
di Mariano Tomatis*
[La prima puntata è qui]
M come Mago dei maghi
Il tredicesimo articolo consacra definitivamente la figura di Gustavo Rol, presentandolo come il “mago dei maghi”: un uomo inavvicinabile, avvolto da un’aura che nessuno è autorizzato a interrogare. È il punto più esplicito della costruzione ideologica che Stampa Sera persegue sin dall’inizio: la sacralizzazione dell’élite carismatica, dotata di poteri eccezionali e sottratta a qualsiasi verifica.
Dopo aver firmato il pezzo inaugurale della serie, Piero Femore racconta il suo incontro con Rol come una rivelazione estetica e quasi religiosa. L’appartamento, saturo di oggetti preziosi, cimeli napoleonici, consolle dorate e carte da parati ottocentesche, è descritto come un’anticamera del prodigio. Se un miracolo accade in un luogo tanto opulento, sembra suggerire l’articolo, non può che essere autentico. L’ambiente, i profumi, la penombra, la voce, il sudore e l’affaticamento del sensitivo concorrono a trasformare gli esperimenti in un cerimoniale in cui l’inaccessibilità diventa prova ulteriore della sua autorità.
Femore non registra ciò che vede: complice del mago, ne amplifica a dismisura gli effetti. Se Rol invoca Ravier, il pittore presenzia davvero dall’aldilà; se soffre, il dolore è autentico; se la tela si dipinge al buio in un quarto d’ora, è perché si è manifestato un miracolo. La narrazione non contempla alternative: rinuncia a ogni distanza critica e trasforma il “mago dei maghi” in un modello di potere che non deve spiegarsi, poiché si colloca fuori dalle regole comuni.
Chi legge è invitato a osservare senza obiettare: Rol non va interpretato né verificato, solo contemplato. La sua inaccessibilità riecheggia, in forma mistica, quella di Gianni Agnelli, che negli stessi anni incarna la forma più compiuta del potere torinese: entrambi uomini bianchi, colti, altolocati, il cui prestigio non si discute ma si contempla in silenzio.
L’articolo, in realtà, non parla di Rol: è l’autoritratto di un giornalismo che abdica alla verifica, interiorizza la verticalità dei rapporti di fabbrica e davanti al carisma – sacro o industriale che sia – sceglie la devozione e l’obbedienza.
N come Negromanzie bibliografiche
Il quattordicesimo articolo trasforma la Biblioteca Reale di Torino in un set da “lusso spirituale”, per usare l’espressione di Furio Jesi: uno spazio dove il prestigio materiale – legno lucido, caveau sorvegliati, codici miniati – diventa garanzia automatica di profondità esoterica. L’accumulo di nomi illustri e testi disparati produce un effetto di vertigine più che di comprensione: Leonardo, un manoscritto tibetano dalla provenienza opaca, Alberto Magno, la tradizione araba della negromanzia, Ermete Trismegisto, Nostradamus… tutto viene affastellato per certificare la magia di Torino.
È una logica da collage ideologico: l’autorevolezza non nasce dalle prove ma dalla vertigine della lista. La Biblioteca Reale appare così come un luna park dell’occulto, un luogo in cui ogni oggetto – purché antico e abbastanza decorativo – viene offerto allo sguardo come reliquia misteriosa, slegata dal suo contesto e pronta a funzionare da specchietto per le allodole. La Storia non illumina: viene impiegata come atmosfera, come repertorio di suggestioni per chi cerca conferme alla Torino magica.
Il risultato è un racconto che non spiega nulla ma allude continuamente a una rivelazione imminente. La magia di Torino, qui, non è un fenomeno da indagare: è un marchio costruito attraverso l’esibizione del patrimonio, un’illusione di profondità ottenuta sostituendo l’analisi con l’abbondanza. È esattamente il canovaccio che verrà messo a reddito nei futuri tour esoterici della città: percorsi prestabiliti fatti di reliquie, nomi illustri e suggestioni scollegate, pronti per essere convertiti in narrazione turistica interrogando molto raramente l’impianto ideologico che ha generato il mito della città magica.
O come Opera Massonica

Fonte Giuditta Dembech, “Fontana Angelica segreti massoni”, episodio 15, Stampa Sera, 21 marzo 1978.
Il quindicesimo articolo dedica alla Fontana Angelica – un sontuoso monumento nel cuore della città di Torino – un’interpretazione costruita su due livelli: quello “essoterico”, destinato a tutti, in cui le statue rappresentano le quattro stagioni, e quello “esoterico”, riservato a chi saprebbe cogliere un messaggio di stampo massonico. È il binarismo tipico di Giuditta Dembech, che in ogni puntata dispone su opposte barricate il pubblico ingenuo da un lato, gli iniziati dall’altro.
Ma qui il gioco simbolico rivela un tratto più profondo. L’invocazione dell’Opera massonica è un modo per evocare un potere invisibile e coeso che tutto vede e tutto decide. La Massoneria è il doppio occulto di un’autorità ben più concreta, che in quegli anni struttura la vita torinese: la dirigenza Fiat. L’inaccessibilità dei “segni nascosti” della fontana rispecchia quella delle stanze dove si prendono le decisioni industriali; l’idea delle colonne d’Ercole come soglia che non si può varcare ricalca le divisioni tra vertici e manodopera.
