altro il primo scaltro occidentale che inganna gli orientali. Prima ancora si era finto pazzo per non essere reclutato per la guerra e aveva ideato il trucco con cui invece era stato reclutato Achille. Successivamente saprà raggirare il ciclope Polifemo, ubriacandolo, accecandolo, e spacciandogli un nome falso. Alla fine del poema si travestirà da mendicante per introdursi nel palazzo e architettare la gara con l’arco che gli darà l’occasione di decimare i Proci. Il suo nume tutelare è Atena, dea della sapienza.
Lawrence è passato alla storia per la guerriglia che seppe organizzare ai danni dei Turchi. La sua specialità era far saltare in aria i treni, evitando gli scontri diretti, colpendo e fuggendo insieme alle squadre di beduini che lo seguivano. In questo modo riuscì a far credere ai Turchi che le forze arabe fossero assai più numerose di quelle realmente attive e creò la leggenda della propria ubiquità. Indossò i panni dello sceriffo del deserto e – stando al suo racconto – si infiltrò più volte dietro le linee nemiche.
L’inganno, la trappola, il raggiro, il travestimento sono caratteristiche peculiari del personaggio e del mito di Lawrence d’Arabia. Anche l’ambiguità del suo ruolo storico trova riscontro nell’antecedente epico, e anche questo è un particolare che Lawrence non poteva ignorare.
Dante Alighieri
, nel XXVI canto dell’Inferno, fa comparire Odisseo nella bolgia dei fraudolenti, coloro che ingannarono la buona fede altrui. Ci imbattiamo qui nella radice stessa del senso di colpa sviluppato da Lawrence dopo la guerra, poiché in questo caso l’inganno dell’eroe non è volto soltanto a danno dei nemici, ma degli stessi compagni.
In più di un’occasione, nel poema omerico, la curiosità e la voglia di Odisseo di conoscere terre e popoli conducono l’eroe e i suoi uomini in mezzo ai pericoli, verso la rovina. Alla lunga questo provoca la morte di tutti i compagni di Odisseo.
Dante, che non poteva conoscere gli ultimi libri dell’Odissea, poiché vennero trasmessi al mondo cristiano da quello islamico nei secoli successivi, nella Divina Commedia ipotizza un finale diverso da quello che conosciamo. Odisseo non torna a Itaca, ma convince i compagni a navigare oltre le colonne d’Ercole per vedere l’Oceano e scoprire dove finisce il mondo. La hybris di Odisseo consiste in un eccesso di volontà di conoscenza, nella forzatura ad ogni costo dei limiti imposti al sapere umano. Un grave peccato di superbia intellettuale, per un uomo del Medioevo come Dante.
Siamo ancora una volta davanti a una conferma. L’eroe, assetato di gloria o conoscenza, insegue egoisticamente il proprio destino estremo pretendendo di stagliarsi sugli eventi storici e ignorando le conseguenze.
E’ ormai tempo di tornare alla poesia dedicatoria de I Sette Pilastri della Saggezza, e avvicinarci alla conclusione di questo excursus.


5. Scambio d’amore

Abbiamo visto che la prima strofa della poesia dedicatoria di Lawrence è una dichiarazione d’amore e intenti perduti.
La seconda strofa non è meno significativa e contiene un tema importante, una chiave esegetica accessibile forse a pochi contemporanei di Lawrence, ma piuttosto chiara per noi, che conosciamo i retroscena privati della sua vita.

La morte sembrava il mio servo, lungo la via, finché fummo accosto
e ti vedemmo che aspettavi:
Finché tu sorridesti e con dolorosa invidia essa mi lasciò
e ti prese con sé:
Nella sua pace.

Ora, se il puritanesimo vittoriano non consente a Lawrence di chiamare il proprio amato per nome, ai nostri occhi la scoperta dell’elemento omoerotico non fa che rafforzare il canone, quindi la tesi che sto cercando di dimostrare.
Abbiamo detto che la letteratura europea nasce con un poema che racconta una guerra tra Oriente e Occidente, il cui protagonista ama un giovane compagno d’armi. Patroclo è l’amico/amante di Achille e muore al posto suo, letteralmente travestito da lui stesso. E’ uno scambio, una morte per amore, l’evento che sblocca la trama dell’Iliade e la fa precipitare verso la catastrofe finale.
Nell’Iliade, il rimprovero che Achille rivolge a se stesso alla notizia della morte di Patroclo, è chiarissimo: “Che io muoia anche subito, poiché non ho potuto aiutare l’amico, quando fu ucciso; lontano dalla patria è morto ed io non gli ero accanto per proteggerlo dalla sciagura”. (Iliade, canto XVIII). Achille avrebbe voluto essere al fianco dell’amico, aiutarlo, soccorrerlo, probabilmente salvarlo. E’ lo stesso rimprovero che Lawrence rivolge a se stesso quando apprende che il giovane Dahoum è morto di tifo, poco prima che lui giungesse in Siria alla testa dell’armata araba. Un rimorso che lo tormenterà per il resto della vita.
Ed ecco la strofa successiva:

L’Amore, stanco di vagare, si aggrappò al tuo corpo, nostra breve mercede
nostra per un momento.
Prima che la dolce mano della terra ti accarezzasse
e i vermi ciechi ingrassassero
Di te.

Qui Lawrence allude al fatto di essere riuscito a vedere il cadavere dell’amico prima dell’inumazione. Di certo sembra dovuta a questo la macabra visione della terza strofa.
Che sia vero o no, resta il fatto che anche qui ci troviamo in presenza di un’eco o addirittura di una citazione letteraria, che ci fa compiere il balzo più lungo, fino a un’epoca remota e germinale del mondo, faccia a faccia con il primo eroe immortalato dalla letteratura.
Sto parlando di Gilgamesh, il re sumero di Uruk, la cui saga risale almeno al III millennio a.C. (anche se venne fissata in un corpo letterario completo solo nel VII secolo a.C., durante il regno di Assurbanipal).
Gilgamesh è il più antico poema epico-eroico che si conosca e certo Lawrence non poteva ignorarlo. Non solo per i suoi studi accademici, ma anche perché Lawrence stesso, prima della guerra, aveva partecipato agli scavi archeologici della città hittita di Carchemish, nell’alto corso dell’Eufrate. La storia e le leggende dell’antica Mesopotamia non potevano essergli estranee.
Anche in questo caso il poema è diviso in due parti. Nella prima si narra l’incontro/scontro tra Gilgamesh ed Enkidu. I due diventano un embrione mitico di tutte le coppie di amici che incontreremo nelle saghe dei secoli successivi. Infatti Enkidu accompagna l’eroe nella sua impresa – abbattere il terribile gigante Humbaba e poi il Toro del Cielo – e Gilgamesh lo ama “come una moglie” (I, 252), lo fa giacere in un “in un letto d’amore” (VII, 137), cioè nel talamo nuziale.
Enkidu ha un ruolo molteplice: alleato, scudiero, amico, amato, e affianca Gilgamesh con assoluta fedeltà e devozione, aiutandolo a procurarsi “una fama che durerà in eterno” (Ep pB 2, 159). Perché è questo che importa a Gilgamesh, anche se dovesse perdere la vita nell’impresa: “Se io cadrò avrò guadagnato la gloria”, Ep. pB 2, 147).
Invece sarà il suo amico/amato a morire al posto suo. Una morte che però non viene guadagnata sul campo, ma che sopraggiunge per malattia. Ecco qualcosa in cui ci siamo già imbattuti, lo scambio tra eroe e amico, e il conseguente senso di colpa, la disperazione.
La scena di Gilgamesh al capezzale di Enkidu che si spegne lentamente è straziante e drammatica, densa di ritualità. Quando Enkidu cessa di vivere Gilgamesh “ricopre la faccia del suo amico come quella di una sposa” (VIII, 58). Poi veglia la salma per sei giorni e sette notti, “fino a che un verme non uscì fuori dalle sue narici.” (X, 65). E’ la stessa scena a cui allude la terza strofa della poesia dedicatoria de I Sette Pilastri della Saggezza. Compare perfino l’accenno macabro ai vermi.
La seconda parte del poema narra il viaggio di Gilgamesh nell’oltretomba, alla ricerca del segreto della vita eterna. Sconvolto dalla morte dell’amico e dall’idea della propria stessa fine, l’eroe raggiunge il luogo dove dimora l’unico uomo ad avere guadagnato l’immortalità, colui che scampò al Diluvio e salvò gli animali della terra portandoli sull’arca. Ma è un viaggio a vuoto, poiché Gilgamesh non riuscirà a superare la prova imposta per ottenere la vita eterna. Dovrà quindi accontentarsi della gloria terrena. La sua figura è alla fine malinconica e – in un certo senso – perdente proprio nel momento in cui tocca l’apice del successo.
A Gilgamesh non resta che tornare a casa e “incidere tutte le sue fatiche su una stele di pietra.” (I, 8).
Ecco l’ultima fatica dell’eroe al crepuscolo. Scrivere una versione dei fatti, autocelebrarsi, innalzare un monumento a se stesso che duri per sempre e sostuisca così, come feticcio, il fallimento dell’eroe stesso che si riscopre semplice uomo, fallibile e mortale.
Ma vediamo finalmente l’ultima strofa della poesia di Lawrence:

Gli uomini mi pregarono di elevare la nostra opera, la casa inviolata,
come una memoria di te.

