In territorio nemico. Wu Ming 2 intervista i SICsters

Cover ITN

Il 19 maggio di tre anni fa, nella storica sede di Bartleby, a Bologna, partecipammo insieme a Vanni Santoni & Gregorio Magini a una serata di presentazione del GRAS, il Grande Romanzo Aperto SIC (dove SIC sta per Scrittura Industriale Collettiva). A metterci insieme fu Stefano Miniato, uno dei 115 autori di quello che sarebbe diventato In territorio nemico. Ma allora quel titolo non esisteva ancora, e il romanzo era solo un piccolo embrione, del quale si parlava come si parla di un figlio in arrivo. Forse avrà gli occhi verdi del babbo, o magari sarà capriccioso come la zia. Wu Ming 2 provò a leggerne il destino, cavando le budella ai suoi interlocutori con domande affilate sulla scrittura a più mani.
In cambio, dieci mesi più tardi (e dopo due anni di lavoro complessivo), l’aruspice ricevette in dono una bozza in anteprima, accompagnata dalle parole:

«ABBIAMO FINITO! I partigiani stanno per tornare nella letteratura italiana e perdio sono armati fino ai denti (oltre che supportati dal sangue di 114 scrittori e dall’acciaio di 1 industria pesante).»

Il nostro numero due lesse, scrisse una mail con qualche osservazione e poi del neonato non seppe più nulla. Finché, un giorno d’ottobre dell’anno scorso, la grande notizia: il bimbo era cresciuto e si stava dedicando agli ultimi ritocchi prima di uscire con Minimum Fax.

«Ma c’è di più: in virtù della tua revisione hai diritto a cinque “token” che corrispondono allo 0.129 delle royalties, quindi sul 10%, ipotizzando un prezzo di copertina di 15 euro ti toccano 0,00195 € a copia, quasi 2 centesimi ogni dieci copie. Ti sei sistemato.

Ecco dunque spiegato il bieco motivo per il quale Wu Ming 2 ha deciso di intervistare i SICsters intorno alla loro creatura. Spera così di spingere le vendite del titolo e averne un immeritato ritorno in denaro. Tanto vale dirlo, ché la gente non è scema, e certe verità, grazie all’Internet, prima o poi vengono a galla.

Ma prima di cominciare, la parola agli stessi SICsters per «una premessa che sembra boutade ma è seria: il “noi” che utilizziamo in questa intervista, come in molte altre occasioni in cui parliamo di SIC e In territorio nemico, non è un solo “noi”. Ci sono almeno tre “noi”: ci siamo noi due fondatori del progetto, Gregorio Magini e Vanni Santoni, col nostro comune sentire e la nostra progettualità sviluppata in sei anni di stretta collaborazione; ci siamo noi 115, che siamo un’entità magari vagamente definita, ma sicuramente dotata di una voce dato che ha scritto addirittura un romanzo; e ci siamo tutti noi presi uno per uno con le nostre idee personali, che in realtà dovremmo segnalare con l’apparizione di un “io” (e in questo caso lo facciamo per alcune domande, con alcuni scrittori SIC che parlano a titolo personale). Non diciamo tutto ciò per alleggerire il discorso – ma proprio per questo ci sentiamo in dovere di segnalarlo qui una volta per tutte.»

In territorio nemico è un romanzo che si infila dentro la Resistenza con 3 filoni narrativi: uno classico (Matteo Curti, da militare sbandato a partigiano senza fissa dimora), e due più inattesi (l’ingegner Aldo Giavazzi imboscato in un casolare e Adele Curti in Giavazzi nella Milano operaia, tra scioperi e GAP). Nella scheda dell’editore minimum fax, si parla di “nuova epica della Resistenza”. Secondo voi quali sono gli elementi di novità del romanzo, rispetto alle epiche resistenziali di Fenoglio, Calvino, Cassola, Pesce…? Che cosa vi sforzate di aggiungere alla narrazione di quel periodo storico?

C’è innanzi tutto il dato generazionale: chi scrive di Resistenza oggi si riferisce a un corpus tramandato di documenti e narrazioni. La prima generazione di scrittori della Resistenza, di cui fanno parte tutti i classici, aveva come problematica letteraria la ricerca di un giusto punto di distanza da eventi più o meno intensamente vissuti in prima persona, mentre noi che siamo di seconda o terza generazione ci troviamo di fronte a un problema opposto: come trovare i giusti vettori di avvicinamento a quella esperienza storica? Esperienza che sotto una coltre di cenere di settant’anni di vita della Repubblica (la quale, anche se non vogliamo liquidarla in toto, seguendo Pasolini, come una prosecuzione del fascismo con altri volti, non spicca certo come un esaltante crogiuolo di progresso civile e democratico), è in fondo ancora incandescente nella coscienza degli italiani – e dei molti stranieri che in Italia hanno combattuto. Distanza anagrafica quindi, ma vicinanza emotiva e morale, mantenuta finora viva e forte dai racconti dei reduci. Siamo però in un momento di passaggio: i reduci tra pochi anni non ci saranno più. Perderemo per sempre la memoria e il senso di ciò che è stato, o saremo in grado di mantenerli e rinnovarli? In territorio nemico vuole essere un contributo a questo passaggio.