La Massoneria narrata da Dembech funziona come una metafora politica non dichiarata: uno specchio che riflette, sul piano del mito, le stesse asimmetrie che governano la città reale. In una città dove i simbolismi massonici non mancano (tra i più espliciti, l’obelisco di largo Marconi), la lettura simbolica della fontana è poco più di un pretesto: Dembech non cerca fonti o documenti che colleghino il finanziatore Paolo Bajnotti e lo scultore Giovanni Riva alle logge dell’epoca, perché ciò che davvero conta è cristallizzare un immaginario di potere che nel 1978 appare urgente ribadire in ogni possibile forma.
P come Percezioni cosmiche

Fonte Giuditta Dembech, “Ho parlato con gli extraterrestri”, episodio 16, Stampa Sera, 25 marzo 1978.
Il sedicesimo articolo non affida il racconto di un contatto con gli extraterrestri a un sensitivo professionista o a un maestro iniziatico ma a Germana Grosso, una casalinga torinese che vive una vita ordinaria. È una scelta sorprendentemente inclusiva: questa volta il mistero si manifesta attraverso l’esperienza quotidiana di una donna comune. La sua voce amplia lo spettro di chi può raccontare l’invisibile e restituisce al soprannaturale un carattere popolare e domestico.
L’universo narrato dalla contattista – popolato da civiltà stellari, disastri cosmici, basi aliene e interventi provvidenziali – appartiene al meraviglioso, ma è innervato di una paura molto concreta: quella dell’energia atomica. Nel 1978 il tema del nucleare attraversava quotidianamente informazione e politica, tra incidenti, segretezza militare, inquinamento radioattivo e timori legati alla corsa agli armamenti. Quando la donna percepisce telepaticamente la sorveglianza cosmica di civiltà benevole, pronte a impedire un cataclisma atomico, porta sul piano fantascientifico un incubo che abitava molte case italiane.
Pur in una cornice finzionale, i messaggi di Germana Grosso contengono quelli che Wu Ming 1 definisce i “nuclei di verità” delle fantasie di complotto: frammenti di realtà espulsi dal discorso ufficiale che riemergono attraverso voci esterne al mainstream. La paura del nucleare, l’opacità con cui gli Stati gestiscono gli armamenti, la sensazione che decisioni cruciali vengano prese altrove e senza controllo democratico: tutto ciò che il linguaggio istituzionale tendeva a minimizzare riaffiora nei suoi racconti sotto forma di astronavi, basi sotterranee e civiltà vigili sui nostri errori.
È qui che il debunking manca del tutto il bersaglio, gettando via il bambino insieme all’acqua sporca: liquidare tutto come delirio significa non vedere ciò che dà forza a queste visioni, ovvero la capacità di intercettare e tradurre in forma narrativa un’inquietudine collettiva che i cronisti autorizzati spesso non riescono a riconoscere o nominare.
Q come Quadrante zodiacale
Il diciassettesimo articolo propone di leggere Torino come un organismo dotato di un proprio tema natale. L’astrologo Enrico Castiglioni assume come data di nascita il 7 febbraio 1563, momento dell’ingresso della città fra i capoluoghi sabaudi, e sovrappone la carta zodiacale alla mappa urbana. Da questo incastro simbolico ottiene un “quadrante zodiacale” urbano: ogni settore cittadino rientra in una delle dodici case dello Zodiaco e ne incarna inclinazioni e destini. Le fonderie sotto Marte, la Crocetta nel regale Leone, la Gran Madre nello Scorpione esoterico, la zona ospedaliera nella Vergine della salute, il cimitero nel Capricorno della morte, e così via.
Ma quella che l’articolo presenta come una rivelazione è soprattutto un’operazione di addomesticamento: la città viene congelata in tratti caratteriali che pretendono di essere “naturali” ma rimuovono la storia concreta dei luoghi. Scelte economiche, fratture sociali, periferie marginalizzate: tutto scompare sotto la patina di una vocazione astrale che non rende conto dei rapporti di potere che modellano realmente Torino.
Attribuire la distorsione all’astrologia, però, sarebbe un errore di prospettiva. Come mostra Alice Sparkly Kat in Postcolonial Astrology, lo zodiaco può diventare uno strumento per leggere gerarchie sociali e rapporti economici: è l’uso reazionario a trasformarlo in una scenografia che li maschera.
La magia funziona solo finché non si interrogano le sue premesse: Torino non è stata costruita da Giove o Marte ma da secoli di lavoro, migrazioni, sfruttamento, lotte operaie e conflitti di classe. Quando una cartografia astrale cancella queste dinamiche, diventa un mero dispositivo di pacificazione: un modo per disinnescare la storia reale sotto un velo di rassicuranti costellazioni.
R come Risveglio interiore
Il diciottesimo articolo è, più che un pezzo giornalistico, una velina pubblicitaria camuffata da servizio divulgativo (e forse per questo non è firmato): annuncia una conferenza sulla Meditazione Trascendentale che si terrà quella stessa sera a Torino, ma lo fa fingendo di informare in modo spassionato. Presentata come una tecnica di rilassamento accessibile a tutti, la pratica viene proposta come un percorso di risveglio interiore che può far sollevare da terra chi la pratica.