Ma come degno monumento io la distrussi, incompiuta, e ora,

Le piccole bestie strisciano fuori e puntellano le tane
all’ombra lacerata
Del tuo dono.

La morte del compagno/amato a un passo dall’obiettivo finisce per rappresentare il crollo delle speranze arabe e di chi, come Lawrence, aveva voluto farsene interprete esclusivo. L’impresa storica rimane incompiuta, della casa restano in piedi soltanto i pilastri, fondamenta su cui altri un giorno potranno costruire.
Come Gilgamesh, il colonnello Lawrence torna a casa, a Oxford, nella quieta Inghilterra pronta ad accoglierlo da eroe, e guadagna lo spazio del racconto. Ne risulterà un libro che può fregiarsi del sottotitolo di “Un trionfo”. Si tratta forse di una nota ironica? Sì, nella misura in cui è un riferimento a quanto può essere ironica la sorte. Il trionfo di Lawrence trova infatti il suo culmine e la sua vacuità a Damasco, diventando così allusione a ciò che avrebbe potuto essere, se la storia avesse saputo rispondere alla volontà dell’eroe.


6. Chiamatemi Ismaele

L’avvento della modernità ci ha consegnato la parodia dell’eroico cavaliere che aveva dominato l’immaginario medievale. Il Don Chisciotte (1605-1615) è l’irrisione borghese dell’idealismo cavalleresco, rappresentato come un piano astratto di realtà, rifugio per la mente sconvolta di un vecchio. La pretenziosità dell’eroe viene messa a nudo, portata al parossismo, trasformata in farsa, e compatita.
Don Chisciotte è un uomo anziano che si crede un aitante cavaliere per avere letto troppi poemi epici. Nella sua testa la letteratura si è sostituita alla realtà, spingendolo a indossare i panni del cavaliere errante e a mettersi in viaggio in cerca di imprese, insieme al fido scudiero Sancho.
Questa figura patetica ha molto in comune con quella di Lawrence d’Arabia. Entrambi cercano di vivere in prima persona un sogno romantico, una grande avventura, vogliono incarnare celebri modelli letterari. In quanto eroi, pretendono di fare coincidere etica dell’azione ed estetica del gesto, vita reale e rappresentazione, se stessi e l’immagine ideale che proiettano all’intorno. Perché l’eroe aspira a vivere in vita il proprio stesso poema, e – in certi casi – perfino a scriverlo. E’ precisamente in questa forzata idealizzazione del gesto che l’eroe svela il suo lato in ombra, il suo rovescio, e da figura positiva può trasformarsi in fonte di sciagura collettiva. Per questa sua straordinarietà e intrinseca pericolosità, non può che essere una figura segnata, border-line, al limite della pazzia. Impazzire è precisamente ciò che capita al cavaliere Orlando, protagonista del poema epico Orlando Furioso di Ludovico Ariosto (1532), così come è ancora la pazzia a connotare Chisciotte. E Lawrence? Non era forse anche lui un folle? Sono stati riempiti interi capitoli con le rivelazioni sulle sue crisi di autolesionismo e masochismo. Per non parlare della mitomania o dei deliri di onnipotenza, o delle stragi di soldati turchi degne dell’ira di Achille, che altro non è se non una temporanea follia.
E’ questo che hanno cercato di dirci gli antichi poeti mentre celebravano le gesta degli eroi. Ci hanno messi in guardia dalla loro molteplice, contraddittoria natura e dall’ambiguità del loro ruolo. Ci hanno messi in guardia da un certo tipo di eroismo.
Una lezione che non solo spiega come Lawrence – personaggio di enorme cultura e profondità intellettuale – seppe maneggiare la materia mitica, forse con la stessa perizia e audacia con cui maneggiava la dinamite, ma soprattutto ci dice qualcosa che ci riguarda ancora più da vicino.
Qualcosa che attraverso i secoli e i millenni parla di noi, della nostra storia.
Al Museo Nazionale di Atene c’è una maschera d’oro. Si dice che sia la maschera funebre di Agamennone, il re acheo che distrusse Troia. E’ un oggetto bellissimo, che cela la morte e rende eterni i tratti dell’eroe, trasforma il suo viso in icona solare. Ma soprattutto, nasconde il volto reale, troppo simile a quello del mostro da sconfiggere. Il mito stesso identifica l’orco come alter ego dell’eroe e in definitiva – direbbe Freud – esso non è che un’emanazione del suo inconscio e di quello collettivo.
Ahab e la balena sono legati a filo doppio, si assomigliano e si compenetrano fisicamente. Il mostro ha strappato una gamba al capitano e lui l’ha rimpiazzata con un osso di balena, mentre Moby Dick porta conficcati sul dorso gli arpioni che Ahab le ha scagliato addosso ogni volta che ha cercato di ucciderla. Alla fine condivideranno lo stesso destino, legati stretti, appunto, come due amanti suicidi. Come dire che non meno delle balene bianche cacciate per i sette mari, dovrebbero essere i capitani Ahab a spaventarci, coloro che ci invitano a seguirli in fondo all’abisso di una guerra eterna.
Da secoli l’Occidente continua a mostrare all’Oriente una maschera bellissima. Continua cioè a raccontare e a raccontarsi lo stesso mito come unica narrazione possibile. E’ la storia di come l’Oriente abbia bisogno di essere salvato da se stesso e di come l’eroico Occidente non possa sottrarsi al compito. La facilità con cui questa storia attechisce è dovuta – credo – a quanto detto fin qui, cioè al fatto che poggia su un sostrato mitico profondo, ben radicato nelle nostre menti.
Ma se i miti, come racconti performativi, hanno qualcosa a che spartire con i fatti – e io credo che sia così – allora non è sufficiente strappare la maschera con un atto di forza razionale. Che ci piaccia o no, i miti persistono, fuori e dentro di noi, perché è solo attraverso le narrazioni che l’umanità racconta se stessa e prende coscienza della propria esperienza storica.
Quello che allora ci serve è imparare a mettere in crisi i miti con altri miti, a intervenire nella trama, rompendone l’apparente coerenza, provocando cortocircuiti di senso. Bisogna ricomporre i miti affinché il nostro fare vada a buon fine: scoprire una via alternativa da Camelot a Damasco, e da Damasco a qualunque altro luogo.
Forse è la via di Ismaele. Non più che un sentiero, o una linea di orme che si perde nel deserto, dove il figlio illeggittimo di Abramo venne abbandonato al proprio destino insieme a sua madre Agar. E’ la via attraverso la Terra Desolata, o l’oceano del tempo presente, se si preferisce. Possiamo percorrerla aggrappati a una bara galleggiante, proprio come l’altro Ismaele, il protagonista di Moby Dick, nella scena finale del romanzo. Quella cassa da morto si trasforma in scialuppa, con la quale diventa possibile tracciare nuove rotte e navigare attraverso l’arcipelago delle mille isole e oasi che ancora alludono a un’altra possibilità del mondo. E’ questo il viaggio, è questa l’impresa, che oggi abbiamo bisogno di raccontare.
Grazie.

[NOTA: In apparenza l'attitudine mimetica, cioè l'adottare in toto i costumi delle popolazioni locali con cui si entra in contatto, sembrerebbe avvicinare Burton e Lawrence. In realtà è vero il contrario. Lawrence non prese mai a modello l'esotista Burton, e non cercò mai di spacciarsi per arabo. La sua preferenza per il "britannico" Doughty è espressa a chiare lettere nell'introduzione all'edizione del 1921 di Travels in Arabia Deserta. In quelle pagine Lawrence entra in polemica con gli inglesi che pretendono di diventare come gli indigeni e ribadisce l'alterità bianca, ovvero sostiene una modalità d'approccio all'Oriente meno ipocrita, basata sulla differenza e non sull'assimilazione fittizia.]

35 Responses to “Da Camelot a Damasco – di Wu Ming 4”

  1. Ekerot Says:

    Veramente un bellissimo intervento.
    La figura dell’eroe non smette di angustiare critici e scrittori. Qualcuno si lamenta che questa sia l’epoca in cui nessuno potrà più essere eroe. Qualcuno è felice che finalmente non vi sia spazio per gli eroi.

