Beppe Fenoglio 50 anni dopo. «Appunti orali» tratti da un’intervista

Beppe Fenoglio

[Mezzo secolo fa, nella notte tra il 17 e il 18 febbraio 1963, moriva poco più che quarantenne lo scrittore e partigiano Beppe Fenoglio. Ieri Mario Baudino, giornalista de “La Stampa”, ha contattato telefonicamente WM1 e gli ha fatto alcune domande sull’eredità di Fenoglio oggi. Ha chiamato uno di noi perché, a quanto pare, siamo tra i pochi scrittori contemporanei ad aver esplicitamente e più volte citato tra le loro influenze l’autore de I ventitre giorni della città di Alba, il più grande cantore della guerra di liberazione contro i nazifascisti. Qui sotto proponiamo il testo integrale delle risposte di WM1, dalle quali si possono ricostruire le domande. Di seguito, proponiamo il documentario di Guido Chiesa Una questione privata. Vita di Beppe Fenoglio (1996)]

Più che «un maestro» (non credo volesse esserlo), sicuramente un esempio. E’ uno degli scrittori che abbiamo amato di più, una delle letture che abbiamo in comune, addirittura in 54 abbiamo ripreso il personaggio di Ettore e lo abbiamo spostato a Bologna… Io ho scritto molte parti di New Thing prima in inglese… Un esempio, un esempio di lavoro sulla lingua e sulla riscrittura. Questa coincidenza tra spinta alla sperimentazione formale e spinta etica, questa cosa – prima ancora che potessimo capirla bene ed elabolarla – ci ha colpito molto. La libertà espressiva che Fenoglio cerca attingendo a un inglese tutto suo, al dialetto piemontese, al latino, tutto per avere la briglia più sciolta, ottenere una lingua più mobile, più fluida, coincide con il contenuto, con la ricerca di libertà che racconta nei suoi libri, con la spinta che porta Johnny a fare il partigiano. L’amore di Fenoglio per l’inglese è l’amore per una «lingua dell’utopia», per qualcosa che lo porta fuori dalla grettezza del provincialismo, della provincia fascistizzata. Questa coincidenza tra contenuto ed espressione ci è stata d’esempio.

Il debito è molto esplicito in 54. Di sicuro già in Q avevamo cominciato a travasare le nostre letture, ma è con 54 che iniziamo a fare i conti con quel modello: c’è una sottotrama con un personaggio che si chiama Ettore e fa il contrabbandiere, ha un capo che è un ex-partigiano come lui e si chiama Bianco, gira su un autocarro insieme a uno che si chiama Palmo… Insomma, è La paga del sabato di Fenoglio. Inoltre, attingiamo al serbatoio di quelli che i linguisti chiamano «idiotismi», gli usi dialettali, con la differenza che noi ci appoggiamo all’emiliano anziché al piemontese.

Non saprei dire perché Fenoglio non sia citato con la stessa frequenza di altri, nelle interviste si citano spesso Pavese e Calvino, si cita Sciascia… Forse Fenoglio ci è rimasto impresso per motivi che hanno a che fare con l’epica, al fondo i romanzi di Fenoglio sono romanzi d’avventura, Dante Isella diceva che Il partigiano Johnny è come Moby Dick, forse è quell’afflato lì che ci ha colpito. Per noi l’avventura non è solo intrattenimento, è una modalità di intervento nel reale, non solo permette di veicolare contenuti che in altri modi sarebbero meno veicolabili, ma (soprattutto!) fa emergere la pulsione a immaginare un mondo diverso, l’avventura serve a quello, ha sempre un connotato di utopia.