Matteo Curti risale la penisola da Gaeta, dove lo coglie la notizia dell’armistizio, fino alla Repubblica Partigiana dell’Alto Monferrato e al carcere di San Vittore a Milano.
Attraversa territori, formazioni, eventi, stragi. Mi interessa capire come avete raccolto il materiale storico-aneddotico, che tipo di fact checking avete fatto e quanto “gioco” avete lasciato tra fiction e realtà, tra storia e memoria, tra verità narrativa e documenti d’archivio.

Tutti gli eventi principali intorno a cui si struttura il romanzo sono adattamenti di fatti realmente accaduti, selezionati tra i contributi al soggetto che abbiamo raccolto all’inizio dei lavori. Prima di iniziare la scrittura, infatti, abbiamo chiesto ai partecipanti di inviare i “racconti di guerra” tramandati nelle loro famiglie o comunità. Tutte le famiglie italiane ne hanno un bel repertorio, in cui si condensano i momenti più drammatici o più gloriosi di nonni e altro parentado, (assieme anche a momenti del tutto assurdi, secondo lo schema dell’eccezionalità storica che genera eventi così singolari e irripetibili da suonare inverosimili – notiamo, incidentalmente, che questo corpus tende a non includere gesti di infamia, tradimento, crudeltà, che pure devono essere stati copiosi. C’è però una figura tipica di questo rimosso: il reduce che un bel giorno di sole del ‘45 torna a casa, si siede su una panca e resta lì seduto, come paralizzato, per sempre. Non dirà mai una parola sulla guerra, e questo lascia intendere le orribili cose che ha fatto e nessuno saprà mai…)
Sulla base di questi contributi, che abbiamo chiamato “aneddoti”, abbiamo costruito il soggetto del romanzo, dando una struttura classicamente avventurosa a quella serie di episodi affascinanti ma non collegati tra loro.
In territorio nemico è un romanzo storico “canonico”, in questo senso: evita la “Grande Storia”, già troppo rigidamente determinata e raccontata dalla storiografia, e si concentra sulla “storia piccola” intrecciando numerosi momenti veri o verosimili sui quali è più facile, e anche più interessante, esercitare reinvenzione, interpretazione – insomma, tutti i noti trucchi della rielaborazione romanzesca. La verità storica infatti non pretende di entrare in ogni dettaglio, in ogni rivolo del grande fiume degli eventi; si accontenta di mostrarne le correnti principali, grandi movimenti di massa, anonimi, da cui qua e là emergono le figure più rappresentative, i personaggi storici. Anche quando si esercita nello studio del dettaglio, come ad esempio nelle minuziose rappresentazioni medievali di Le Goff, non può che farlo nella consapevolezza che il grosso rimane non raccontato. Il romanzo storico ha perciò gioco piuttosto facile nel fregare la verità storica: gli basta accontentarla nelle grandi linee, le uniche che contempla, e poi, a partire da questo, godere di piena libertà narrativa. Si può addirittura prendere il lusso di ignorarla, la Storia. In In territoro nemico, per fare un esempio non particolarmente importante ma comunque significativo, Mussolini è nominato solo cinque volte e sempre en passant; Hitler una.
Sui dettagli e sulla cronologia invece abbiamo comunque cercato la precisione più alta, perché posta una base di adesione formale alla verità storica, ogni scarto da questa diventa comunque significativo. E se lo scarto avviene per errore, e non in maniera intenzionale, si tratta di un’imprecisione che indebolisce non solo l’effetto di realismo del romanzo, del quale uno se ne potrebbe anche, entro certi limiti, fregare, ma in modo molto più grave l’effetto di coerenza finzionale del romanzo.

Mi interessa molto la questione di quelli che chiamate “aneddoti”. Quanti ne avete raccolti? Come avete utilizzato questo tipo di fonti? Come fonti “storiche” da verificare con altre fonti storiche oppure proprio in quanto ricordi, testimonianze di come viene rappresentata e ricordata la Resistenza, al di là del loro essere verificate?

"Gino, tu devi fa' una promessa al nonno: quando 'un ci sarò più, i nazisti li ammazzi te, va bene?"

“Gino, tu devi fa’ una promessa al nonno: quando ‘un ci sarò più, i nazisti li ammazzi te, va bene?”