    Sono assolutamente d’accordo che l’eroe senta dentro di sé il bisogno di differenziarsi, di spingersi all’estremo, anche a costo di azioni folli. Convinto di una superiorità personale non solo nei confronti dei nemici ma anche dei propri alleati.
    E credo che da questo punto di vista la figura di Edipo sia proprio fondante e fondamentale. Perché riesce a narrare tutta la sua epicità e la sua tragicità senza bisogno di guerre o di azioni “mitiche”. Il bisogno di sapere la “verità”, lo costringe e lo sprona a devastare tutto attorno a sé.

    E c’è un altro fattore, anch’esso sofocleo, che mi ha sempre abbattuto. Il “post” di un eroe.
    Cioè il come un eroe possa sopravvivere dopo aver sconfitto l’avversario, raggiunta la missione della sua quest. Paradossalmente, come l’eroe riesca a diventare “umano” e “quotidiano”.
    A nutrire la fantasia, l’egoismo, la vanità, ma anche la sua potenza di eroe (ciò che di lui ci affascina e cui ci lega indissolubilmente), sono tutti i nostri mostri, condannati razionalmente: la guerra, il sangue, il nemico, la violenza estrema, la morte delle persone care (un sacrificio irrunciabile per ogni eroe del mito).
    In tempo di pace, di giustizia e di libertà, l’eroe sta male, come Sherlock Holmes che deve ricorrere alla cocaina per non abbrutirsi.
    E Cincinnato diventa un banale e comune seminatore di campi.
    Ecco come anche Frodo, e persino Sam dopo di lui, sono costretti a partire, ad abbandonare la quotidianità, portatori del senso di un’avventura e di un mito che non riescono più a rielaborare nella realtà che esisteva prima del mito. Mito che il Male contribuisce a creare e a risvegliare.
    Lo stesso anti-eroe di fatto non riesce a rassegnarsi alla quotidianità, alla normalità, all’essere “come tutti gli altri”.

    E oggi questo processo di smitizzazione dell’eroe, ci conduce secondo me comunque alla ricerca di un sostituto. Di una figura che sia in grado di resistere al “post”. Un eroe, di fatto, ancora più forte del precedente.
    Ma può esistere questa figura? Si può narrare, soprattutto, l’eroe senza il suo substrato epico e mitico e al contempo evitandogli il ridicolo (come per molti versi ha fatto Cervantes)?
    E ancora più soprattutto, senza annoiare il lettore?
    Oppure come suggerisce l’intervento è necessario comunque andare per mare, verso altri lidi?

    Chiedo scusa per la logorrea, ma non è che sia frequente poter parlare di questi argomenti!

  2. giuseppe genna Says:

    “Bisogna ricomporre i miti affinché il nostro fare vada a buon fine”.

    Questo è un saggio fondamentale, che si aggiunge a memorandum e interventi di discrimine.
    Dico la mia. I riferimenti a Eliot (che per me ha da sempre costituito l’archetipo della narrazione con la “Waste land”, distruggendo la parodia dell’eroe praticata proprio a partire dal “Don Quixote”) e a Melville risultano centrali proprio nell’opera di mutamento del mito e della distruzione del simbolo, cioè di ciò che di culturale viene trasmesso illusoriamente, non permettendo di vedere il testo e, dunque, di vedere il reale. Tuttavia è proprio su Melville che vorrei domandare una cosa a WM4. E’ chiaro il riferimento a “Moby Dick”, tuttavia Melville è autore di due brevi narrazioni, che sono “romanzi”, quali “Bartleby lo scrivano” e “Benito Cereno”. In che senso possiamo dire che Benito Cereno è un eroe? Ricalca effettivamente tutti gli archetipi richiamati nell’intervento, eppure li manda in cortocircuito. E Bartleby è un eroe? Oppure si tratta di narrazioni prive di eroe? Per quanto si richiami la narrazione di Achab, non credo sia un caso che un paragrafo si intitoli “Chiamatemi Ismaele” – è colui che resta, che ha visto, che vede e, forse vedrà. C’è dunque una funzione più che eroica, direi testimoniale, che permette la narrazione epica? Io credo di sì e penso che non si tratti della funzione del cosiddetto “narratore onnipotente”, come non penso che si tratti di una funzione autoriale biografica (il “mito Omero”, almeno, non è una funzione biologica o biografica). Su questo sguardo testimoniale ritengo che proprio la “Waste land” di Eliot abbia detto molto.

    “non è che sia frequente poter parlare di questi argomenti!”

    Credo che sarà sempre più frequente.

  3. claudia boscolo Says:

    Concordo in pieno con Giuseppe sul fatto che questo saggio introduce nel discorso del New Italian Epic un tema fondamentale, direi forse il più importante, che è quello dell’inversione di marcia rispetto al processo di esautorazione dell’eroe per via ironico/parodica praticata in Europa a partire dalla tradizione franco-veneta e culminante in Ariosto. In questo senso, mi ha colpita la lunga digressione sul tema dell’orgoglio o dell’ “immagine ideale che l’eroe ha di se stesso, del proprio compito”, “fattore di rovina sociale”. Per rimanere nel medioevo europeo, nella tradizione carolingia il corrispondente dell’hybris è la *desmesure*, che porta Roland alla morte e l’esercito franco alla disfatta di Roncisvalle. Se l’eroismo è macchiato di orgoglio ipertrofico, di dismisura appunto, nell’epos medievale europeo la morte è la conseguenza naturale. Questo è certamente il caso della Chanson de Roland, a cui si aggiunge una vasta casistica di missioni indegne che causano l’estinzione di interi lignaggi. “La coerenza all’ideale eroico appunto, spinge il protagonista a mettere in gioco tutto pur di rimanere fedele all’icona eroica stessa”. Icona incrinata con la fuga dell’eroe (nell’anonima Entrée d’Espagne), l’innamoramento (in Boiardo), la follia (in Ariosto). La disillusione cervantiana verso un mondo di eroi sempre più improbabile è solo il culmine di questo processo di disgregazione di un intero mondo.
    Al contrario però, possiamo anche dire che il destino dell’eroe è la sopravvivenza se la sua *desmesure* è superata e la sua missione è degna. Esempi di sopravvivenza nelle tarde chansons sono il Poema del mio Cid, o l’Entrée d’Espagne, per esempio, che proprio sul tema della non-morte di Roland fonda il motivo dell’antieroismo tipico del poema cavalleresco italiano, tanto che si può pensare al senso di questa tradizione letteraria come a un tentativo di salvataggio dell’eroe epico tragico. Che poi il salvataggio sia sfociato in ridimensionamento e in parodia è anche dovuto al contesto socio-economico in cui questa metamorfosi si è andata compiendo. Per questo motivo, il recupero della rilettura operata da Eliot in Wast Land mi sembra un momento di svolta nell’accettazione che l’eroe epico possa sopravvivere oltre la sua dismisura, senza doversi pentire di essere sopravvissuto. Per me questo è il senso profondo della narrativa metastorica come è intesa nel NIE.
    Grazie per questo splendido intervento, che senza dubbio apre un ulteriore fronte di discussione nell’attuale riflessione.

  4. Fabrizio Corselli Says:

    Mi sono innamorato di questo saggio.

    Per adesso sto affrontando la stesura di una grossa opera epico-mitologica, e questo saggio non fa altro che corroborare le mie tesi sulla figura dell’eroe.

    Il tema dell’opera è la guerra ma vista al contrario, attraverso l’anti-eroe. La conquista sì della gloria ma a discapito della propria umanità.

    “Come abbiamo visto, l’eroe persegue un’idea, pretende di imporla al mondo, guidando “fiumane d’uomini”. Il sottotesto è che nessun altro se non lui è degno di compiere un’impresa del genere.
    Qui entra in gioco un’altra componente fondamentale della figura eroica. Vale a dire l’immagine ideale che l’eroe ha di se stesso, del proprio compito.
    I protagonisti della tragedia greca, e già i loro predecessori nell’epica, incorrevano spesso nel peccato di hybris. E’ un concetto questo che si colloca tra la “superbia” e la “prevaricazione”, e che ha comunque a che fare con la rottura delle leggi armoniche che reggono il cosmo. L’eroe in questo caso manca alla propria missione di ristabilire l’equilibrio e accelera invece il caos, pretendendo di forzare i limiti umani, cioè storici, e macchiandosi così di crimini gravi. L’eroe diventa antieroe”.

  5. Ekerot Says:

    Bartleby è secondo me proprio una di quelle figure letterarie in grado di muoversi nel “quotidiano”.
    Ma anche io mi chiedo: è sempre un eroe? Se non ricordo male, nel racconto neanche si riesce a capire da cosa provenga quella frase ossessivamente ripetuta. Come se “Edipo Re” si fosse fermato a metà…

    Senza più certezze, neanche narrative e letterarie, credo che persino l’eroe più in gamba possa fare molto. Chi sono gli eroi della letteratura contemporanea?