Eh, capisco, ma uno cosa può farci? Purtroppo… Eh… Guarda, ho ben presente il problema e sono d’accordo, vedo bene che certe forme, certe forme che noi e altri scrittori abbiamo sperimentato una decina d’anni fa sono state rese deteriori, infatti noi poi ci siamo mossi in altro modo, perché vogliamo sempre evolverci. Certi tratti, certi stilemi che usavamo alla fine degli anni Novanta adesso sono usati da altri in maniere banalizzanti. In questo momento ci sentiamo distanti da un tipo di lavoro così, troppo formulaico, troppo… Forse lo stesso Fenoglio serve da antidoto contro questo, impedisce di cadere in certe formule. Nel senso che in lui c’è questa etica del lavoro e della scrittura, lui dice: «Per scrivere ci faccio una fatica nera. La più facile delle mie pagine esce spensierata da una decina di penosi rifacimenti». In questo ci riconosciamo, noi ci mettiamo quattro anni a scrivere un romanzo, non siamo di quelli che ti buttano fuori un romanzo su Giulio Cesare in tre mesi perché te lo ha richiesto l’editore, che vuole il romanzone storico dozzinale, adesso questo fenomeno si vede molto. [Omissis: Baudino chiede di un nostro libro che uscirà a primavera, WM1 spiega a grandissime linee di cosa si tratta] Il voler fare un lavoro meditato e metodico… E’ un po’ quell’etica che c’è ne La chiave a stella di Primo Levi, il voler fare un buon lavoro, l’orgoglio di aver fatto un buon lavoro, che agli altri potrà anche non piacere ma almeno io non avrò da rimproverarmi di non aver cercato di dare il meglio… Quindi gli instant-book, il romanzo storico alla brutta vigliacca, queste cose non possono interessarci.

Oddìo, non so come e quando gli altri WM abbiano incontrato per la prima volta Fenoglio, nel mio caso è successo al liceo. La prima volta che ho sentito nominare Il partigiano Johnny è stata al ginnasio, poi l’ho trovato nella biblioteca del liceo, l’edizione del ’68, quella curata da Lorenzo Mondo che aveva miscelato le due diverse stesure. Insomma, la versione che per un tot di tempo è stata l’unica che c’era. Nel libro ovviamente mi ha colpito tantissimo la compresenza di calchi dall’inglese, parole inglesi e neologismi… Nel mio piccolo, ho reso un indegno omaggio a Fenoglio scrivendo prima in inglese alcune parti di New Thing (per anni ho fatto anche il traduttore) e traducendole in un italiano che suonasse strano, o che suonasse come una traduzione. Ripeto, un omaggio assolutamente indegno, comunque ispirato alla sua prassi. Io? Ho quarantadue anni. Sì, il liceo l’ho fatto negli anni Ottanta. Fenoglio non me lo nominò un singolo professore, do il merito al liceo nel suo complesso, io ho fatto un bel liceo, l’Ariosto di Ferrara, che aveva e ha una bella biblioteca. Sì, ho avuto buoni professori.

Come «operazione», certamente il testo più importante è Il partigiano Johnny, però quelli che mi sono più cari sono Una questione privata e i racconti di Un giorno di fuoco, soprattutto il primo, quello che dà il titolo alla raccolta. Penso che l’attacco di Un giorno di fuoco sia uno dei più belli della letteratura italiana, inizia letteralmente «col botto». Aspetta che prendo il libro…

«Alla fine di giugno Pietro Gallesio diede la parola alla doppietta. Ammazzò suo fratello in cucina, freddò sull’aia il nipote accorso allo sparo, la cognata era sulla sua lista ma gli apparì dietro una grata con la bambina ultima sulle braccia e allora lui non le sparò ma si scaraventò giù alla canonica di Gorzegno. Il parroco stava appunto tornando da visitare un moribondo di là di Bormida e Gallesio lo fulminò per strada, con una palla nella tempia. Fu il più grande fatto prima della guerra d’Abissinia.»

Un inizio in medias res fenomenale. Sì, infatti, «diede la parola alla doppietta» è stupendo.

Non lo so perché… Una decina d’anni fa c’è stato un momento in cui Einaudi ha ristampato quasi tutto, vuol dire che una domanda c’era. Adesso, boh… Non sarà per il fatto che Fenoglio è così legato alla Resistenza, che ultimamente risulta scomoda e imbarazza anche a sinistra? C’è stata una tale offensiva contro la Resistenza negli ultimi dieci anni, con i libri di Pansa e quelle robe là… Tu dici «la scrittura militante», ma forse anche presso gli scrittori… «militanti» c’è stato un fare come le lumache, un rimettere la testa nel guscio quando si parla di lotta partigiana. Sicuramente per avere a che fare con Fenoglio bisogna avere a che fare con l’epica della Resistenza, e non tutti hanno voglia di averci a che fare.