L’articolo cavalca la polemica nata attorno all’Indagine sulla parapsicologia di Piero Angela, in onda in quei giorni: Stampa Sera strizza l’occhio al pubblico insoddisfatto dall’approccio scientifico, promettendo un’esperienza alternativa basata sull’esercizio di poteri mentali inespressi. Lì dove Angela incarnava l’aridità della critica, il giornale offre in cambio un invito a rientrare in sé, a toccare un nucleo più autentico dell’esperienza dopo aver spento il rumore della ragione. Naturalmente, se la Meditazione riguardasse solo il benessere psicofisico, la velina non avrebbe ragione di comparire in una serie dedicata alla magia: per legittimare la sua presenza occorre introdurre un elemento che sconfini nel prodigioso, ed è qui che entra in scena la levitazione.
Il risultato è un paradosso classico della comunicazione sul paranormale: mentre finge di smontare il meraviglioso, l’articolo lo usa come motore narrativo e come promessa di un culmine prodigioso. A partire dall’immagine stessa che lo accompagna – una donna sospesa in aria – il pezzo alimenta l’idea che il risveglio interiore possa letteralmente far volare. Il testo, invece, ne parla con pudore, smorzando quella prospettiva per rendere la pratica più vicina alla quotidianità di chi legge: in fondo, impegnarsi su un miracolo di quelle proporzioni sarebbe troppo compromettente.
S come Stele ufologica
Il diciannovesimo articolo è dedicato al monte Musinè. Per raccontare il rilievo che sorge all’imbocco della Valsusa, Giuditta Dembech costruisce un mosaico di suggestioni eterogenee: le leggende dei valligiani, gli avvistamenti di luci azzurre e globi di fuoco, le interferenze radio, i graffiti neolitici letti come testimonianze di UFO preistorici, fino alla comparsa più recente di una stele metallica collocata nei pressi della vetta. Tutto concorre a trasformare il luogo in un condensato di fenomeni inspiegabili, dove ogni dettaglio diventa indizio di presenze invisibili o passaggi interdimensionali.
Il testo procede per accumulo: alla voce di chi abita nei dintorni si aggiunge quella dei contattisti, poi dei tecnici e degli escursionisti; nessuna testimonianza viene verificata perché l’obiettivo non è chiarire ma espandere il campo del possibile. La lapide, con la sua iscrizione sincretica che coinvolge figure religiose, entità astrali e “punti elettrodinamici”, è la perfetta chiave di volta: un oggetto senza autore e senza spiegazioni che legittima l’intero impianto narrativo conferendo al monte una vibrazione sacrale.
A svelare il vuoto retorico che sostiene l’articolo ci pensa l’esperto delle “grotte alchemiche”: interrogato sul senso dell’iscrizione, Bardato Bardati risponde che è un messaggio “importantissimo” ma “riservato agli iniziati”, poi tace. In un contesto che dovrebbe informare, l’alchimista si ritira nel silenzio. Invece di essere trattato per quello che è (un venir meno al dovere minimo di chi accetta di farsi citare come esperto), quel silenzio viene ammantato di rispetto e presentato come profondità indicibile. Ne deriva un capovolgimento perfetto: la massima autorevolezza va a chi non dice nulla.
La stessa dinamica orienta l’intero articolo: il Musinè deve risultare misterioso per definizione. Perfino quando l’autrice ammette che «forse in questa montagna un mistero esiste, ma quale sia non ci è dato saperlo», l’ostentata ignoranza non si staglia come un limite del racconto ma diventa una prova dell’esistenza di un enigma. È un lapsus rivelatore: nella serie sulla “Torino magica” il mistero non ha bisogno di essere analizzato perché è postulato come condizione necessaria della narrazione.
T come Tibet
Il ventesimo articolo è dedicato a un monastero tibetano che sorge a Forno di Coazze, in provincia di Torino. Per inserirsi nel filone magico, la narrazione ricorre a un repertorio di pratiche eccezionali come la levitazione, la telepatia, la chiaroveggenza e le proiezioni astrali. Su questo sfondo, la storia del Tibet viene riletta in chiave anticomunista: i monaci, spiega Giuditta Dembech, avrebbero “previsto” l’invasione cinese e predisposto in anticipo la fuga dei loro insegnamenti all’estero. La cronista identifica gli invasori con i “comunisti” per creare una contrapposizione netta: da una parte un’orda materialista e distruttiva, dall’altra una tradizione spirituale nobile ed elevata, che troverebbe nella provincia torinese un rifugio al riparo dalla “furia rossa”.
Il monastero piemontese, però, è retto da un pittore ed esoterista locale: nonostante il nome esotico, Om Bosser è torinese e viene presentato come figura dotata di “poteri al limite del magico”. L’operazione culturale messa in atto incarna pienamente la strategia narrativa dell’orientalismo mistico: il Tibet non è trattato come luogo reale, ma come uno spazio immaginario decontestualizzato, pronto per essere trapiantato in Occidente e consumato da chi cerca una spiritualità alternativa. Alice Sparkly Kat descrive con precisione questa pratica tipicamente occidentale: ingoiare una cultura “altra”, ripulirla dei suoi conflitti e trasformarla in un sistema simbolico funzionale a codificare i propri disagi.