  6. giuseppe genna Says:

    @ Ekerot: c’è un saggio di Agamben molto bello su Bartleby, sta in un libro edito da Quodlibet, dove appare anche un saggio di Deleuze su Melville – il titolo, se non vado errato è “Bartleby o la formula della creazione”. A proposito di Bartleby o di Benito Cereno (il cui nome, emblematicamente, per ammissione dello stesso Melville, è in connessione con la “serenità”), io cerco di porre una domanda, che non è detto che possa avere una risposta narrativa, al momento. Richiamo Kafka, dai suoi “Diari”, quando dice che “il comico è il minuzioso”. Il comico non è il parodistico – è il sintomo di una compresenza del tragico. Io vedo l’epica come un’espansione della tragedia (visione, ammetto, idiosincratica, seppure supportata da molta filologia). E’ questo aspetto, il minuzioso, che mi interessa in quanto sostiene nel suo saggio WM4. Cosa avviene, in pratica, lavorando minuziosamente alla narrazione? La realtà non viene posta sotto mimesi, ma si svela nella sua indistinguibilità di comico e tragico. In SdM, per me, accade questo. Ciò significa che il testo si sottrae a qualunque interpretazione: è il testo, punto e basta. E’ la storia. Diventa letterale e mette in moto un frustrante quanto inutilissimo circolo ermeneutico. Per questo la frase di Bartleby o quasi tutto Kafka, ma anche la “Waste Land” o Burroughs o “Petrolio” di Pasolini diventano difficilissimi da interpretare – anzi, l’interpretazione si fa indefinita. Perché, in realtà, non c’è interpretazione. La vicenda di Edipo è talmente “letterale”, nel senso che ho conferito a questo aggettivo, che il testo ha una potenza tale da fare scaturire interpretazioni contrastanti, moltissime, conflittuali tra loro. Edipo non è quello di Freud, ma nemmeno quello di Hillmann, nemmeno quello di Pasolini. E’ una storia che produce, cioè, non più interpretazioni, ma altre storie. Le interpretazioni sono “costrette” a diventare narrazioni. Lo sguardo di Ismaele in “Moby Dick” è per me questa potenza. Rilke produce questa potenza. Il che mi porta a dire, visti anche i riferimenti fatti da Claudia, che qui è in ballo davvero un fatto discriminante: la narrazione è indifferentemente poesia o prosa. Io sono molto fiducioso che accadrà questo nel futuro: la totale indistinzione tra poesia e prosa, esattamente come accade nell’epica, nell’oralità, nella tragedia classica e in quella contemporanea. O “sentiamo” la narrazione in questo modo, o temo che il cosiddetto “genere romanzo” sia insufficente all’orizzonte che mi pare di ravvisare dischiudersi.

  7. giuseppe genna Says:

    @ Ekerot: dimenticavo di rispondere alla tua ultima domanda, che è fondamentale. In “La possibilità di un’isola” di Michel Houellebecq, l’ultimo clone del protagonista Daniel, e non il protagonista Daniel, è l’eroe. In “Cosmopolis” di Don DeLillo (“romanzo” considerato uno schifo da quasi tutti coloro con cui ne ho discusso), Eric Packard è l’eroe. Nei “Sonetti” di Rilke, Orfeo/Euridice è l’eroe. In “Waste land”, lo sguardo è l’eroe. Ciò che è inafferrabile ma iniziatico, nel senso con cui Campbell denota il viaggio dell’eroe nel suo “L’eroe dai mille volti”, è l’eroe. K. è sempre l’eroe in Kafka. Chi strapazza “io” è l’eroe nello “Zibaldone” di Leopardi. Possiamo dire che il Lawrence di SdM è latentemente omosessuale, ròso dai dubbi e pieno di empito, ologramma spettacolare e persona automistificantesi – fatto sta che è inafferrabile. E’ un eroe della letteratura contemporanea. Quando, nel suo memorandum sul NIE, WM1 sottolinea l’epifania del Vecchio e lo sguardo filiale, credo che identifichi due momenti funzionalmente eroici della letteratura contemporanea. Magari ancora da elaborare, da raffinare, da riempire di genio – ma questa figura che agisce nel mondo e non è del mondo interamente, questa sagoma vuota capace di sorprendere perché è disponibile a qualunque mutazione, è l’eroe. Ovviamente, si tratta di una prospettiva del tutto personale.

  8. Wu Ming 4 Says:

    Dunque, Giuseppe ha posto delle domande e delle sollecitazioni, poi rispondendo a Ekerot ha finito per rispondersi da solo.
    Le questioni sollevate dai vostri interventi non sono affatto semplici.
    Quale eroismo per il presente? Ovvero, quale alternativa all’eroe? O ancora meglio: esistono figure letterarie non canonicamente eroiche che possono tuttavia essere considerate tali? Esiste un eroismo minuto, disturbante, sfuggente?
    A una presentazione di SDM a Firenze, dal pubblico mi è giunta questa domanda: “Ma dove finisce il percorso di destrutturazione dell’eroe? All’uomo senza qualità di Musil? A Kafka? Allo psicodramma borghese?”. E posso garantire che non era una domanda provocatoria né stronza, era sincera e mi sembra che abbia molto a che fare con l’argomento di cui si discute qui.
    Una risposta affermativa, ancorché a mio avviso demenziale, potrebbe venire da Oliver Stone. Se si escludono due memorabili scene di battaglia, il suo finto epic movie “Alexander” (2004) ci racconta l’epopea di Alessandro Magno in chiave di dramma famigliare borghese. Schiacciato dal conflitto tra i genitori, a un certo punto addirittura Alessandro si rende conto di avere il complesso di Edipo e più o meno tutta la sua vicenda diventa un caso clinico freudiano. Ricordo di essere uscito dalla sala pensando: “Ma Oliver Stone ci fa o ci è?”
    Autorispondendo a Ekerot, Giuseppe dice che forse una risposta narrativa ancora non ce l’abbiamo, però mi pare che poi nelle sue repliche avanzi più di un’ipotesi concreta sul ridefinirsi e rideclinarsi dell’eroe nella grande letteratura contemporanea. Io credo che il suo punto di vista, il suo atteggiamento, sia quello giusto. Non esiste una sola risposta alla “crisi” dell’eroe: la letteratura ne ha fornite diverse nel corso del Novecento, che, non dimentichiamolo, è stato anche il secolo dei “Sette Pilastri della Saggezza” e del “Signore degli Anelli”, appunto (nonché di un mare di fantascienza neo-epica). Proprio i protagonisti di quelle due opere sono eroi che sopravvivono, tanto per ricollegarmi al discorso introdotto dalla dottoressa Boscolo, e che devono affrontare la normalizzazione: uno fuori dalla pagina scritta, gli altri nello strascico dell’happy end che finisce per essere pesantemente incrinato.
    Di cos’altro si tratta in questi casi se non del tentativo di rideclinare al presente antichi archetipi tenendo conto del disincanto contemporaneo o di una nuova scala di valori?
    Scusate se preferisco muovermi sul terreno che conosco meglio, ma, come direbbero a Roma, famo a capisse. Se prendiamo “il Signore degli Anelli” e proviamo a leggerlo in chiave meta-testuale ci accorgiamo che rappresenta precisamente questo: il passaggio dall’eroismo classico a una sua possibile versione moderna, borghese. Che però di fatto sono la stessa cosa. Ciò che cambia è la “posa” dell’eroe, il suo stile, la sua visione del mondo. Nel romanzo di Tolkien ci sono personaggi che rispettano il canone eroico più classico, come Aragorn o Eomer, coraggiosi guerrieri del nord, che però vengono tenuti ai margini della narrazione. Perché i protagonisti sono i placidi – ma sorprendenti – hobbit, gli eroi per caso che si trovano a salvare il mondo e non certo in maniera indolore. Frodo e Sam, Merry e Pipino, sono eroi autoironici, anche ridicoli, e al contempo consapevolissimi della propria missione, del sacrificio a cui vanno incontro. C’è un’analisi bellissima fatta da Tom Shippey sulla risata degli hobbit davanti alla morte, che non è la risata sprezzante di Beowulf o il ghigno belluino di Achille, ma una crassa, liberatoria risata da osteria. E’ l’irrompere della normalità, della quotidianità, della vita vera contro il dover essere. Che però non implica alcuna deresponsabilizzazione, gli eroi hobbit sono pur sempre eroi e andranno fino in fondo. Solo che lo faranno con una scrollata di spalle davanti al destino e appunto una risata che se non dissolve il dispiacere, può però schermare dalla disperazione, l’arma più efficace del nemico. In altre parole quei soldi di cacio non tradiscono l’archetipo, lo cambiano creativamente.
    Giuseppe ha citato il Lawrence di SDM, che non è poi troppo lontano da Frodo (è precisamente questo che volevo suggerire con la prima immagine che Tolkien ha di lui nella scena al museo): Frodo è un eroe anti-eroico non solo per assenza di physique du rôle, come appunto Lawrence, ma soprattutto perché nel momento in cui raggiunge il compimento della missione perde se stesso, cede al potere dell’anello, viene sconfitto. Tanto è vero che se non fosse per la Provvidenza non ci sarebbe lieto fine. E se allo stato attuale non è la provvidenza che ci interessa, non si può dire lo stesso del fatto che il vincitore morale e materiale alla fine sia proprio Sam, quello che era partito come scemo del villaggio. Tolkien si spinge oltre Cervantes e trasforma Sancho Panza in un eroe vero, in un eroe malgrado se stesso e contro ogni evidenza iniziale, l’unico che alla fine si assume il peso (letteralmente) della responsabilità. E’ lui a ereditare la terra, anche se ha perso la semplicità di spirito che lo distingueva; mentre Frodo, moralmente sconfitto, irrimediabilmente ambiguo, segnato dal Male, non può che ripartire, lasciarsi portare via da Gandalf insieme agli eletti (e mi accorgo che così sono arrivato pure alla scena finale di SDM… chiedo venia per l’autoindulgenza).
    E’ precisamente a questo clamoroso sottotesto che Tolkien ha lavorato per anni. E non è forse un esempio, un tentativo di “transizione” verso un’eroicità diversa, dal volto umano, più autoconsapevole e rassegnata a fare i conti con la propria metà oscura, senza per questo rinunciare all’epicità?
    Io ve lo dico a chiare lettere, amici miei, ci ho messo parecchi anni a capirlo, ma se faccio lo scrittore è precisamente perché mi affascina questa possibilità.
    E così mi ricollego alle suggestioni della dottoressa Boscolo sull’eroismo e l’orgoglio. In realtà adesso sto cercando di approfondire precisamente questo aspetto (anche se il tempo non è mai sufficiente): ho staccato una costola dalla lezione di Damasco e l’ho sviluppata in separata sede riprendendo un vecchio saggio di Tolkien su “La Battaglia di Maldon”. Finora ho testato l’argomentazione solo a voce, nell’intervento che ho fatto alla Facoltà di Lettere occupata di Bologna, ma vorrei rendere tutto più organico, riproporlo il 19 alla Statale di Milano (omologa facoltà) e poi dargli una forma scritta. E’ così che lavorate voi universitari, o sbaglio? A conti fatti l’intervento non è niente di trascendentale, solo il tentativo di sviluppare uno spunto “minore” fornito dal prof. Tolkien, pressoché ignorato dai suoi commentatori nostrani e forse un po’ sottovalutato anche dagli esperti (ad esclusione del solito Shippey). Con un po’ di pazienza vorrei mettere anche quel pezzo di carne al fuoco.