Come dicevamo sopra, tutte le vicende principali sono basate su una quantità enorme di aneddoti reali. Addirittura adesso, sul Pinterest relativo al romanzo, stanno comparendo immagini del palazzo dove vive Adele, e scopriamo anche noi che era quello dove vivevano parenti, attivi poi nella Resistenza, di una dei 115. Dato però che sono aneddoti raccolti oralmente e poi trascritti, li abbiamo usati prima di tutto come rappresentazioni, ma è bene ricordare che tanto in fase di creazione del soggetto, quanto durante la stesura che, soprattutto, dopo di essa, ciò si è incrociato con un costante confronto con le fonti storiche, per non parlare del fact checking finale effettuato dagli storici, prima, e da minimum fax, poi. Ci sono poi anche casi specifici particolari, ad esempio la lettera di Matteo a Adele, che è stata scritta e composta col metodo SIC, ma dando agli scrittori come direttiva quella di partire dalle vere Lettere di condannati a morte della Resistenza.

Parlando delle fonti del romanzo, si finisce per parlare dei suoi 115 autori e delle vicende che ciascuno di essi ha deciso di raccontare. La Resistenza fu un fenomeno molteplice, e l’arruolamento di tante voci narranti non può che giovare alla sua rappresentazione. D’altra parte, la Resistenza, in Italia, è questione che suscita ancora polemiche e sciacallaggi, capace di polarizzare le opinioni e i punti di vista. Le voci su Wikipedia sono un ginepraio di discussioni, alla disperata ricerca di un’impossibile neutralità. Una neutralità che, nel caso di un romanzo, non è nemmeno auspicabile. Come avete risolto il problema etico della responsabilità di chi scrive rispetto a come scrive? Ci sono state forzature, epurazioni, mediazioni al ribasso?

È accaduta una cosa che non sappiamo spiegarci bene neanche noi: non c’è stata neanche una polemica politica durante la scrittura. Figuriamoci epurazioni. Non sappiamo se questo è un fatto positivo o negativo. Ci sono stati molti abbandoni in corso d’opera, ma almeno fra quanti hanno motivato la propria rinuncia, nessuno ha fatto esprimendo dissenso sui contenuti o sullo stile del romanzo.
Possiamo ipotizzare due spiegazioni di questa strana “concordia”: da un lato, il nostro metodo di scrittura non prevede la discussione e il confronto avviene solo tramite i testi, per mano dei compositori. Non ci mettiamo d’accordo. Non approfondiamo il punto di vista di ognuno, non cerchiamo una coesione e, in linea di massima, nemmeno discutiamo di quello che andiamo a scrivere. Da questo punto di vista, siamo dei burocrati della narrativa: ognuno ha il suo compito, compilare la tal scheda, comporre le tali schede, revisionare le tal altre. Abbiamo a volte addirittura scoraggiato le comunicazioni uno-a-uno tra gli scrittori. Quel che uno scrittore SIC ha da dire, lo dice attraverso le schede. Questo implica, da parte del metodo, una grande fiducia nel fatto che la bella scrittura e le buone idee siano in grado di “parlare per sé” e non ha bisogno che il suo autore si metta a perorare le sue ragioni. Bella scrittura e buone idee, certo, ma a giudizio di chi? A giudizio dei compositori. Ne consegue che questo processo può funzionare solo se gli scrittori hanno fiducia in loro, che in ogni caso, pur avendo l’ultima parola, non possono aggiungere niente di propria iniziativa (questa “divisione dei poteri” tra il legislativo di chi scrive ma non seleziona, e l’esecutivo di chi seleziona ma non scrive, è secondo noi la vera chiave di volta del metodo).
Probabilmente siamo riusciti a portare il lavoro a termine senza spaccature perché gli scrittori hanno tenuto in alta considerazione la quantità dell’impegno dei compositori, mettendolo in primo piano rispetto a critiche sulla sua qualità e la sua direzione. Diciamolo in maniera più esplicita: di fronte a email con allegate 6 schede composte inviate alle 6 del mattino, evidentemente frutto di decine di ore di lavoro, è possibile che chi aveva perplessità politiche o artistiche abbia avuto remore a esprimerle per timore di disturbare sittanto incedere della colonna blindata.
Questa “fascinazione per la tecnica”, tuttavia, non avrebbe potuto aver luogo se non fossimo partiti da un terreno comune. E qui veniamo al secondo motivo: abbiamo deciso da subito che nel nostro romanzo sulla Resistenza i buoni sarebbero stati i partigiani, i cattivi i fascisti e i nazisti, senza mostri “bipartigiani” di sorta. Una presa di posizione manichea, certo criticabile da chi ama evidenziare i casi particolari solo quando fanno comodo per mettere in dubbio l’esistenza di tendenze generali; nel nostro caso, la tendenza generale, che è stata il nostro assioma, è l’idea che la Resistenza sia stata un processo di separazione e di rifiuto di qualcosa di orrendo, ben prima e molto più a fondo di risolversi in progetto di concordia, unità nazionale, superamento del conflitto attraverso l’autorità morale…
A partire da questa visione comune, le differenze tra stalinisti, trotskisti, socialisti, azionisti, monarchici badogliani, massoni atlantisti, anarchici e chi più ne ha più ne metta, hanno potuto risolversi nei conflitti interni propri dei diversi momenti della loro narrazione, senza mettere in discussione la volontà di tutti di arrivare alla fine del racconto.
Resta da chiedersi: allora chi esattamente si prende la responsabilità di quello che è scritto in In territorio nemico? Certamente, noi due coordinatori, con l’aiuto degli altri due compositori Stefano Bonchi e Stefano Pizzutelli, abbiamo delineato il soggetto e abbiamo preso la maggior parte delle scelte sui contenuti, con le modalità sopra descritte. Abbiamo anche fatto una revisione profonda del testo per uniformare lo stile e la storia. Detto questo, non abbiamo scritto che poche righe di raccordo tra scene o parti del testo monche. Se, per esempio, nel libro fossero finiti, a partire da qualche scheda individuale “passata” nella definitiva, dei plagi o addirittura brutalmente dei pezzi copiati e incollati da Wikipedia (e non sarebbe assurdo: di questi ultimi, uno è stato in effetti identificato ed espunto in fase di revisione), chi avrebbe commesso il plagio? Oppure: se dei fascisti dovessero infuriarsi per il trattamento riservato ad alcuni dei loro omologhi nella storia, chi dovrebbero andare ad aspettare sotto casa con le spranghe? Non abbiamo una risposta, anzi crediamo che il modo in cui il libro è stato scritto, sostanzialmente precluda la possibilità di porre la questione della “responsabilità” (della quale abbiamo parlato anche in questa intervista a Bibliocartina ) rispetto a ciò che è stato scritto. Un po’ come quando alle manifestazioni si è tutti responsabili di quello che accade, ed è attraverso questa (ir)responsabilità collettiva che si cerca di eludere la volontà repressiva di inchiodare uno per uno i manifestanti alle loro responsabilità individuali (chi ha spaccato quella vetrina, chi ha imbrattato quel bancomat, ecc…).