Il risultato è la creazione di un Tibet a uso e consumo della borghesia torinese: un rifugio in un ambiente di montagna semplice e rustico, al sicuro dalla minaccia comunista e dall’incubo del “nuovo Medioevo” che l’Italia sta attraversando, animato dall’illusione di una saggezza esotica senza conflitti.
U come Ultrasensibilità
Il ventunesimo articolo torna nuovamente sulle guarigioni fuori dai percorsi istituzionali, ma questa volta spostando lo sguardo sulle classi popolari. Dopo la casalinga Germana Grosso è il turno di Gianna Caminiti, un’immigrata calabrese dotata di una sensibilità eccezionale: la donna percepisce il male “ancora prima di imporre le mani”, entra in trance per trasferire un calore curativo, avverte il gonfiarsi delle mani quando l’energia “si ribella”.
L’articolo costruisce intorno a lei una narrazione incentrata sull’ultrasensibilità: una capacità innata, che scaturisce dal corpo più che da un allenamento e che le viene riconosciuta – secondo Nevio Boni – persino da alcuni neurologi. Con atteggiamento paternalista, il marito operaio è descritto con “l’abito buono indosso”.
È un dettaglio rivelatore: Stampa Sera non si permetterebbe mai di usare un’espressione simile per Gustavo Rol o per l’avvocato Agnelli, né per alcuno degli uomini di prestigio che frequentano le pagine del giornale. L’immagine dell’“abito buono” è un marchio di classe travestito da tenerezza, che ricorda a chi legge – e con un po’ di crudeltà, all’uomo stesso – la distanza sociale che separa questi esponenti del popolo da quelli che appartengono al “giro magico” delle élite. Nella prospettiva ideologica del progetto “Torino città magica”, un articolo che colloca il prodigio dentro una cornice di modestia e rispettabilità popolare è un’occasione irresistibile per riaffermare tra le righe l’abisso che separa il centro dalle periferie.
V come Vibrazioni

Fonte Giuditta Dembech, “A Porta Palazzo si alzano per aria”, episodio 22, Stampa Sera, 6 maggio 1978.
Il ventiduesimo articolo rivela un po’ di stanchezza e ricicla diversi temi già trattati: l’approccio olistico alla cura che scivola nel paranormale, il fascino per le filosofie orientali e la figura del maestro evasivo, dotato di poteri ma indisponibile alle verifiche. Nel centro Mudra di Porta Palazzo, i fratelli Aloi offrono uno yoga “a due velocità”: un insegnamento essoterico fatto di posizioni e benessere fisico, e un percorso esoterico che promette il risveglio dei centri interiori e dell’energia Kundalini.
Tutto ruota attorno al lessico delle vibrazioni: energie “supersottili”, pensieri che si armonizzano, frequenze interiori che portano saggezza e serenità… e consentirebbero di volare. Come nell’articolo sulla Meditazione Trascendentale, il traino magico è di nuovo la levitazione: l’allusivo titolo “A Porta Palazzo si alzano per aria” fa riferimento ai proprietari della scuola. Invitato a staccarsi da terra, Giuseppe si sottrae, citando il poeta che ammoniva: “Non ostentare il tuo successo”.
L’articolo insiste sul contrasto tra il mercato rumoroso di Porta Palazzo e la quiete irreale che, due piani sopra, sembra sospendere il tempo. La promessa di armonia si costruisce così in opposizione implicita al disordine proletario che sta sotto, eleggendo la calma come segno di distinzione sociale oltre che spirituale. Più facile da raggiungere rispetto al monastero tibetano di Forno di Coazze, il Mudra appare come un altro rifugio dalla realtà, capace di isolare chi lo frequenta dalle tensioni e dalle inquietudini che attraversano la Torino del 1978.
Z come Zora la vampira
Il ventitreesimo articolo sembra scritto sotto l’influenza dell’immaginario estetico di Zora la Vampira: figure femminili velate, ritualità erotica, atmosfere occulte e moralismo travestito da trasgressione. È l’estetica tipica degli anni Settanta, in cui la donna “magica” appare potente e minacciosa ma resta vincolata a uno sguardo maschile che ne controlla la rappresentazione. Dedicando il reportage a un fantomatico “Tempio di Venere”, Giuditta Dembech ripropone questo repertorio intervistando un gruppo di adepte che pratica magia sessuale sotto stretta segretezza: incappucciate, voltate di spalle, illuminate dalle candele, parlano solo alla presenza di un “grande iniziato” che funge da garante. Rivendicano disciplina e un uso mentale dell’energia sessuale, negando qualsiasi legame con il femminismo e respingendo indignate l’idea di riti “saffici”. Tra i “problemi” che sono in grado di risolvere con la magia ci sono l’impotenza e la frigidità, ma anche le “tendenze omosessuali” che considerano deviazioni da correggere.