  9. Ekerot Says:

    Vi ringrazio per gli stimoli della discussione.
    In questo momento non sono in grado di dire qualcosa di sensato.

    Spero, per ricongiungermi al discorso, che il buon Obama possa diventare ispiratore di un romanzo con un eroe contemporaneo.

  10. sergio Says:

    a che ora sarai il 19 alla Statale di Milano, WM4?

  11. Wu Ming 4 Says:

    L’incontro è alle 10,30. Facoltà di Lettere e Filosofia. Non so ancora in quale aula.

  12. Claudia Boscolo Says:

    .. direi che se non mi chiami dottoressa Boscolo fa anche lo stesso:)))))
    sì, noi “universitari” (leggi: precari della ricerca in perenne scadenza) facciamo proprio così.
    “E’ precisamente a questo clamoroso sottotesto che Tolkien ha lavorato per anni. E non è forse un esempio, un tentativo di “transizione” verso un’eroicità diversa, dal volto umano, più autoconsapevole e rassegnata a fare i conti con la propria metà oscura, senza per questo rinunciare all’epicità?
    Non hai idea di quanto questa considerazione sia importante, per sbloccare l’impasse della narrativa contemporanea internazionale (cosa che comunque avete già fatto), ma soprattutto per restituire ai lettori il diritto di sognare e di avere dei modelli a cui ispirarsi, senza sentirsi sempre ed invariabilente degli idioti.
    Grazie ancora per questo spettacolare sforzo interpretativo.

  13. Paolo S. Says:

    Complimenti! Bello! Medito, poi mi accosto con un commento per adesso troppo agitato fra i neuroni!

  14. giuseppe genna Says:

    Un’unica considerazione, davvero per non rendere troppo denso il tutto, e permettere un metabolismo decente alle molte suggestioni, che a me sembrano fondamentali. La considerazione concerne lo snodo Cervantes-Kafka. Nei “Quaderni in ottavo” (credo editi da SE), appaiono le prove che Kafka compie su una celeberrima inversione: Don Chisciotte non esiste, se lo è inventato Sancho Panza, che rimane nascosto. Sembrerebbe l’esemplificazione pura di un atteggiamento che, con tutti i limiti e le ambiguità di certe etichette, abbiamo definito “postmoderno”. Prima di scrivere una frase isolata (mi pare: “La disgrazia di Don Chisciotte non è la sua fantasia, è Sancio Panza”), scrive: “La psicologia è impazienza”. L’impazienza, la non metodicità diventa per lui “il peccato capitale” (vado sempre a memoria…). Poi, di colpo, scrive ‘La verità su Sancio Panza’. A questo punto vado a recuperare il libro, non posso andare col ricordo. Ecco cosa scrive Kafka: “Sancio Pancia, che del resto non se ne è vantato mai, nel corso degli anni, procurando nelle ore serali e notturne una gran quantità di romanzi cavallereschi e storie di briganti al suo diavolo, cui più tardi diede il nome di Don Chisciotte, riuscì a sviarlo a tal punto da sé che questi, perso ogni controllo, compì poi le imprese più pazzesche: le quali, però, venendo a mancare un obbiettivo prestabilito, cioè appunto lo stesso Sancio Pancia, non danneggiarono nessuno. Sancio Pancia, uomo indipendente, seguì Don Chisciotte – restando imperturbabile e forse spinto da un certo senso di responsabilità – in tutte le sue avventure, da cui ricavò sino alla fine un grande ed esemplare divertimento”.
    Ecco, questa mi sembra la parabola del percorso personale di WM4 rispetto a Lawrence, ma al tempo stesso mi sembra l’orizzonte narrativo a cui alludevo. Non esiste psicologia, e quindi non esiste impazienza. Resto convinto che Lawrence in SdM vada oltre la psicologia. Lo stesso “percorso personale” a cui mi riferisco, per me non è un percorso psicologico di WM4. Kafka, in un testo brevissimo, devasta qualunque possibilità di ironia postmoderna. La narrazione viene fatta per stornare ciò che pacificamente è detto essere “il diavolo” (Kafka non credeva al diavolo, come si sa). Questa narrazione innesca “le imprese più pazzesche”. Sancio Pancia resta un uomo indipendente: è un testimone imperturbabile. Avverte un senso di responsabilità. Segue il diavolo che si scorda, attraverso la narrazione, di mirare a lui. Fruisce di un “esemplare divertimento”. Direi che si tratta di una folgorante definizione (anche in termini etimologici) di un’epica contemporanea, non borghese o post-borghese, non antieroica, per nulla algebrica. Le storie hanno causato storie, l’eroismo del Sancio Panza di Kafka non è sottotonale e nemmeno cabarettistico. Si tratta di affrontare il diavolo in questo modo.

  15. Anna Luisa Says:

    Sul tema eroismo/orgoglio la prima cosa a cui ho pensato leggendo il saggio di wm 4 è stato quel passo dell’Odissea in cui Ulisse, peccando di orgoglio e narcisismo, svela a Polifemo, ormai sconfitto e accecato, la sua vera identità (torna ad avere una “forma certa”: anche da un punto di vista squisitamente strategico compie una cazzata!) fino a quel momento celata sotto l’astuto pseudonimo di “Nessuno”:di fatto, le disavventure di Odisseo iniziano nell’istante preciso in cui l’eroe svela (per vanto, per boria.) il proprio nome. Il Ciclope, conosciuto il vero nome del Laerziade invocherà Poseidone per ottenere vendetta:

    “Ascolta, o Poseidone che cingi la terra, chioma azzurra:
    se davvero son tuo e mio padre ti vanti,
    dammi che in patria non torni Odisseo distruttore di rocche,
    il figlio di Laerte, che in Itaca ha casa.
    Ma se è destino che egli riveda gli amici e che torni
    alla solida casa e alla terra dei padri,
    tardi, male ci arrivi, perduti tutti i compagni,
    su nave altrui, trovi in casa sciagure.”

    L’esito disastroso del viaggio dell’eroe è che saranno i compagni di Ulisse a non fare mai più ritorno a casa (sono loro a pagare) e non il vero responsabile di quell’azione.