E il risultato qual è? Che idea ci si fa della Resistenza leggendo ITN?

Questo devono dirlo, o almeno portarci a dirlo, i lettori. Non vediamo l’ora di sentire cosa ne pensano. Lasciateci qualche anno di tempo per far decantare il tutto, rileggere il libro dopo che l’avremo un po’ dimenticato… Ci sentiamo solo di dire, per ora, che speriamo che quanto detto nella risposta precedente abbia trovato una sua espressione nel libro: una Resistenza fatta di anime contraddittorie, se non proprio inconciliabili, tutte singolarmente “nel torto”, ma nel complesso unite da una consapevolezza raggiunta a forza di batoste e dall’orgoglio di trovarsi, insieme, dalla parte giusta.

Le risposte di alcuni dei 115:

SICsters al lavoro sul terzo capitolo di "In Territorio Nemico"

SICsters al lavoro sul terzo capitolo di “In Territorio Nemico”

Marco Codebò: In territorio nemico è Fenoglio+Calvino+Cassola+Pesce. Ognuno di questi quattro ha raccontato un aspetto della Resistenza, In territorio nemico li racconta tutti: la guerra dei GAP, la risalita dell’Italia, i ribelli della montagna, la storia d’amore. In più c’è l’imboscato, la fame nelle città, la vita in fabbrica e il primo sentore della smobilitazione; perché lo sguardo è sull’intera società italiana nel periodo 8 settembre-25 aprile – cosa, mi sembra, mai fatta finora. Per questo credo che ci si faccia un’idea realistica della Resistenza, senza esaltazioni né diffamazioni: semplicemente una cosa che andava fatta e meno male che è stata fatta, anche se è stata solo una parentesi. Spero che di questi aspetti di In territorio nemico si parli in sede critica e non solo del metodo con cui è stato scritto, che rimane importantissimo ma non è l’unica cosa che vale nel romanzo.

Natan Mondin: Premetto che di epica resistenziale non sono mai riuscito a leggere nulla, il mio unico tentativo è abortito dopo le prime pagine del Partigiano Johnny. Niente Sentieri dei nidi di ragno. Fatti i conti con la mia ignoranza letteraria in materia, ho portato nella scrittura, compilazione e revisione il mio bagaglio di aneddoti e miti di famiglia. Oltre alla componente di novità legata al metodo, secondo me In territorio nemico si distingue per il passaggio dalla forma orale delle esperienze corali alla forma scritta. Anche se non appartenevano al corpus di aneddoti che hanno dato forma alla “sceneggiatura”, all’intreccio, alle storie del romanzo, l’eco delle vicende famigliari di ciascun autore risuona in ogni volto, in ogni descrizione, in ogni luogo di In territorio nemico. La Milano delle fabbriche è quella di mia nonna staffetta partigiana, la Milano dei sabotaggi è quella di mio nonno garibaldino. La Roma con le pezze al culo è esattamente quella dell’infanzia di mio suocero, e via discorrendo.
La Resistenza non esce trionfante dalle pagine del libro, secondo me. Esce giusta ma divisa, libera ma con un grande punto interrogativo sul futuro.