L’articolo chiude la serie concentrando, in un colpo di coda finale, alcune delle posture più stigmatizzanti dell’intero ciclo: lo fa cedendo la parola a un gruppo che si presenta come iniziatico ma replica puntualmente gli stereotipi dell’epoca. La scena inaugurale è già un indizio decisivo: l’incontro avviene in casa di un uomo di potere, segno che anche quando il tema è l’autonomia magica femminile, la cornice resta maschile.
L’ostilità verso il femminismo è dichiarata senza esitazioni, e proprio dentro questa logica subordinata emerge l’attacco alle identità sessuali minoritarie. Il Tempio di Venere distingue tra corpi allineati e corpi dissonanti, riproducendo quella funzione disciplinante che Alice Sparkly Kat individua nei linguaggi spirituali usati per normalizzare l’identità: parole ed energie presentate come verità cosmiche che trasformano norme sociali in “armonie naturali”, forzando le soggettività a rientrare nei ruoli attesi. Gay e lesbiche diventano bersagli distinti e complementari: gli uni perché “contaminati” dal femminile, le altre perché sottratte al gioco della seduzione maschile. L’omosessualità viene così patologizzata senza che il giornale prenda alcuna distanza critica.
Il risultato non è un racconto di magia ma una testimonianza di ostilità sistemica: contro ciò che sfida le gerarchie, verso l’autonomia femminile e le identità che non si allineano alla norma eterosessuale. È un finale rivelatore, che mostra senza più veli ciò che la serie, in altri capitoli, aveva solo sfiorato: l’occulto come strumento di restaurazione simbolica dell’ordine, non come apertura al possibile. Una chiusura (tristemente) perfetta per una serie che ha usato il “mistero” come fortino difensivo dello status quo.
L’inganno e la svolta relazionale
Smascherare il progetto ideologico dietro l’operazione “Torino città magica” consente anche di concepire forme di contrattacco che non fanno appello (soltanto) al rigore della storiografia e al debunking scientifico: alla magia si può rispondere con la magia. Mentre ragionavo su questa prospettiva, l’amica Laura Gorrieri mi ha segnalato un illuminante articolo di Mark Coeckelbergh sull’etica dell’inganno.
In “How to describe and evaluate «deception» phenomena” (Ethics&IT 2018) il filosofo belga invita a superare il dualismo che oppone verità e illusione, come se la prima fosse necessariamente emancipativa e l’altra pura manipolazione. Molte pratiche tecnologiche, artistiche e persino quotidiane (quante bugie si devono raccontare per organizzare una festa a sorpresa?) producono effetti reali a partire da forme di finzione. A partire da questo impianto teorico, propongo di spostare l’attenzione non sull’eliminazione dell’illusione, ma sulla trasparenza del suo uso e sulla responsabilità che lega chi la mette in scena e chi la vive. L’etica non sta nel pretendere una comunicazione “pura”, ma nel costruire condizioni di mutua responsabilità dentro un gioco dichiarato, in cui entrambe le parti riconoscono la propria partecipazione alla messa in scena.
Secondo Coeckelbergh, il rifiuto del dualismo verità/illusione apre una prospettiva che chiama “svolta relazionale”; in quel nuovo contesto, la linea che separa la manipolazione tossica da una pratica liberatoria non dipende dalla presenza o assenza dell’illusione, ma dalla qualità della relazione che si forma attorno a essa. Le illusioni diventano oppressive quando si presentano come naturali e inevitabili, nascondendo la loro costruzione e le intenzioni di chi le produce: è l’opacità, più dell’illusione in sé, ad aprire lo spazio dell’abuso.
Il gioco consiste, dunque, nel plasmare con chi legge (o partecipa all’esperienza magica) una relazione onesta e consapevole nell’uso dei materiali mitologici. Come nell’illusionismo, una narrazione che includa ingredienti magici funziona quando chi la propone coinvolge chi la riceve in una complicità dichiarata. Non c’è inganno quando il patto è esplicito: “Concordiamo nell’usare dei simboli, esplorare le loro implicazioni e abbandonare i percorsi lineari per esporci a epifanie inaspettate!” In questo contesto la mitologia diventa un materiale condiviso, non un dispositivo calato dall’alto.
L’operazione di Stampa Sera si colloca all’estremo opposto: utilizza le illusioni senza dichiararle, manipola i materiali simbolici della città senza esplicitare le finalità ideologiche e costruisce un immaginario che – dietro la maschera della verosimiglianza storica – serve a nascondere sotto il tappeto i conflitti sociali e i traumi delle classi subordinate. Da qui la necessità di controincantesimi.
Invece di rispondere alla propaganda del mainstream con una contro-propaganda “razionale” possiamo costruire esperienze magiche che mostrino in piena luce i loro trucchi e, così facendo, rendano visibili le manipolazioni ideologiche che la “Torino magica” reitera da quasi mezzo secolo. Ci vuole una mitologia che non serva a tacitare i conflitti ma a restituire possibilità d’azione a chi viene escluso: una narrazione che non infantilizzi il pubblico ma gli metta in mano strumenti per attraversare l’incanto e trasformarlo in progetti di emancipazione.