  16. Pier Carlo Says:

    Uno dice la casualità: ieri da appassionato lettore dell’”Ulisse” di Joyce mi sono imbattuto in questa pagina critica scritta da T. S. Eliot nel 1923 per difendere il capolavoro dell’esule volontario irlandese dagli strali della critica:

    “Usando il mito, e operando un continuo parallelo tra contemporaneità e antichità, Joyce instaura un metodo che altri potranno utilizzare dopo di lui. Essi non saranno imitatori, non più di quanto lo siano gli scienziati che usano le scoperte di un Einsetin per sviluppare le proprie, indipendenti, ulteriori ricerche. E’ semplicemente un modo di controllare, ordinare e dare forma e significato all’immenso panorama di futilità ed anarchia che è la storia contemporanea. E’ un metodo già adombrato da Yeats (…) E’ un metodo nato da buoni auspici. La psicologia (…) l’etnografia e “The Golden Bough” hanno concorso a rendere possibile ciò che non lo sarebbe stato fino a pochi anni fa. INVECE DI UN METODO NARRATIVO, NOI ORA POSSIAMO USARE IL METODO MITICO. Io credo che SIA UN PASSO PER RENDERE ACCESSIBILE ALL’ARTE IL MONDO MODERNO (…). E solo coloro che hanno conquistato la propria disciplina in segreto e senza aiuto, in un mondo che offre così poca assistenza a questo scopo, possono essere di qualche utilità per favorir un progresso in tal senso”.

  17. Valentina Fulginiti Says:

    Basta pensare a titoli come quelli citati (Barthleby, Benito Cereno, Cuore di Tenebra), per pensare che la duplicità sia la marca del romanzo, inteso come la modalità immaginaria che ha segnato la produzione di pensiero Occidentale da noi concepito: sono indizi a doppia lettura, a volte due letture contrastanti autorizzate… Del resto il doppio è la traduzione iconica del “simbolico”, che si pensi alle due metà di un pegno spezzato o alle due facce inscindibili di una moneta. È per questo che, nella cosiddetta crisi o “morte” (mah…) del romanzo, le culture post-coloniali, le fasce critiche e le cosiddette “minoranze” hanno mostrato di sapersi riappropriare dei miti fondativi di una cultura, ricomponendoli a modo loro. Esercizio di «manipolazione» letteraria, consapevole però.

    Provo ad andare oltre, ipotizzando che la figura del “doppio”, il viaggiatore capace di farsi “straniero”, sia radicata al cuore della nostra cultura di Occidentali, del nostro Orientalismo, almeno quanto la nozione classica di “eroe”. Alcuni esempi: nel Seicento inglese, narrazioni come “Oroonoko, lo schiavo di sangue reale (di Aphra Behn), oltre al notissimo caso di Leo Africanus, tra le altre cose una delle fonti di Otello. La letteratura del siglo de oro pullula di novelle (pubblicate a parte come quelle di De Vega, o infilate nel romanzo dello stesso Cervantes) “d’oriente”; le fanciulle rapite dai mori, le “saracine” dell’harem prodigiosamente naufragate in terra cristiana e ivi convertite, i giovani cristiani catturati dai pirati e fatti schiavi, le conversioni simulate all’Islam, fino al momento della fuga… Persino l’archetipo del colonizzatore moderno, il Robinson Crusoe di Defoe, deve passare per lo sguardo altro e della schiavitù, farsi letteralmente “cosa d’altri” prima di diventare se stesso, l’uomo isola che conosciamo noi. E non è solo una maniera narrativa…

    Ultimo contributo: segnalo l’esistenza di una riscrittura teatrale del Don Chisciotte (senz’altro nota ai più di voi), con Sancho nel ruolo dell’eroe, ad opera di Alfonso Sastre (1984, Il viaggio infinito di Sancho Panza). Qui la dialettica servo padrone è tutt’altro che un paragone azzardato, se non ricordo male.

  18. Paolo S. Says:

    Prendo un ramo laterale della cosa. Appare evidente da qui, nella materia dotta come in quella popolare, e fin dal principio (Gilgmesh, Alessandro, Cincinnato, Beowulf, Sam) che si può incarnare il mito dell’eroe solo per un tempo limitato, che può finire solo con la morte o il ritiro dalle scene. Questa sembra un’antica consapevolezza trasversale, che prende forme diverse ma si ancora a una verità profonda, banalmente radicata alle età della vita.
    Ricordo un sogno di Jung, dove la sua “ombra” uccide Sigfrido, e che lo psicologo svizzero interpreta proprio come il bisogno di uccidere l’atteggiamento eroico, sogno che avviene in un momento in cui l’Europa era intossicata di eroismo.
    E al contrario penso alla dipendenza da adrenalina dell’artificiere protagonista di The Hurt Locker, incapace di trovare soddisfacente la vita quotidiana e di abbandonare il rischiosissimo servizio.
    In qualche misura, la scena finale del quarto Indiana Jones, il più classico dei matrimoni, ci dice assolutamente questo: i cicli si chiudono, i ruoli cambiano (e ci sono più momenti in cui Spielberg stesso ci dice che il tempo è “scaduto” per Indy in questa avventura. La soluzione americana (semplicistica?) di questa faccenda è una semplice coda: i cicli si chiudono, i ruoli cambiano, MA la potenzialità eroica rimane disponibile (Mutt raccoglie il cappello del padre) e allo stesso tempo l’individuo rimane l’individuo, vale per sé (figliolo, tu sei nell’età della brillantina: il fedora sono io e non te lo lascio!).
    Indy è un passo avanti rispetto ad Artù “Once and future king”, re perduto perché umano in un mondo di scontri assoluti ma di cui si profetizza il ritorno (Artù manca e resta allo stesso tempo), ed è un passo avanti a noi individui succubi della quotidianità, del mondo indifferente e della nostra mente intrappolata. In un paese dove l’eroe capitale segue le orme di Cincinnato, forse è più facile credere a questa favola.

  19. rupe Says:

    …ma che diceva Brecht ?

  20. admin Says:

    Attenzione, l’incontro del 19 alla Statale di Milano è stato spostato al pomeriggio, alle h.14:30. Tutto il resto rimane uguale.

  21. Paola Di Giulio Says:

    WM4! Continua la splendida postazione sopraelevata da cui riesci a tirar su come una calamita elementi che servono a comporre un’altra immagine del personaggio, nuova, e a innescare un dibattito, e così esserci utile. Suggestioni polverizzate, atomizzate, che nel tuo scritto sembrano attraversare Lawrence e mescolarsi alla sua vita e tra loro, facendo poi arrivare le particelle fino a noi. Ma si può dire se in seguito Lawrence sia riuscito a distruggere (malgré soi) i miti che aveva in se stesso e che lo avevano portato ad incarnare un ruolo nella rivolta araba?
    Certo nel Lawrence sopravvissuto alla guerra continua la progettualità orgogliosa – la sua immagine offerta contraddittoriamente alla leggenda, la pubblicazione dei Sette Pilastri secondo una precisa concezione estetica, la RAF, dove intravedeva una grandiosa rappresentazione (un’epica?) del futuro, e la casa nel Dorset, con un suo preciso progetto tecnico. Ma lo spartiacque dell’esperienza della rivolta araba ce lo mostra anche pronto a segnalare agli altri una via di fuga, brigando per far abolire il reato di codardia in guerra, perfezionando lance di salvataggio, criticando a man bassa le gerarchie militari – impegnato ancora in una sua guerriglia per fare e disfare le cose che non funzionavano, dando una scrollata ad alcuni miti dei suoi contemporanei.
    L’eroe può uscire dalla tragedia e trovare una consolazione nel progetto?

  22. Wu Ming 4 Says:

    Assolutamente sì. Io credo che Lawrence non abbia mai smesso di essere anche ciò che di “positivo” Robert Graves aveva visto in lui, e cioè un rompiscatole, un precursore, un’acuto provocatore post-wildiano, a suo modo un rivoluzionario.
    Ma non è solo in una rinnovata progettualità che ha trovato il punto di fuga dalla propria tragedia. La metà di lui che bramava la pace e non la gloria, lo ha portato a cercare prima la negazione di sé, del proprio stesso mito, la sparizione, poi una pace domestica, relazionale, affettiva. Quella che si era negato per tutta la vita. In definitiva credo che Lawrence sia riuscito, negli anni precedenti alla morte, a trovare una dimensione profondamente umana, forse anche a riconciliarsi con se stesso, chissà. Come sai Paola, il periodo tra il ’29 e il ’35 è quello che più mi è costato sacrificare quando ho scelto l’ambientazione di SDM. Perché lì emerge un Lawrence nuovo, meno stressato, aiutato dall’età. Fu il suo “Regno d’Oro”, appunto. Ancora un riferimento mitico, classico, ma questa volta speso per qualcosa di personale, di intimo: la scoperta di una quiete almeno parziale, senza la quale è ben difficile qualunque progettualità.
    Se dovessimo analizzare la parabola di Lawrence nel suo insieme, allora sì, dovremmo tenere conto non solo dell’antimilitarismo di “The Mint”, non solo della richiesta di dare asilo politico in Gran Bretagna al “rinnegato” Trotzky, non solo dei suoi progetti aeronavali per difendere l’Inghilterra da un eventuale attacco tedesco, ma soprattutto di questa coda “famigliare” finale. Senza dimenticare la morte ad alta velocità (perché la tentazione di essere ancora fast and furious non lo aveva comunque abbandonato). E dovremmo dire che l’eroe può uscire da se stesso, può diventare altro, perfino contemplarsi da fuori. E accettare anche la sconfitta senza timore.