Un documentario di Guido Chiesa (1996), per Rai 3. Sullo sfondo di un’Alba provinciale e conservatrice, i racconti di chi ha conosciuto Beppe Fenoglio (10 mesi di lavoro e quasi 200 interviste curate da Piero Negri, Gianpiero Vico e Massimo Bergadano del Circolo Fenoglio ’96) permettono di ricostruirne la personalità, le difficoltà esistenziali e le passioni; il rapporto con la famiglia, le donne e la città che non ha mai abbandonato; l’esperienza militare e partigiana; l’impegno civile dopo la guerra; il laboratorio letterario; i legami con gli altri intellettuali; fino alla malattia e la morte nel 1963.
[Dieci anni dopo uno degli intervistatori, Piero Negri Scaglione, ha scritto una bella biografia dello scrittore, Questioni private. Vita incompiuta di Beppe Fenoglio (Einaudi 2006)]

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35 commenti su “Beppe Fenoglio 50 anni dopo. «Appunti orali» tratti da un’intervista

  1. Ecco, il punto è proprio l’epos. Fenoglio, insieme ad altri pochissimi scrittori che erano usciti dall’esperienza della Resistenza, ebbe chiaro come fosse necessario scrivere un’epica di quell’impresa. Ovviamente non un’epica piatta, agiografica, ma complessa, problematica, eppure materia letteraria che facesse i conti con gli archetipi del mito, che si rivolgesse a una comunità per farsi fondatrice di discorso, etc. Fenoglio, per la sua particolare vicinanza alla cultura anglosassone riusciva a immaginare il racconto della Resistenza come il nostro Far West, o la nostra Guerra di Secessione. Fenoglio e Calvino seppero ricavare grandiosi personaggi di avventurieri con le pezze al culo, partigiani sgarrupati che a volte assomigliano ai pirati di R.L. Stevenson. Le bande di cui fanno parte paiono ciurme di tagliagole e disperati, o aspiranti gangster, ma capaci di fare le scelte giuste, di rispondere a un’esigenza di giustizia che diventa un mix di questione privata, riscatto personale, vendetta, utopia. Perché nella storia i grandi ideali impattano sulle vite concrete, e si mescolano alle passioni, alla rabbia, che può poi rimanere frustrata. Fenoglio è stato magistrale anche in questo, nel raccontare il “dopo” di molti partigiani, che si ritrovarono disadattati, incapaci di rientrare nei ranghi di una società cambiata troppo poco, quando per tanti mesi si era stati “qualcuno”, ma soprattutto “qualcosa”. A volte mi chiedo cosa avrebbe scritto nella seconda metà degli anni Sessanta e nei Settanta, di fronte alla nuova generazione di ribelli, lui che non era di formazione comunista, senza fedeltà di partito.
    Però certa gente pare destinata a rimanere legata a un’epoca, una sola, e a morire con essa.

    • dici: “Però certa gente pare destinata a rimanere legata a un’epoca, una sola, e a morire con essa.”

      non sono sicuro di aver capito bene cosa intendi dire, forse ti riferisci alla classificazione letteraria che si dà a Fenoglio, perché in realtà il tuo commento (oltre alle note di WM1) indica un sentiero affascinante per trovare in Fenoglio l’ispirazione per vivere e narrare proprio i tempi che corrono….

  2. Mi ostino ogni anno a proporlo in III liceo. Insieme a Vittorini, D’Arrigo ed altri ingiustamente lasciato fuori dai programmi scolastici, dei quali tuttavia faccio volentieri a meno! Non ci può essere un canone nazionale imposto dall’alto, ma solo autori che possono parlare ancora ai ragazzi di oggi e Fenoglio credo sia uno di questi.

    • Sono d’accordo. Io ricordo come a 16 anni, al liceo, senza conoscere molto della lotta partigiana, e senza che fossi uno studente brillante, divorai letteralmente il Partigiano Johnny (il libro, intendo). Pur con il faticoso lavoro di approfondimento che le tantissime note (edizione einaudi scuola, del 2000, un sacco di note :-) richiedevano, per capire meglio il testo. Ricordo anche che il nostro professore ci propose un bellissimo tema in classe: terminare il racconto (volutamente) incompiuto della battaglia di Valdivilla, con cui “si chiude” il volume, cercando di utilizzare lo stile linguistico di Fenoglio.

  3. Fatto conoscere da un bravo professore d’italiano in un biennio di istituto tecnico romano degli anni 80. Lo portai come tesina dell’ ultimo anno, con la professoressa d’italiano del triennio “nostalgica” ci stava proprio tutto.
    Alla maturità mi cambiano la materia e mi assegnano italiano il giorno prima degli orali.
    Quella tesina mi ha salvato da una scena semimuta.. grazie Beppe.