Oscurità illuminanti
Il programma ideologico messo in campo da Stampa Sera nel 1978 sopravvive nel turismo esoterico odierno, dove l’occulto continua ad avere una funzione addomesticante: il mercato propone un mistero che non smuove mai davvero ma riduce la magia a uno strumento di innocente evasione. Davanti alle vetrine di un’agenzia che da anni propone tour “misteriosi” della città (Torino Magica® è un loro marchio registrato), sorrido leggendo la réclame del “Torino Noir® Tour” che invita i passanti a esplorare “il lato più oscuro di Torino!” Sorrido perché so che l’oscurità proposta a 32 euro non ha nulla a che fare con le ombre di oggi: non parla delle persone recluse nel CPR di corso Brunelleschi né delle soffitte fatiscenti in cui vivono stipate le persone senza i documenti, non delle famiglie Rom che resistono a miseria e sgomberi né delle cucine dove cuoche e camerieri sottopagati contribuiscono – senza alcun beneficio – al mito di una città raffinata e “accogliente”. L’agenzia propone un buio innocuo, parlando di “un filo rosso sangue che racconta di un tempo lontano” fatto di pestilenze, untori, delitti e processi raccontati sullo sfondo dei più eleganti palazzi del centro.
Richiamo quel tour perché considero l’oscurità una lente preziosa attraverso cui illuminare le città. Ne dà un esempio abbagliante Valerio Mattioli, che nel suo Remoria. La città invertita (Minimum Fax, 2020) fa del linguaggio dell’esoterismo il principale strumento narrativo per raccontare Roma dalla prospettiva dei margini. Il punto di partenza è il “sacro GRA”, il Grande Raccordo Anulare che nel tempo ha assunto il ruolo di soglia tra centro e periferie. Nella narrazione della “città invertita” il GRA diventa un omphalos: un cerchio mistico che investe di un ruolo magico le borgate, costruendo una cosmologia urbana in cui le periferie non sono più scarto ma centro energetico, luogo di metamorfosi, agnizioni e poteri sotterranei che ribaltano la narrazione dominante.
Spostando lo sguardo sui Pirenei, ho adottato una postura analoga per raccontare la cittadina di Lourdes dalla prospettiva di una visionaria reietta: ne La veggente indecorosa di Lourdes (Eris 2022) non metto sotto esame la verità del miracolo ma la natura delle relazioni plasmate dall’impianto reazionario del suo racconto. A Torino manca ancora un lavoro capace di saldare il discorso sull’occulto all’oscurità del presente, facendo emergere una voce poetica che sappia stare dalla parte di chi vive ai margini.
Sul potere politico dell’oscurità, intesa come lente che permette di interrogare ciò che il discorso dominante rimuove, ha scritto Maria J. Pérez Cuervo nel numero 3 di Hellebore (31.10.2020, p. 8), dedicato al maleficio. Il suo editoriale è un vero e proprio manifesto:
Nessuna forma di controllo sociale è mai riuscita a impedire alle persone di raccogliere erbe, preparare pozioni e usare la propria volontà per maledire o lanciare incantesimi. Maledire è sempre stato un gesto alla portata di chiunque – ed è proprio per questo che ha sempre fatto paura alle classi dominanti. Ciò che rende affascinanti le storie di maleficio è la loro potenza sovversiva: ci ricordano che ognuno di noi possiede la capacità di incutere timore a chi ci sfrutta, di incrinare l’ordine imposto, di rovesciare – anche solo per un istante – la direzione del potere.
Nell’articolo “The Museum of Shadows” Pérez Cuervo rilegge le leggende sulla maledizione di Tutankhamon e sulle mummie maledette del British Museum come il ritorno, in forma spettrale e narrativa, della violenza coloniale che ha strappato quei corpi e quei reperti dal loro contesto originario. Poiché il Museo Egizio di Torino nasce nello stesso orizzonte storico di acquisizioni forzate, non sorprende che anche attorno ai suoi reperti si siano sedimentati racconti di fenomeni insoliti: la cosiddetta “sindrome del museo” colpisce da anni le scolaresche in visita (“I Faraoni colpiscono ancora al museo”, La Stampa, 1.5.2001; “All’Egizio si ripete il mistero dei Faraoni. Svenute tre bambine”, La Stampa, 17.1.2002) e persino il personale operativo della Digos (“Agenti bloccati in ascensore, è la maledizione del faraone”, La Stampa, 22.4.1989).

Nel febbraio 2018 Giorgia Meloni attaccò il Museo Egizio accusandolo di “razzismo al contrario” per un’iniziativa che facilitava l’accesso a chi parla arabo. La polemica mostrò quanto sia radicata, a Torino, la resistenza a qualsiasi gesto che, provando a interrogare il passato coloniale, apra il museo anche a chi normalmente non ha spazio nelle narrazioni ufficiali: ogni impegno in quella direzione viene vissuto come una minaccia all’identità nazionale. In questo contesto si può senz’altro fare debunking della “maledizione del faraone” attribuendola a un “banale effetto nocebo” – ma quale dose di ignavia rivelerebbe l’uso dell’aggettivo “banale” per parlare del meccanismo messo in luce da Maria J. Pérez Cuervo? Liquidare quel malessere in nome della Ragione significa pretendere di risolvere un guasto al motore prendendo a martellate la spia che lo segnala sul cruscotto.