Jacopo Galimberti: Credo che la figura del pazzo (Aldo Giavazzi) sia uno di quegli elementi che eccedono il genere “romanzo resistenziale”. L’idea che mi sono fatto come lettore di In territorio nemico è che la Resistenza sia stata molto ma molto piu’ eterogenea e intrigante di come ce la si immagini a scuola o leggendo i classici del genere. L’unico rammarico in termini di scarto da ciò che credo sia il mainstream letterario e cinematografico e’ la figura del prete misericordioso (Aldo Fabrizi fatto e finito…), che oblitera i legami organici e ideologici tra fascismo e chiesa (leggi Patti Lateranensi).

Aislinn: L’idea di una realtà complessa, dall’anima estremamente sfaccettata. I personaggi compongono un dipinto dalle molte sfumature e i colori si mescolano, si fondono, non è mai facile separarli nettamente: la Resistenza che In territorio nemico rappresenta è vera e sporca, eroica e quotidiana.

115 autori, si diceva. Mettendo insieme chi ha fatto solo un paio di “schede”, chi ha scritto poche righe, chi si è impegnato nella revisione finale. Alcuni di questi autori mi sembrano più simili a “consulenti”, o al genere di amico che si ringrazia in fondo al libro. Ce ne sono alcuni che avete pure perso di vista, irrintracciabili anche ora che il romanzo è in libreria.
Altri hanno partecipato sempre e comunque. Potete darci un’idea dei numeri, al di là del Numero Ufficiale? Ad esempio: quante persone hanno collaborato a tutte le fasi di editing e riscrittura? Quante decisioni sono state prese per accordo unanime e quante per scelta unilaterale dei compositori? Insomma qual è il livello di alienazione dell’operaio-massa che lavora alla catena di montaggio della Scrittura Industriale Collettiva?

Come detto sopra, il metodo SIC funziona tramite una precisa divisione di compiti e responsabilità: tutte le decisioni sono state prese dai compositori e solo dai compositori, così come tutte le parole sono state scritte dagli scrittori e solo dagli scrittori. Ma diamo un po’ di numeri (noi ci divertiamo con queste statistiche, ma non ne parliamo spesso per timore di annoiare gente meno nerd di noi… Ovviamente la somma è superiore a 115 perché molti hanno svolto più ruoli):
– Hanno contribuito al soggetto inviando materiali: 41, per 206 pagine tra aneddoti e documenti originali. Fra costoro, 19 non hanno poi partecipato alla scrittura.
– Scrittori: 71. In media, hanno contribuito con 18 schede a testa (le schede individuali totali sono 1290, dalle quali sono state distillate 172 schede definitive). Una buona misura del livello di partecipazione potrebbe essere il numero di persone che ha scritto più schede della media: 36. Come si vede anche dal grafico qui sotto, la distribuzione nel livello di impegno è estremamente regolare. Non c’è stata una netta separazione tra core group e collaboratori più occasionali. A parte il picco sulla sinistra, costituito dai 6-9 scrittori più attivi, la linea scende poi molto regolarmente.

Grafico ITN

Sul tasso di abbandono non abbiamo i dati; dovremmo fare uno spoglio più dettagliato e non abbiamo ancora avuto il tempo, ma il tasso di “decadimento” era progressivo e non troppo marcato.
– Compositori: 8
– Revisori: 29
– Traduttori: 14
– Donne: 46 – Uomini: 69

In questo diagramma di Venn realizzato dalla SICster Eleonora Schinella ci si può fare un’idea delle distribuzioni incrociate:

Eulero SIC

…mentre per quanto riguarda la domanda “qual è il livello di alienazione dell’operaio-massa che lavora alla catena di montaggio della Scrittura Industriale Collettiva?”, lasciamo parlare alcuni “operai”:

Il primo sciopero degli operai-massa SIC

Il primo sciopero degli operai-massa SIC

Marco Codebò: minimo se non inesistente. Qualche volta ho sentito l’ansia di dovere tenere dietro alle scadenze, di mandare il pezzo in tempo, specialmente quando ne avevo di ravvicinati da scrivere. Ma ogni volta mi rendevo anche conto che quella costrizione era molto stimolante perché creava una disciplina che è l’altra faccia della creatività. Penso che tanti scrittori dell’800 che scrivevano feuilletons, o avevano l’impegno di un racconto settimanale (Kipling, Maupassant) per un quotidiano, si siano trovati nella stessa situazione. In più c’è il mio rapporto personale con la scrittura. Ho delle piccole esperienze narrative in proprio, sufficienti per farmi capire che inventare storie non è il mio forte, è la parte più ansiogena, mentre scrivere una volta che l’intreccio è definito mi viene liscio. E ancor di più mi piace correggere. Quindi una situazione come quella della SIC è stata l’ideale. Altri si erano presi la briga di mettere insieme un soggetto e una trama; a me toccava di riempirli di parole. Dovessi scegliere un lavoro salariato, farei lo scrittore SIC.