  4. Ciao a tutti. Col mio gruppo sto portando avanti un Progetto triennale su Beppe Fenoglio. La conclusione del progetto sarà a maggio 2013. Se qualcuno fosse interessato, può visitare il nostro sito http://www.diremare.org e la nostra pagina FB o contattare direttamente il sottoscritto.

  5. Io ho ritrovato una biografia con molte fotografie, qualche racconto sulla sua vita inedito. Un volume di Franco Vaccaneo, parte di una serie di biografie per immagini di grandi scrittori. Assieme a Pavese e Calvino, forse il rito fondativo della mia adolescenza.
    Di solito non mi interesso alla vita degli scrittori che amo, e infatti gli altri due volumi (Pavese e Calvino) sono quasi intatti. Eppure la sua vita, assieme alle pieghe del suo viso, raccontano molto.
    @wm1,
    L’intervista di oggi sulla stampa sembra un po’ stringata. A parte il darvi addosso perché sdoganate letteratura di basso livello (chissà, reminiscenze del NIE), sembra l’effetto di un taglia & cuci frettoloso.
    Ma la tua traccia sull’epico, qui sviluppata da wm4, sembrava molto interessante.
    @wm4,
    Fenoglio rimane il mio modello per eccellenza dal punto di vista scrittorio. Ogni pagina è un ginepraio di segni e lingue. Per me, piemontese con la passione per l’inglese, leggere il partigiano Johnny, alle superiori e poi anche oltre, è stata una esperienza memorabile.
    Ma Fenoglio, a mio avviso, non è bello leggerlo soltanto come autore legato agli eventi della seconda guerra mondiale. Fenoglio è la narrazione dei tempi che corrono, è la narrazione di una resistenza contro un mare di merda che ti sta affogando lentamente, contro il quale resisti, pieno di fango.
    Fenoglio è per questo decisamente attuale, sia dal punto di vista linguistico che stilistico: un branco di disperati, molto diversi per formazione e ideali, che combatte in mezzo alle montagne, con le pezze al culo e le armi rubate al nemico, contro una compagine di invasati che difende un esistente senza una speranza di futuro. Ricorda una storia che non si svolge poi così tanto lontano dalle Langhe, ecco. :)
    A me sembra che l’opera di Fenoglio, oltre a narrare di resistenze, narri anche di resilienze. Una estrema capacità di divenire più forti.

    • “L’intervista di oggi sulla stampa sembra un po’ stringata. A parte il darvi addosso perché sdoganate letteratura di basso livello (chissà, reminiscenze del NIE), sembra l’effetto di un taglia & cuci frettoloso.”

      E secondo te come mai mi sono registrato mentre rispondevo e ho postato qui su Giap la trascrizione integrale? :-)
      Così uno può leggersi “the real thing” e capire cosa succede a quel che diciamo nel percorso dalla bocca alle pagine dei giornali.

  6. @ bani e @ Giorgio

    Non volevo affatto mettere in discussione l’attualità di Fenoglio, ovvero l’adattabilità delle sue storie ai tempi che viviamo. Mi riferivo a lui come intellettuale e scrittore. Mi chiedevo come avrebbe reagito al ciclo di lotte che partì a fine anni Sessanta, se quei conflitti avrebbero retroagito sul suo modo di raccontare la Resistenza, etc. Certe personalità sembrano legate a un certo tempo storico, come impossibilitate a traghettare oltre se non con le parole e le storie che lasciano. Immaginarteli oltre la loro morte suona quasi come un ossimoro. Cosa avrebbe detto, scritto, fatto Pasolini negli anni Ottanta?

    • “cosa avrebbe fatto Pasolini negli anni Ottanta”? e negli anni Novanta? me lo sono sempre chiesto. Fenoglio, invece, forse avrebbe capito, anche se non condiviso, il senso di “resistenza tradita” che ha portato alla lotta armata.

      Mi chiedo anche qual è la speciale aura nei romanzi di Fenoglio che lo rende meno eroico ma più epico dei romanzi di Hemingway sulla guerra civile spagnola? Almeno per me…

      Ecco ho ceduto a giocare coi “se”.