Quattro piste per una magia critica

Allegoria del fiume Po, fontana dei dodici mesi (Torino, 1898).
Anche i codici dell’esoterismo popolare offrono spazi narrativi dove immaginare contronarrazioni. Come la Fontana Angelica, la più antica Fontana dei Dodici Mesi si presta a diverse letture allegoriche: i quattro fiumi torinesi (Po, Dora, Sangone, Stura) appaiono come gruppi statuari e dodici figure femminili rappresentano i mesi dell’anno. Eretta nel Parco del Valentino per l’Esposizione Generale del 1898, presenta un dettaglio sorprendente: il Po è raffigurato da un uomo a torso nudo, seduto su una piccola imbarcazione con un tridente, i putti ai piedi e un volto barbuto che ricorda Karl Marx. Il progettista Carlo Ceppi potrebbe aver scelto quelle fattezze per criticare l’impennata degli affitti durante le Esposizioni, che costringeva gli studenti a lasciare Torino ai turisti – una dinamica che pochi anni dopo ritroverà anche il giovane Antonio Gramsci, alle prese con una città che, ieri come oggi, favorisce studentati ricchi e respinge chi non può permetterseli.
Quali altre rappresentazioni dai richiami occulti, presentate nei musei del centro e nei contributi visivi di una street art non istituzionalizzata, attendono di essere risignificate come allegorie vive, capaci di restituire voce a chi la città ha storicamente escluso e di suggerire nuovi modi di abitare il presente?
L’altro luogo dove cercare suggestioni è l’eredità di racconti e cronache del passato. Torino è ricca di storie in cui la magia agisce dal basso, capovolgendo le dinamiche di potere e mettendo in discussione le esclusioni di classe: alcune appartengono alla letteratura, altre alla vita reale. Margherita Solaro, La Sibilla del re dell’omonimo romanzo di Luigi Gramegna (Giani, 1925), millanta doti profetiche per manipolare re Carlo VIII. Nel racconto, la rivalsa italiana contro l’invasore francese del tardo Quattrocento prende il volto di una donna torinese che, grazie alla manipolazione mentale e alla retorica della veggenza, ribalta i rapporti di forza con uno degli uomini più potenti d’Europa. Forse il romanziere ha in mente Carlotta Cerrino, l’umile cuoca torinese che racconto in Incantagioni. Storie di veggenti sibille sonnambule e altre fantasmagoriche liberazioni (Nero, 2022); figura realmente vissuta, negli Anni Trenta dell’Ottocento convinse re Carlo Alberto di poter evocare i morti: i suoi “trucchi paranormali” anticiparono di un secolo quelli di Gustavo Rol – ma quando, insieme all’inganno, emersero le sue origini di classe… beh, Torino le riservò un destino ben più crudele. Considerata pericolosa per la sua capacità di orientare le decisioni del sovrano, venne reclusa a vita.
Quante storie altrettanto epiche giacciono ancora nascoste tra le pieghe della storia, negli archivi – fisici e digitali – delle biblioteche e tra i libri sdruciti dei mercatini? Quali altre figure possiamo rimettere al centro per incrinare una narrazione che continua a celebrare soltanto il potere e il prestigio di uomini bianchi, borghesi, abili e benestanti?
Per sottrarsi al dualismo verità/illusione è utile riportare alla luce vicende in cui la linea tra “buoni” e “cattivi” si fa incerta. Nel 1856 Torino ne offrì una memorabile: il duello pubblico tra Francesco Guidi, magnetizzatore convinto della genuinità dei propri poteri, e Antonio Zanardelli, illusionista sostenuto dalla scienza ufficiale. A eseguire le dimostrazioni furono le giovani Luisa ed Elisa. Alla prova degli spilloni – che consisteva nel trafiggere le braccia delle assistenti – Guidi ipnotizzò Luisa e lei sopportò le punture mostrando poco fastidio. Zanardelli, convinto che l’ipnosi non avesse effetti anestetizzanti, si rifiutò di pungere la figlia e scelse invece un ragazzino di strada.

“Duello dei magnetizzatori Zanardelli e Guidi” in Il trovatore, 21 maggio 1856.
Il piccolo Battista, descritto dalle cronache come un essere degradato e bestiale per le sue origini popolari, venne trafitto senza alcuna preparazione e trattato come un corpo sacrificabile di fronte a una giuria di notabili borghesi, abituati a considerare il distacco come prova di rigore professionale. Quei trentadue uomini, tenuti a mantenere uno sguardo freddo e oggettivo, lo fecero fino in fondo, negandosi qualsiasi empatia per il ragazzo. Nell’elegante appartamento di piazza Vittorio non fu la magia a mostrarsi crudele ma la scienza che pretendeva di smascherarla. Il magnetismo cercò almeno di attenuare il dolore mentre il razionalismo colpì il più vulnerabile senza esitazioni.