Giovanni Oliveri: non ci si aliena e non si scrive perchè “costretti”, quindi la mia partecipazione è stata gioiosa anche se impegnativa, a volte sfiancante, ma la rifarei da domani, anche da stanotte. Nessuna “catena di montaggio”, poi: mi sono sentito parte di una squadra, di un team, dove non ripetevo meccanicamente gli stessi gesti letterari, anzi l’esatto contrario. La creatività era stimolata da una sorta di competizione-non competizione con chi scriveva la stessa scheda, dunque una spinta a fare sempre meglio; nulla, ma proprio nulla di ripetitivo. Un lavoro dunque splendido, esaltante, appagante… Altro che Mirafiori…

Aislinn: per quanto mi riguarda, ammetto che, soprattutto i primi tempi, un certo senso di alienazione l’ho provato. Non è stato facile imparare a muovere personaggi non solo miei, né accettare che solo una parte del lavoro di scrittura sarebbe poi confluito nel romanzo vero e proprio (e anzi, ricordo lo scorrere rapido delle scene definitive, in cerca di questa o quella frase, questo o quel dettaglio che avevo creato io). Poi, però, ha prevalso il gusto della sfida, il piacere di scrivere di avvenimenti e personaggi interessanti e molto diversi dal genere all’interno del quale mi muovo di solito, l’urban fantasy, nonché il desiderio di contribuire concretamente alla causa comune, il piacere di allenarsi nel lavoro di lima per rientrare nei termini di battute previste. Forse perché dopo un po’ all’alienazione ci si assuefà?

Natan Mondin: Ho incominciato come scrittore e ho fatto carriera, in prima battuta revisionando le schede e successivamente componendole. La condivisione di informazioni a mio avviso ha rappresentato e continua a rappresentare uno dei punti di forza del progetto; tutto ciò che concerne lo stato di avanzamento dei lavori viene comunicato tramite blog, condiviso con le newsletter e anche noi autori abbiamo l’opportunità di esprimere i nostri dubbi e le nostre idee attraverso gli strumenti informatici e i messaggi diretti ai due fondatori. A mio avviso non c’è stata alienazione, ma partecipazione al prodotto in maniera commisurata alla volontà del singolo. Ogni autore ha contribuito facendo i conti con la sua vita, il lavoro, la quotidianità. Quando ho iniziato a scrivere le prime schede lavoravo per una multinazionale dodici ore al giorno, la passione per il lavoro letterario mi ha spinto a scommettere sul progetto SIC e ho dedicato le notti e parte dei fine settimana al lavoro per quello che all’epoca chiamavamo “Grande Romanzo Aperto”. È stato un modo per misurare la mia scrittura, per progredire, per acquisire un metodo, una regolarità. Il riconoscimento più bello è stato riconoscere parte delle schede composte da me o scritte da me nel testo finale, perfettamente in sintonia con lo spirito e lo stile degli altri “operai”.

Jacopo Galimberti: Al di là della retorica fordista e balestriniana (“tutti scrivono tutto”), il ruolo degli scrittori in un’opera SIC è decisamente post-fordista: si lavora a progetto e a distanza, non si è pagati se non al limite dopo la pubblicazione del libro, non ci si identifica con il proprio lavoro, non si è “sindacalizzati” (di fatto si ignora chi siano i propri colleghi e si hanno rapporti solo con i due coordinatori). L'”esperienza fa curriculum” lasciano credere i redattori un po’ in stile New Economy, pero’, pur conoscendo la loro buona fede, la cosa e’ tutta da dimostrare… Tuttavia, poiché credo nel valore del lavoro letterario collettivo (anche in poesia), l’idea di chiudermi in una stanzetta a scrivere una storia mi ripugna abbastanza. In territorio nemico non nega la necessità del lavoro del singolo, ma lo ingloba in un progetto corale in cui singolarità e concorrenza sono un momento di un superiore sforzo comune e di un desiderio di “comune”. L’alienazione rispetto al prodotto del mio lavoro, in un quadro capitalista, è inevitabile e non pensavo di vederla risolta dalla SIC. Tuttavia, non mi sembra si possa parlare di alienazione rispetto alla mia attività di scrittore, perche’ mi sono visto integrato in un progetto che demistificava il rapporto biunivoco ego-stile (altrimenti incoraggiato dall’industria letteraria…) e che faceva il miglior uso possibile delle mie limitate doti di prosatore.