  23. Giulio Leoni Says:

    Ho letto con grande interesse sia l’intervento iniziale, che i commenti che ne sono scaturiti, tutti pieni di ottimi suggerimenti. Anche per le riflessioni ulteriori sulla figura dell’eroe, e le sue possibili nuove declinazioni nella storia-letteratura contemporanea. Personalmente ritengo che gli uomini si suddividano in tre categorie: 1- coloro ai quali il mondo va bene così com’è. 2- coloro ai quali il mondo appare insoddisfacente, e si adoperano per trasformarlo. 3- coloro ai quali il mondo non piace, si adoperano per trasformarlo ma con la consapevolezza profonda che comunque i loro sforzi sono destinati al fallimento. E’ appunto da quest’ultima categoria che scaturicono gli eroi, con la loro aureola tragica figlia di Necessità.
    In tal senso avevo sempre interpretato i Sette Pilastri come un nobile tentativo di riscrittura dell’Also sprach Zarathustra, velato forse da un certo imbarazzo nei confronti di un mondo germanico con cui non era ancora possibile un rapporto sereno. Ma certo gli stimoli di Wu Ming suscitano diverse altre interpretazioni.

  24. Luca Says:

    Premessa: sono quel disgraziato che qualche giorno fa a Casalecchio di Reno ( Politicamente scorretto…) si è fatto autografare una copia di SDM scaricata dl vostro sito e stampata dal computer. Una scena un pò inusuale, ma divertente.
    Ecco, il libro l’ ho letto, così come questo intervento. Complimenti, un’ esposizione da leccarsi i baffi e idee portate avanti in maniera intelligente e forte.

    Lawrence, così come gli eroi che da sempre affollano le mitologie di tutto il momdo, trova l’ immensa forza e imponenza delle sue azioni proprio in ciò che poi ne determinerà il quasi fallimento: l’ impresa è al di sopra delle sue possibilità. Un uomo alle prese col sovrumano e alle ferite che questo comporta. La gloria dilaga nella caduta, contropartita inevitabile. Così come nella mitologia greca molti personaggi più o meno divini rinunciano all’ immortalità per i più svariati motivi, Lawrence rinuncia all’ esaltazione della propria figura, conosce i suoi limiti anche se magari non li accetta.
    A una cosa non rinuncia: alla narrazione di se stesso. Pur se con fatica, riesce a tracciare un profilo mitologico e letterario di sè come personaggio, come leggenda.
    Non vuole cancellare le macroscopiche incongruenze delle sue azioni, delle sue scelte. Le vuole esporre sfruttando i chiaro-scuri della storia, della narrazione epica e mitica.
    Vittima e carnefice. Lucido ma folle. Determinato e impaurito. Tante cose insieme, ma la forza sta nel non negare nessuno di questi aspetti. Gli opposti si esaltano, vanno a porre un uomo oltre l’ umano, oltre i propri limiti. Per poi presentare il conto. Ferite che bruceranno per sempre. Lawrence ha quasi vinto la guerra, quasi tradito gli arabi, è stato quasi un dio e quasi il più meschio degli uomini. Si porta dentro i suoi fantasmi, come tutti.
    Proverà ad espiare le colpe grazie alla letteratura, alla narrazione. Non gli interessa troppo farci sapere come andarono le cose in quel deserto, ma come andarono PER LUI le cose. Cosa pensava, vedeva, voleva. Un eroe al centro della scena, un archeologo arrivato lì ad oliare gli ingranaggi della sotria.
    Nel nostro secolo ha riscosso molto successo una figura nuova di eroe: il Supereroe. A volte dotato di superpoteri, altre volte solo super incazzato con le ingiustizie del mondo. Beh, potrò sembrare un eretico, ma in Lawrence vedo un supereroe alla Spiderman. Il lato oscuro sempre pronto a riaffiorare, le responsabilità che a volte sovrastano i nervi pur saldi. Lui con la sua dinamite, l’ altro con le ragnatele. Ognuno impegnato in una lotta senza fine in cui il bene e il male rimarranno sempre in equilibrio. Altrimenti non ci sarebbe più bisogno di combattere. Non ci sarebbero battaglie, scontri, nuovi scenari, progressi, nuovi mondi, idee imprevedibili. Altrimenti non ci sarebbero narrazioni. E questo non lo possiamo proprio immaginare, da Gilgamesh agli X-Men, da Omero all’ Uomo ragno.

  25. Luca Says:

    Scusa, sono un disastro, lo so. Giusto due righe per dire che sono uno dei 500 che ha assistito a quella strepitosa serata al 38 di Via zamboni (Università di bologna per i forestieri) in cui ci hai proposto una storia bellissima con un finale emblematico: la fuga a gambe levate, non per codardia, ma per andare a costruire qualcosa di nuovo, una difesa differente. Che significa? Non peccare di hybris riconoscendo i propri limiti? Organizzare nuove narrazioni per difendere la nostra storia? Vestire i panni dell’ eroe moderno (disincantato, quotidiano, cinico a volte, confuso quasi sempre) e accettare il proprio ruolo? Sono confuso. Molti input, fili rossi da seguire con la coda dell’ occhio e orizzonti poco chiari.

  26. Wu Ming 4 Says:

    Sulla faccenda dei supereroi marveliani posso dire che l’accostamento con alcuni di essi, Spider Man, certo, ma non solo, è azzeccato. Questo perché in generale l’universo Marvel è forse uno dei luoghi dell’immaginario dove più si è affrontato e sviluppato il tema dell’eroe, della sua crisi, della sua sopravvivenza nella modernità, etc. Io ho preferito lavorare sugli archetipi epici, perché non sono un grande lettore di fumetti (non più, purtroppo), ma sono certo che si potrebbero impostare argomentazioni analoghe partendo proprio dai supereroi.
    Per quanto riguarda il mio intervento alla Facoltà di Lettere di Bologna, mi sembra che tu abbia già le risposte (basta togliere i punti di domanda). Sul piano letterario la mia riflessione prosegue. Sto rendendo più organico quell’intervento e vorrei sviluppare un altro pezzo, che si spingesse ulteriormente avanti nell’analisi. Alla fine vorrei comporre un trittico di articoli sull’eroe. Stiamo a vedere.

  27. Dalia Says:

    Ho da poco terminato la lettura di ‘Stella del Mattino’. Mi è piaciuto; l’ho trovato forte, complesso, coinvolgente. E questo tuo intervento a Damasco (così come altre cose dette in questo blog) è molto suggestivo. Vorrei fare due considerazioni/domande (premettendo che prima di leggere il tuo romanzo, ed in seguito vedere il film, non sapevo assolutamente nulla su T.E.Lawrence).
    1) La vicenda di Lawrence, così come appare nel tuo libro, anche illuminata dalle osservazioni che hai fatto in questo intervento, mi ha immediatamente ricordato la figura di Alessandro Magno, visto dagli occhi di Mary Renault (“Fire from Heaven”, “The Persian Boy”).
    Innamorato dell’Oriente, ne impara la lingua, ne adotta usi e costumi, e vestiti.
    Piccolo di statura, con uno sguardo impossibile da dimenticare.
    Attraversa un deserto impossibile da attraversare, con un gruppo di guerrieri che lo adorano.
    L’adorato amante muore di malattia, e lui non è al suo fianco quando si sarebbe forse potuto prevenire il peggio. Gli onori tributati al corpo.
    Il libro del sommo poeta – l’Iliade – sempre nella bisaccia, e nella tenda.
    La vita dedicata a opera di proporzioni titaniche coronata da un enorme, effimero, successo.
    Anche la Renault, come a questo punto immaginavo, ha studiato a Oxford. St Hugh’s College (femminile, ovviamente).
    Che ne pensi? Coincidenza? Forma mentale degli intellettuali inglesi? Incarnazione del passato mitico?
    2) La maschera d’oro dell’Occidente.
    Questo duro volto di metallo è un volto maschile.
    E’ il volto che l’uomo deve mostrare alle donne e agli altri maschi competitori. E’ la maschera di potere che l’uomo si può togliere solo quando è tra compagni/amanti. Allora, Achille (come Alessandro) può piangere, senza che ciò ne diminuisca la virilità. Allora il guerriero nella tenda si può abbandonare alle emozioni – il termine inglese è più intenso, surrender, abbandonare/arrendersi- tra le braccia del compagno.
    Al di fuori di questi momenti intimi, per gli uomini la tenerezza, l’abbandono nell’amore, la vera empatia sono sentimenti proibiti.
    Il nostro duro, vittorioso, mondo non li consente. Questa mutilazione sentimentale non genera uomini forti e temprati, ma produce pulsioni distruttive, verso le donne, i deboli,i non assimilati, gli stravaganti – queer, i non-bianchi o i meno-bianchi, i non-umani.
    È senz’altro vero, come è stato detto altrove in questo blog, che l’omosessualità maschile è stata anche, spesso, il frutto della sessuofobia, separazione tra i sessi, segregazione delle donne.
    Ma mi sembra che l’omoerotismo che si respira così frequente nel romanzo – l’amore che non osa dire il suo nome – contenga anche un anelito forte alla pienezza della vita, sia la ricerca di una delle strade alternative possibili.