      • So di avere un percorso di studio in sospeso: mi ero ripromessa di rileggere Una questione privata alla luce delle linee tracciate da WM4 ne L’eroe imperfetto, e ancora non ho concluso il percorso.
        Leggere, studiare, accostare le pagine di Fenoglio non è un’esperienza “estetica”, ma materiale, di terra, e quindi è faticosa, richiede disciplina e pazienza…

  7. Me lo sono chiesto anche io, molte volte. Molti di coloro che hanno vissuto la resistenza hanno rifiutato il ’68. Forse lo avrebbe fatto anche lui, o forse no. A suo modo Calvino, ormai organico all’aristocrazia letteraria, faceva la sua vita da scrittore e ufficio stampa, eppure fu più scosso dal vento di cambiamento rispetto al Pasolini più militante.
    Mi interesserebbe sapere cosa avrebbe detto della lotta armata e del riflusso. Certo, da parte di uno che ha fatto la Resistenza, avrebbe avuto un peso diverso una giudizio ponderato. Però forse hai ragione tu, meglio sognare la risposta che più ci piace. Certo, un romanzo come il partigiano Johnny manca agli anni ’70, decisamente. Manca.

    Qui sotto trovi una cosa carina su Pasolini e Calvino, che ho ripescato tempo fa.
    http://archiviostorico.corriere.it/2008/febbraio/05/antieroico_Calvino_Pasolini_co_9_080205118.shtml

    • Che Carla Benedetti, col suo Pasolini contro Calvino, avesse proposto una scombiccherata dicotomia basata su una conoscenza insufficiente di Calvino e su un’interpretazione oleografica di Pasolini era evidente anche senza andare a leggere gli epistolari dei due :-)
      A tale proposito, ecco un fenomenale Girolamo De Michele d’annata:
      PASOLINI E CALVINO:
      http://www.pasolini.net/saggistica_PPP-Calvino_DeMichele.htm

      • Wow, letto, bravo Girolamo!!! ma tocca rileggerlo, che sul platonismo mi sono perso dei pezzi. grazie del link, siete una miniera di informazioni.

        • Forse ero un po’ criptico io, sul platonismo. Il riferimento era all’interpretazione di Vegetti, che è esposta in “Quindici lezioni su Platone” (ottimo testo riassuntivo e introduttivo, cui segue una vasta bibliografia). Viene fuori un Platone molto più scettico e “democratico” di come ce l’hanno venduto: e in effetti i suoi alunni che non divennero matematici divennero scettici, mica “neoplatonici”.

  8. Lessi Il Partigiano Johnny in una notte. All’alba presi la macchina e da Torino scesi in Langa. Non mi bastavano le parole, volevo respirare la stessa aria di Beppe. Camminare un poco nella “pauta” tra le vigne di Treiso.
    Cercare, se possibile, la medesima sensazione di libertà di un uomo solo, dotato di principi morali ruvidi come la barba di due giorni.
    Leggo spesso che un bravo scrittore deve, al primo, saper raccontare il proprio vissuto. Leggendo Beppe, credo di intuire, avrebbe volentieri scritto di altre storie, di una vita più romantica e sorridente. L’epica di cui parlate è stato costretto a conoscerla, da protagonista.
    Agli anni ’70 manca uno scrittore come Beppe, perché alla speranza di un mondo migliore, a *l’esigenza di giustizia che diventa un mix di questione privata, riscatto personale, vendetta, utopia*, si è sostituita la rabbia. Da arrabbiati, credo, non si possono scrivere pagine deliziose.
    Non me ne voglia il Beppe, ma per nostra fortuna, non ha avuto modo di divenire un Giorgio Bocca qualsiasi.

  9. A me sarebbe piaciuto ascoltare gli argomenti che Fenoglio avrebbe usato contro (o chissà se a favore…) i “revisori” della Resistenza, tutta quella schiera di politici, giornalisti e intellettuali che, in nome della ‘pacificazione’, hanno tentato in tutti i modi di ridimensionare la Resistenza da movimento popolare di liberazione a guerra civile farcita di eventi delittuosi.

    • A favore credo proprio di no. In una pagina del suo diario (vado a memoria) Fenoglio riporta questo pensiero di Giaime Pintor sui fascisti: «Guai a noi se dopo la guerra non saremo capaci di altro che odiarli», e annota: «Ma appunto, io sono capace solo di odiarli». Chi ha letto Fenoglio sa che il suo odio non è desiderio di sangue o vendetta, che non c’è alcuna epica eroica della guerra di Liberazione; non è roba alla Tarantino o Rodriguez, la narrazione di Fenoglio. Il suo odio per i fascisti è una categoria etica, è una linea tracciata oltre la quale non si va. Di uomini e donne come questi ho sentito la mancanza, a partire dagli anni Ottanta: di esseri umani capaci di dire «per quello che sono, io questo non lo posso accettare». Il motto che nel dopoguerra condivideva con il suo ex professore e poi amico (e comandante di brigata GL) Pietro Chiodi – spingersi più a sinistra possibile senza perdere di vista la libertà – non era fuori moda nel ’68 né nel ’77.