Michele Marcon: Mi sono avvicinato alla SIC per curiosità e per motivi accademici. A quell’epoca (e in parte anche tutt’ora) ero particolarmente affascinato dalle nuove modalità di storytelling e dalle influenze e gli sviluppi a livello narrativo di quella che Ong chiamava oralità secondaria o di ritorno veicolata dai nuovi mass media.
Lo shock iniziale mi è stato dato dall’impatto con un sistema che permetteva di perdere le proprietà individualizzanti dell’Io autoriale in favore di un Io tutto nuovo, un Io collettivo, se così si può dire. Insomma, non sei più solo. Nella cultura orale è difficile trovare sia il concetto di solitudine che quello di alienazione, perché i sistemi di valori sono condivisi e i risultati derivanti dall’operato di ogni singolo individuo servono ad un bene maggiore: la comunità. Una cosa meravigliosa, a pensarci. Anche se poi ho trovato che l’aspetto più interessante della SIC non fosse tanto il suo essere collettiva, quanto il suo essere industriale. La figura dello scrittore tradizionale (quello solo con se stesso e con i suoi mondi immaginari) non ha più motivo di esistere. Il Grande Autore lascia spazio al Grande Romanzo e a tutti i suoi autori che come operai collaborano a realizzare il prodotto finale. Ma anche in questo caso, non c’è nulla di alienante. Il lavoro di ogni autore (scrittore, compositore o revisore) è utile a se stesso, al suo vicino e alla causa comune. Vige la regola aurea dei moschettieri: “Tutti per uno, uno per tutti”. 
Spesso mi sono riferito alla SIC come ai Lego. Scrivere con il metodo SIC è come costruire un mondo fatto di Lego insieme ai propri amici. Se ti manca un pezzo c’è l’ha il tuo compagno di gioco e se non hai più voglia di giocare stai pur tranquillo che il romanzo verrà completato anche senza di te. Come diceva la nonna, che la sapeva lunga tanto quanto Dumas: “Tutti sono utili, nessuno è indispensabile”. Un grande bagno di umiltà. 
Ci sono dei cambiamenti in atto nel microcosmo letterario (e nelle “cose” della cultura, in generale), oggi come quattro anni fa. La SIC è sicuramente una piastrella importante sulla strada che porta ad una trasformazione, diretta dove, di preciso, non so. Quel che è certo è che grazie alla SIC qualsiasi ipotetico “aspirante scrittore” deve mettere da parte le smanie di protagonismo e cominciare a pensare in prospettiva, abbandonando un visione individuale e individualistica in favore di una visione collettiva, e tutti insieme si inizia, di fatto, a “guardare nella stessa direzione”.

La lingua del romanzo è asciutta, scorrevole, non particolarmente connotata. Lo stile, almeno alla prima lettura, non è arrischiato, ma piuttosto “trattenuto”. La forma del romanzo è piuttosto classica. Volevo capire come avete ottenuto questo risultato. Se si tratta di una scelta stilistica ricercata e condivisa, oppure se è la “risultante” che avete ottenuto per alchimia dalle varie scritture. Con i piccoli gruppi, anche di sconosciuti, nella mia esperienza si lavora insieme anche alla lingua, si elabora uno stile comune. Qui mi pare che l’operazione sia più difficile, e naturalmente il rischio che si corre è quello della “lingua di puro servizio” oppure di uno stile che non rispecchia la multi-autorialità del testo (o che la rispecchia solo in parte). Capirete che questo aspetto, per noialtri della Scrittura Conviviale Collettiva, è piuttosto importante…

Abbiamo scelto di chiedere agli scrittori uno stile semplice sia per facilitare il lavoro, sia perché ci sembrava appropriato per il romanzo che avevamo in mente, che doveva essere innanzitutto una “grande narrazione”, dove caratteri e vicende fossero centrali. Anche se, va detto, nelle parti giavazziane sono emerse anche note più “alte” (nota: ovviamente la questione della lingua porta direttamente a un’altra questione più ampia, quella della letterarietà, circa la quale rimandiamo al nostro pezzo su Nazione Indiana). È importante però sottolineare che lo stile di un’opera SIC emerge come risultante dei vettori individuali, prima ancora che dalle decisioni prese in preproduzione o da quelle effettuate in fase di editing, da il processo, continuamente reiterato, di scrittura, composizione e rilettura delle schede. Quante più sono le schede, tanto più questo processo è potente. Se nella prima fase – che è stata quella di creazione dei personaggi per quanto riguarda In territorio nemico – ognuno va per la sua strada, via via che si procede col romanzo, e specialmente durante la fase stesura si assiste a un fenomeno di progressivo avvicinamento degli stili dei singoli scrittori a quello che sta prendendo il testo generale, e il processo di composizione SIC, anche senza pianificazione, porta a un ulteriore rinforzo di questo processo nelle schede definitive, che sono poi i “tasselli” finali del mosaico.

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18 commenti su “In territorio nemico. Wu Ming 2 intervista i SICsters

  1. Caro il mio WuMingoPrimo te l’avevo detto che la *produzione* *letteraria* *italiana* *attuale* avrebbe dato conferma che dalla crisiletame nascono i fiori! :-)))

    Che bell’articolone scientifico!

    Un saluto da un centoquindicesimo… :)

  2. […] @sictwit: bomba (incendiaria, No.76): Wu Ming intervista SIC ~ wumingfoundation.com/giap/?p=12724 #InTerritorioNemico […]

  3. Sono straordinariamente colpito da un esempio del genere. Provvederò sicuramente ad acquistare una copia, sia perché in questo periodo ho riscoperto un interesse per i partigiani, sia perché, da amante della letteratura, sono oltremodo curioso di leggere un prodotto letterario di così tante menti e così tante mani.
    Vedo anche con piacere che il gruppo SIC mostra una certa apertura, mi piacerebbe molto cimentarmi in un’avventura del genere.