Quanto dello stesso classismo riaffiora nel diverso trattamento che la cultura mediatica ha riservato a Gustavo Rol, figura di riferimento della Torino bene, e a Salvatore Gulisano, immigrato da Palermo e noto come “mago Gabriel”, ridotto a bersaglio di scherno televisivo per le sue pratiche magiche nel quartiere periferico delle Vallette?
Quando scrivono sulle pendici del Musinè “TAV = mafie”, gli attivisti del movimento No TAV stanno riattivando in chiave politica l’immaginario valsusino di mappe stellari incise nella roccia da parte di civiltà extraterrestri preistoriche: lanciato da Peter Kolosimo e reso innocuo da Giuditta Dembech, quello spazio espressivo carico di suggestioni torna a parlare di un conflitto tra modelli di sviluppo incompatibili. Il gesto impiega l’arma dello stupore (provate voi a “scrivere” con teli bianchi lettere alte svariati metri sul versante di un monte!) per denunciare un simbolo della speculazione e dell’esproprio e reclamare l’autodeterminazione del territorio e la difesa dei beni comuni.
Quando insieme a Wu Ming (imbeccati dagli amici del Cisu) abbiamo collegato alle operazioni di gruppi neofascisti gli incontri ravvicinati del terzo tipo documentati sul Musinè, l’obiettivo politico era preciso: dare corpo e responsabilità a ciò che, nelle versioni originali, veniva attribuito a forze cosmiche, provenienti da un “altrove” generico e tutto sommato inoffensivo. Anche se il supporto documentario era forte, non ci interessava la cornice del debunking. Per questo motivo, quel racconto ha preso strade inusuali: nella mia Guida ufologica al monte Musinè (2015 poi Le lettere scarlatte, 2025) è parte di una narrazione che oscilla tra il reportage storico, la suggestione psicogeografica e il manuale sull’arte di stupire; in UFO 78 (spoiler alert!) è una delle dorsali narrative di un romanzo che contesta l’escapismo quale unica prospettiva per il fantastico, mostrando con quale potenza il suo linguaggio possa mettere in relazione il piano cosmico e quello dannatamente concreto della realtà.
Wu Ming 1 ha fatto ricorso al linguaggio della magia nera in un altro libro dedicato alla Valsusa: Un viaggio che non promettiamo breve (Einaudi, 2016) evoca l’immaginario perturbante di H.P. Lovecraft per raccontare lo scempio ambientale ed economico che il progetto TAV sta infliggendo alla Valsusa.
In quante diverse forme di scrittura letteraria si nascondono gli incantesimi capaci di evocare i fantasmi che attraversano i nostri territori, restituendo loro voce e consentendoci di ascoltarli – invece di relegarli nell’altrove rassicurante di un mistero pacificato?
Affilare la magia
Bertrand Russell scriveva che
The world is full of magical things patiently waiting for our wits to grow sharper.
Una traduzione fedele è: “Il mondo è pieno di cose magiche che attendono che il nostro sguardo si affini”, ma la prima volta che lessi quella frase ero convinto che “to grow sharper” si riferisse alle “magical things”. Nella mia testa il filosofo voleva dire che “il mondo è pieno di cose magiche che, per diventare più taglienti, aspettano pazientemente il nostro ingegno”. Mi sbagliavo, ma più ci pensavo, più quello slittamento involontario mi sembrava fertile: come un invito a non limitarci a scovare la magia (né, peggio ancora, a smontarla) ma a spremerci le meningi per renderla più appuntita, a farne un attrezzo capace non solo di leggere i conflitti del presente ma di affondare nelle loro crepe e rompere gli schemi che perpetuano gli stessi soprusi.
Da qui le domande seguono da sole: in che modo possiamo usare il nostro ingegno per trasformare la magia in uno strumento di lotta, portando ben al di là di Torino la sua capacità di leggere e cambiare i rapporti di forza attraverso pratiche capaci di plasmare relazioni orizzontali e aprire spazi di immaginazione condivisa? Quali strumenti ci offre questa prospettiva per misurarci, con la stessa audacia giocosa che anima i nostri controincantesimi, con le dinamiche che oggi minacciano il futuro – dal ritorno del bellicismo ai nuovi fascismi, dalle diseguaglianze crescenti alla crisi climatica – e costruire narrazioni capaci di aprire spiragli di trasformazione?
Per la scrittura di questo post l’autore ringrazia Franco Berteni, Paolo Fiorino, Ire Gallina, Laura Gorrieri, Selene Pascarella, Sara Patrone, Filo Sottile, il collettivo Wu Ming e lə Laboratoriə Culturale Occupatə Autogestitə Manituana di Torino. L’immagine in apertura è di Giorgio “Giò” Tavaglione ed è tratta dalla copertina di Marisa Di Bartolo, Mistici e maghi… a Torino, Edizioni Libreria Cortina, Torino 1984.
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* Storico della magia e scrittore, Mariano Tomatis intreccia ricerca d’archivio, critica dei media e pratiche illusionistiche per leggere l’occulto come un linguaggio capace di rivelare e incrinare le architetture del potere. Al posto del solo debunking, propone “controincantesimi”: narrazioni trasparenti nei trucchi ma radicali nelle alleanze, pensate per restituire voce ai margini e aprire spazi di immaginazione condivisa.








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