      • Ricordo – ma non dove e a proposito di cosa scriveva – un articolo di @girolamo, in cui di Chiodi introduceva brevemente l’intepretazione della relazione fra *azione* e *presa di coscienza* (detta come mi viene, sicuramente in maniera poco chiara…). Ora, vorrei essere più preciso, ma proprio non mi ricordo di più… spero che @girolamo capisca a cosa mi riferisco e magari ne scriva qui, anche in relazione a Fenoglio e alla sua rappresentazione della resistenza, a un eventuale debito di Fenoglio nei confronti di Chiodi per l’antifascismo come “categoria etica”. Del rapporto fra i due ne accenna sempre qui sopra @girolamo, sulla condivisa centralità della “libertà” nella pagina di Wikipedia di Pietro Chiodi è riportato: “L’esperienza partigiana rimase sempre una pagina fondamentale nella vita di Pietro Chiodi, per cui il valore della libertà occupò sempre il primo posto. Non è un caso che Fenoglio faccia rivolgere da parte di Monti, nel Partigiano Johnny, proprio questo ammonimento ai giovani partigiani di Alba: «Ragazzi – teniamo di vista la libertà».” [Monti è lo pseudomino usato da Fenoglio per indicare Chiodi ne Il partigiano Johnny].

        Mi si perdoni la vaghezza… è un pò che volevo chiedere a @girolamo ;)

        • Potrebbe essere un articolo scritto per “Liberazione” (e qui mi fustigo in pubblico) su Gramsci e Vittorini. Se è quello, lo trovi qui. Di tutto quello che ho letto di Chiodi (il traduttore di Essere e tempo, mica cotiche), il suo diario partigiano Banditi resta insuperabile: lì davvero vedi come uno spirito filosofico fa tutt’uno di pensiero e azione, senza residui. Di fatto Banditi è uno spin off del Partigiano Johnny.

  10. E su questo posso sono d’accordo, cioé sull’odio del fascismo come categoria etica: credo che nessuno che abbia partecipato – e non solo costoro – a diverso titolo alla Resistenza possa “non odiare” il fascismo, e si badi che l’ho scritto con la lettera minuscola. Mi sarebbe piaciuto l’argomento a favore della Resistenza da parte di un uomo che l’ha vissuta e l’ha raccontata contribuendo a quella retorica e a quel mito che successivamente sono stati rimessi in discussione proprio quali retorica e mito.

    • Un momento: l’epica partigiana di Fenoglio è *distruttiva* nei confronti della retorica santificante che a un certo punto chiuse la Resistenza in un mausoleo. In Fenoglio la resistenza è sporca, è trasandata e “cattiva”, è abisso di dubbi, è sangue e frattaglie, è “nel dubbio sopprimete”, è la rabbia che ti porta a dire che non deve sopravvivere un solo fascista che sia uno, e al tempo stesso è altissima moralità, perché non c’è nulla di immorale nell’odiare i fascisti (non solo il fascismo: i fascisti). Anzi. In Fenoglio quest’odio non è disumanizzazione del nemico: è chiarezza estrema dell’intollerabilità di ciò che il nemico sta facendo. Se la narrazione egemone fosse stata quella, probabilmente non ci sarebbe stata la finta “caduta dal paradiso” in seguito a pseudo-rivelazioni come quelle che hanno dato vita al nostrano, patetico Historikerstreit. Ma la narrazione egemone è stata un’altra. Infatti quando uscirono i racconti de I ventitre giorni della citttà di Alba, certe “vestali” della guerra partigiana li criticarono aspramente, perché rappresentavano la resistenza in modo “poco eroico”.
      Su questo, rimando a un breve pezzo che scrivemmo la bruttezza di tredici anni fa:
      RESISTENZA E REVISIONI STORICHE: CAZZI NOSTRI
      http://www.wumingfoundation.com/italiano/outtakes/antifa/cazzinostri.htm