  28. Wu Ming 4 Says:

    Non ho letto i libri della Renault, ma sembra evidente che abbia preso spunto dalla leggenda e vicenda di Lawrence. Il quale a sua volta – come cercavo di dimostrare nella mia lecture – era influenzato dai “classici”, quindi il circolo è vizioso (o virtuoso, che dir si voglia). Quando la Renault frequentava Oxford, tra le due guerre mondiali, le cose non erano eccessivamente cambiate dai tempi di Lawrence e si respirava ancora un’aria abbastanza simile.
    Giusta anche la seconda osservazione. E infatti è proprio quella la direzione in cui adesso sto cercando di sviluppare il mio discorso (mi concetrerò però in particolare sul rapporto tra l’eroe e il femminino).
    A questo proposito aggiungerei una considerazione alle tue. La mutilazione sentimentale è più vasta di quel che sembra e non riguarda soltanto gli affetti personali, l’erotismo privato, la frustrazione a cui i maschi si condannano. A me pare che in generale il cinismo e/o il nihilismo come punti di approdo esistenziali, psicologici, siano derivazioni dirette della disillusione post-romantica. Disillusione tutta maschile, poiché frutto di un’idealità prima univocamente posta, proiettata sul mondo, poi delusa e infranta. E’ l’autocondanna che diventa autoassoluzione di Lawrence, appunto. L’eroe post-eroico è soltanto all’apparenza un prodotto della sconfitta storica. In realtà è semplicemente un poveraccio che cerca di imputare alla storia (“volevo, ma non me l’hanno lasciato fare…”) o al passare del tempo (“incendiario a vent’anni, pompiere a cinquanta”) il proprio egoismo e la propria inconcludenza, la propria incapacità di diventare uomo. L’amara ironia post-moderna non è altro che una corazza di gelo per proteggere la fragilità del maschio occidentale e un vuoto d’amore spaventoso.

  29. Paola Di Giulio Says:

    @WM4: non puoi aver letto il breve saggio sul Journal of the T.E.Lawrence Society che si intitola ‘From Carchemish to Cair Paravel’, noooo.
    E giustamente hai detto fin dall’inizio che Lewis e Tolkien non avevano conosciuto Lawrence ad Oxford.
    Ho appena letto che, secondo l’autore di questo scritto, c’è un riferimento a Lawrence “…as ‘Orruns’ the faun in one of C.S. Lewis’s Narnia stories” !
    L’avevo detto che la scelta dei personaggi di SDM intorno a Lawrence erano veramente azzeccati.

  30. Wu Ming 4 Says:

    E’ vero però che quei fissati della T.E.Lawrence Society vedono Lawrence dappertutto :-)

  31. Paola Di Giulio Says:

    Già. E’ il loro mestiere. Né sono cambiati molto da quando hanno iniziato, te lo assicuro. Mi ha divertito molto però aver incrociato questo riferimento, più o meno credibile, dato che Lewis è un personaggio di SDM…

  32. fabiandirosa Says:

    Breve premessa: avevo visto questo ‘articolo’ alla sua uscita, che ha poi indotto la lettura di Stella del mattino. Non avevo seguito la discussione che ne è scaturita. Parlare in termini critici non è nelle mie prerogative. Non ho molti strumenti per farlo. Tuttavia questa pagina web mi riguarda molto da vicino in quanto sto preparando insieme col mio gruppo alcune serate di reading incentrate proprio su SdM e Manituana. Mia la responsabilità dell’audiovisivo durante lo spettacolo.

    Dunque, quando ho realizzato pochi giorni fa un brevissimo video di prova che accompagni la lettura del brano ‘Racconti perduti’ (in cui, lo ricordo, Ronald Tolkien descrive una scena di battaglia delle Somme che lo vede protagonista in trincea) non conoscevo l’intervento di Giuseppe Genna del 4 novembre scorso, delle ore 22,41. In particolare quando dice:

    “Il comico non è il parodistico – è il sintomo di una compresenza del tragico. Io vedo l’epica come un’espansione della tragedia (visione, ammetto, idiosincratica, seppure supportata da molta filologia). E’ questo aspetto, il minuzioso, che mi interessa in quanto sostiene nel suo saggio WM4. Cosa avviene, in pratica, lavorando minuziosamente alla narrazione? La realtà non viene posta sotto mimesi, ma si svela nella sua indistinguibilità di comico e tragico. In SdM, per me, accade questo”

    io vedo con maggiore chiarezza quel che ho realizzato.
    Ho estratto dieci secondi dieci dal film Shoulder arms di Charlie Chaplin (Charlot soldato) con l’intenzione di riraccontarlo attraverso le parole del romanzo di WM4.
    Non avrei potuto descrivere meglio la mia scelta di rallentare drasticamente il pezzetto di film – tanto da farlo durare 120 secondi circa – per togliere quel che di archetipico si è sedimentato sulla maschera del buffo Charlot (Genna: Il comico non è il parodistico… La realtà non viene posta sotto mimesi, ma si svela nella sua indistinguibilità di comico e tragico.) ; di filtrare il bianco e nero col rosso (‘non è sangue è rosso’ dice Godard, il rosso è rosso ‘‘ciò significa che il testo – in questo caso la ministoria raccontata nel video estratto, ma anche il brano di SdM – si sottrae a qualunque interpretazione: è il testo, punto e basta’’); la possibilità di vedere con calma e minuzia singoli fotogrammi che ritraggono la tragedia di un soldato che spara come un cecchino, o che ha visto la morte in faccia avendo ricevuto una pallottola sul casco; la ministoria in slow motion – si può vedere qui: http://www.youtube.com/watch?v=Iv_4KaMlvWo – mantiene la sua natura comica nella sequenza finale (Le interpretazioni sono “costrette” a diventare narrazioni) così come il brano del romanzo ‘Racconti perduti’ conclude:

    “Tra una cannonata e l’altra Ronald ripete le disposizioni. Devono lanciare ancora razzi luminosi per chi si perde nella Terra di Nessuno. Riceve in risposta uno sguardo perplesso. L’imbecille non capisce più quello che gli dice. Nessuno ci riesce. E’ più imbarazzante della macchia scura che si allarga sui pantaloni.
    Il senso d’impotenza aumenta fino ad ammutolirlo.”

    E’ un eroe non eroe, anche se questo su you tube non c’è, ci sarà dal vivo..

    Se WM4 e G. Genna o gli altri partecipanti a questa discussione sono ancora all’ascolto vorrei essere confortato o confutato_
    Grazie.

  33. fabiandirosa Says:

    Chiedo scusa per la mia ingenuità e presunzione nella frase finale qui sopra di cui vorrei non teneste conto_
    Mio unico desiderio è riaccendere il discorso anche tenendo conto delle recenti considerazioni in La salvezza di Euridice a proposito dell’espressione audiovosiva del nuovo epico coniugato naturalmente con il romanzo in topic

  34. Wu Ming 4 Says:

    Purtroppo questo blog ha esaurito la sua spinta da alcuni mesi e credo che non sia più il luogo migliore per discutere degli argomenti che vuoi trattare. Il tuo discorso non mi risulta chiarissimo, devo ammetterlo. Ma forse è dovuto al fatto che non mastico molto la materia audiovisiva.

  35. fabiandirosa Says:

    Dal canto mio invece devo ammettere di non essere ferrato con le parole. Conosci un blog, un luogo adatto su web dove si discute di questo argomento, proprio in relazione al tuo romanzo o, se vuoi, più in generale sulla relazione tra audiovisivo e NIE-UNO?
    Grazie, ciao :)

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