  4. Bell’articolo ed il libro mi ingolosisce… sarete cosi gentili da farci sapere anche come e quando si potrà acquistare?

    (dopo tutto WM2 è in conflitto di interessi …)

  5. @notchosen: l’apertura di SIC è totale. Non abbiamo effettuato selezioni nel reclutamento (se non quella “naturale” avvenuta dopo, quando l’impegno quotidiano si è fatto grosso e alcuni hanno mollato); il metodo inoltre è scaricabile liberamente dal nostro sito e chiunque può usarlo per produrre le proprie opere collettive.

    @jackilnero in tutte le librerie online e offline… è uscito da qualche giorno :)

    un altro dei 115

  6. Ho avuto l’onore di leggere il romanzo quando ancora girava in cerca di casa editrice. Scrissi anche una scheda entusiasta, ero già giapster e conoscevo il progetto. La cassarono. Be’, han fatto proprio male.

  7. @Lennepark abbiamo notizie di redattori che quando hanno visto il libro in Top100 di Amazon dopo pochi giorni e esaurito in un tot di librerie dopo ancora meno si son mangiati le mani fino ai polsi :) ma era normale che un progetto percepito come “strano” dovesse faticare per trovar casa, in un mondo editoriale fondamentalmente pauroso e conservatore… per fortuna minimum è stata accorta (ed è ottima sistemazione per noi).

  8. per chi interessato il 25 aprile al Pratello R’Esiste presso i Giardini Carlo Ceccolini “Il Pompiere” (dietro il cinema Europa)
    Ore 17 Presentazione di “In territorio nemico” Romanzo collettivo di massa sulla lotta partigiana ed. minimum fax
    Saranno presenti i coordinatori Gregorio Magini e alcuni dei 115 autori. A cura di Bartleby.

    Tutte le info su il 25 aprile al pratello le trovate:
    https://www.facebook.com/PratelloREsiste

  9. @sarmizegetusa

    Grazie, comprato ebook.
    Entro l’estate lo faccio fuori , è in lista !

    @WM1,2,3,4: ahahaha ma dai ! appena pubblicato il commento sopra mi è uscito l’avviso che il mio commento era troppo breve e c’erano possibilità che fosse privo di senso… siete magnifici!

  10. Già che Malavida ha aperto il fronte delle presentazioni, qui c’è un primo calendario: http://www.scritturacollettiva.org/blog/in-territorio-nemico-in-tour

    Se per quanto riguarda librerie e circoli chiudiamo il giro a fine giugno (salvo eccezioni), con scuole e università (pubbliche) e Antifa Tour (prime adesioni: XM24, Cox18, Bartleby, CSA nEXt Emerson, CPA FiSud, CSA Depistaggio, Collettivo Militant, k100Fuegos) ripartiremo e continueremo anche a settembre-ottobre e oltre.

  11. […] la rassegna stampa e il calendario appuntamenti. E se proprio non vi basta, c'è pure un'intervista ai SICsters fatta da WuMing2 su Giap. Detto questo, non ci resta che augurarvi, con questa lettura, […]

  12. […] abbiamo rilasciato in questi giorni, rispettivamente a Sara D’Agostino per Finzioni, a Wu Ming 2 per Giap e a Dario De Marco per il suo blog, nelle quali svisceriamo genesi e sviluppo di progetto e […]

  13. […] Pochi giorni fa, qui su Giap, abbiamo intervistato (alcuni de)gli autori collettivi di In Territorio Nemico. Anche in […]

  14. […] si calcolano, pare, due mani per autore. Gli autori sono 115. Nell’intervista che ci ha fatto Wu Ming 2 abbiamo anche calcolato la divisione e l’intersezione dei loro […]

  15. Il tema del passaggio generazionale fra i resistenti che erano presenti quando i fatti storici si sono verificati, e chi parla di resistenza basandosi su supporti documentali, è sicuramente delicato.
    Questo in consideraizone del fatto che il revisionismo e i revisionisti dell’ultim’ora sono pronti a sfornare versioni semplicistiche della storia.

    ho sempre pensato che la complessità della storia e quindi dell’umanità sia un aspetto di cui sempre va tenuto conto, anche se certi principi di base non possono essere messi in discussione.

    il libro è reperibile presso le librerie coop?

    Grazie

    • Se la libreria Coop dove acquisti i libri non avesse un titolo come questo, beh, sarebbe preoccupante. Meno per gli autori che per la libreria :-)

    • ciao Olopa1, sì è reperibile in qualunque libreria. Combattere il revisionismo è uno dei motivi per cui è nato questo romanzo.

  16. […] a interrogarsi su come progettare la versione digitale aumentata del romanzo. Insieme ai SICsters (qui una bella intervista su Giap) c’erano anche Arturo Robertazzi e il suo multiforme Zagreb (qui […]