  11. A proposito di Fenoglio distruttore della retorica santificante:

    “-Resta a mangiare con noi. Che parti adesso per Treiso a fare?
    – A Treiso si sa prima.
    – Che cosa?
    Ma Milton si era già avventato fuori. Ma fuori cozzò in un’altra ressa. Facevano cerchio serrao intorno a Cobra il quale si era accuratamente rimboccato le maniche fin sui potenti bicipiti e ora si curvava verso un immaginario catino. – Guardate, – diceva, – guardati tutti quel che farò se ammazzano Giorgio. Il mio amico, il mio compagno, il mio fratello Giorgio. Guardate. Il primo che beccherò…mi voglio laval le mani nel suo sangue. Così -. E si curvava sull’immaginario catino e immergeva le mani e poi se le strofinava con una cura e una morbidità spaventevoli. – Così. E non solo le mani. Ma anche le braccia voglio lavarmi nel suo sangue -. E ripeteva l’operazione di prima sull’avambraccio e sul lacerto. – Così. Guardate. Se ammazzano il mio fratello Giorgio -. Parlava con la stessa morbidità e nettezza con cui si lavava, ma in ultimo scoppiò in un urlo altissimo: – Voglio il loro sangue! Voglio entrare nel loro sangue fino alle ascelleeee!”

  12. Nel racconto “Il trucco” Fenoglio s’insedia con levità e precisione su vette insormontabili descrivendo la disputa tra due partigiani che si contendono l’orgasmo di giustiziare un sergente fascista accampando storie di turni e di diritti di precedenza. Fenoglio era un maestro nell’arte difficilissima di sagomare il linguaggio: al posto di “uccidere”, i due usano il termine gergale “scorciare”, che restituisce un sapore sartoriale e senza ulteriori fronzoli dà l’idea dell’importanza che i partigiani attribuivano alla vita dei prigionieri. Altra tipica impronta insurrezionale con un’importante valenza storiografica è costituita dalla giovinezza dei protagonisti, quindicenni che ti ritengono già vecchio a venticinque anni. Vecchio Blister (vecchia pustola), il partigiano quarantenne condannato dai suoi alla fucilazione per aver rubato oro in una cascina di contadini, si considera un matusalemme. Nei racconti più intimisti, come “L’acqua verde” o “L’odore della morte”, ambientati non a caso sempre dopo la guerra, Fenoglio si attiene a vicende reali, un suicidio o una morte per tisi, che innescano l’invenzione letteraria. Le difficoltà di adattamento alla dura corvee del dopo-guerra impongono un rallentamento al ritmo ultra moderno dei racconti partigiani. Pur nondimeno il cesello maniacale sul testo continua anche qui a sfoggiare un rendimento letterario spettacolare, tale è la rarefazione delle parole e la loro potenza immaginifica. Fenoglio ha regalato alla letteratura italiana prove importanti di concisione e di spontaneità dissimulando il possente impianto letterario sottostante. Frattanto all’estero altri geni come Hammett e Chandler si concentravano con gli stessi effetti sui temi hard-boiled.
    Il realismo, la ruvidità del linguaggio, la precisione della sintesi devono contribuire alla verosimiglianza e agevolare l’immedesimazione del lettore, nascondendo la fatica dell’autore sotto una patina d’immediatezza che renda ogni pagina più avvincente della precedente. Nella realtà nuda e cruda delle società urbanizzate, cosi come nell’impervia esistenza dei boschi, d’inverno, senza equipaggiamenti e in costante pericolo di vita, i buoni sentimenti soccombono e non c’è spazio per i giri di parole e per il lieto fine. Le frasi scarne e sgrammaticate raccontano meglio il dolore. Fenoglio conosceva il duro mondo rurale delle Langhe, gli strumenti veristi e la letteratura americana contemporanea, a quei tempi considerata largamente di serie B. Usò la sua passione per la cultura anglosassone e la padronanza dell’inglese per inventare uno strano linguaggio meticcio di cui abusò ne “Il partigiano Johnny” (ignoravo che avese scritto il testo prima in inglese, grazie). Tradusse “La ballata del vecchio marinaio” di Coleridge. L’impietosa dieta di parole che imponeva al suo lessico attingeva a sincretismi dialettali poderosi, distillati da un lungo e ossessivo lavoro di limatura. Nei “I 23 giorni di Alba”, per informarci che i civili si nascondevano nell’attesa dell’attacco da parte dei fascisti alla città occupata dai partigiani, Fenoglio scrive: “i civili s’incantinarono”. La lingua dei suoi conterranei serviva a creare un effetto tridimensionale che ci trasforma da semplici lettori in testimoni oculari. Il suo “idioma vivente” impregna la mente con colori e movenze indimenticabili, molto oltre la fine del suo raccontare. Fenoglio andrebbe studiato nelle scuole insieme ai revisionisti come Pansa.

  13. Ho letto “Il partigiano Johnny” tardi, ma ho avuto la fortuna di averlo letto (in italiano) in Inghilterra, prendendolo a prestito dalla biblioteca comunale di Swanage, paesino del Dorset dove ero andato a lavorare. Era uno dei pochi titoli disponibili in italiano. Mi sconvolsero l’espressione e il contenuto e forse i contenuti emersero in maniera tanto vivida proprio perché la materia linguistica era così ibrida e incandescente. E’ un libro che quando arrivi in fondo non sei lo stesso di prima della lettura.

  14. […] Quelli che non si sono dimenticati di Beppe: http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=11921 […]

  15. Beppe nelle parole di Gina Lagorio: “la Resistenza non è una “leggenda” e non è storia passata: è una scelta morale, che condiziona l’intera esistenza; è presente in tutta la nostra storia e in quella di ogni popolo che si conquista la sua libertà e la sua giustizia: sempre la muove l’amore della terra in cui si è nati e che si difende per viverci da uomini. Per questo le pagine di Fenoglio sono cariche di vita, tutta, col suo peso di male e di bene, di violenza e di pietà; quei suoi guerrieri respirano ancora, negli eroismi e nelle debolezze, come respirano tutti gli uomini che nel mondo difendono il loro diritto a un’esistenza civile”. Grazie per aver ricordato (nel silenzio di tanti) Beppe Fenoglio.

  16. Azzardo un’ipotesi: e se il ritorno a Fenoglio fosse scaturito (una decina di anni fa dice Wu Ming 1, ma forse un pochino di più) dalla musica indipendente italiana?
    Penso non solo all’enorme debito culturale dei CSI: loro ci hanno praticamente costruito più di un album sugli scritti di Fenoglio (direttamente o indirettamente).
    Ma anche altri gruppi come gli Africa Unite (“Il partigiano John”), Yo Yo Mundi…
    Potrebbe anche essere vero il viceversa, che la rilettura (finalmente) di Fenoglio abbia causato un’esplosione di artisti ispiratisi a lui…

  17. A proposito dell’articolo “Resistenza e revisioni storiche: cazzi nostri” ho da poco saputo che a Franco Giustolisi (“L’armadio della vergogna”) è stata da poco ritirata la tessera dell’Anpi per le sue giuste e fondate critiche a un’associazione che dovrebbe fare senz’altro autocritica per quello che non ha fatto. Hanno fatto una porcata a un uomo con la cittadinanza onoraria di Sant’Anna di Stazzema e che in questo momento ha dei grossi problemi di salute. Se vi interessa questi sono i link dove troverete la lettera di comunicazione inviata dall’Anpi e la risposta di Franco. Scusatemi per l’intromissione ma il vostro articolo citato sopra fa parte di quelle cose che i capoccioni dell’Anpi non vogliono sentire ma noi, bassa manovalanza, cerchiamo di far venire fuori anche a costo di essere epurati.
    https://docs.google.com/file/d/0B2Fig3cDXuVMNUUxZ2EyY1gtckk/edit?usp=sharing
    https://docs.google.com/file/d/0B2Fig3cDXuVMci1OTDFGVUltUVU/edit?usp=sharing

  18. La prima volta che ne sentii parlare fu dalla bocca del mio professore d’italiano dell’istituto tecnico che frequentavo, ma non erano parole dolci, bensì erano critiche alle sue opere. Facile capire che il mio professore non simpatizzava per i partigiani e questo mi spinse ad andare controcorrente e informarmi di più su di lui. Ho letto due romanzi Primavera di bellezza ed il Partigiano Johnny.

  19. Questo articolo per me è stato illuminante.Sto scrivendo la tesi di laurea triennale su questo argomento.

  20. Sono sempre io, quella della tesi.Nella tesi mi concentrerò proprio sul rapporto Wu Ming- Fenoglio, su quali possano essere i punti di contatto tra due autori tanto lontani nel tempo.A tal proposito ne approfitto per chiedere se ci siano altre esternazioni, articoli, saggi da cui trarre spunto per indagare cosa è stato Fenoglio per voi e su come ha ispirato il collettivo.Grazie per il vostro lavoro e per questo blog.