Oltre il brand reazionario della «Torino magica». Ripensare il mistero, reinventare la città (1 di 2)

[In questi giorni, per diverse ragioni, Torino e il suo storico quotidiano La Stampa sono sotto i riflettori.
La testata è stata ritenuta la più “sacrificabile” di un gruppo editoriale in svendita, e per questo difesa da varie anime della città e della cultura anche nazionale, che ne han fatto l’encomio. Nel mentre, nei suoi uffici si consumava lo scandalo di un’accesa contestazione, per come in vari articoli aveva coperto – verbo qui polisemico – il genocidio del popolo palestinese. Tale episodio è stato poi descritto come l’innesco della reazione che ha portato allo sgombero del centro sociale Askatasuna. Sgombero che in realtà è l’esito di ben più lunghi processi di criminalizzazione e repressione, come sa chi ha seguito le cronache cittadine, e valsusine, almeno dal 2011 a oggi.
Curiosamente, il greco σκάνδαλον vuol dire proprio innesco: skandalon è infatti il bastoncino in cui una preda inciampa, facendo scattare una trappola. Deriva dal verbo σκανδαλίζω, «inciampare».
Qualcosa collega intimamente la pietra dello scandalo, che oggi è solo una metafora, e la pietra d’inciampo, che invece è concreta e incastonata nella via. In mancanza di pietre d’inciampo, a ricordare che è in corso un genocidio abbiamo solo pietre dello scandalo. Che si corra il rischio di incespicarvi noi stessi è un problema non tanto etico quanto strategico, legato agli attuali rapporti di forza.
Ma dicevamo: in questi giorni, per diverse ragioni, Torino e La Stampa sono sotto i riflettori. È dunque un buon momento per pubblicare, in due puntate, questa sontuosa e ipnotica inchiesta di Mariano Tomatis. Mariano è partito da una domanda: quando ha cominciato ad affermarsi la narrazione, che oggi è un vero e proprio brand pro loco, della «Torino magica», esoterica, paranormale e quant’altro, immagine che non poche sub-narrazioni tossiche alimenta?
Ebbene, la «Torino magica» nasce sulle pagine della Stampa, e nasce negli anni Settanta, decennio in cui – almeno per gli operai Fiat – quel giornale era ancora, sempre e solo, diretta voce del padrone e perciò «La Busiarda». Nomignolo che in queste settimane è rimasto fuori dalle ricostruzioni.
Più precisamente, la «Torino magica» nasce nel fatidico 1978, a cavallo del sequestro Moro, per mezzo di un’operazione giornalistico-ideologica articolata e precisa. Buona lettura. WM]

di Mariano Tomatis*

Il 1978 a Torino si apre in un clima di tensione estrema: le Brigate Rosse hanno appena assassinato il vicedirettore de La Stampa Carlo Casalegno e negli stabilimenti Fiat la situazione è esplosiva. Alla fine del 1977 Mirafiori è bloccata da uno sciopero clamoroso contro i sabati obbligatori, con migliaia di operai ai cancelli a presidiare gli ingressi. È l’apice di un confronto durissimo che, giorno dopo giorno, oppone manodopera e dirigenza e lascia la città immersa in un conflitto permanente.

In questo scenario si inserisce Stampa Sera – edizione pomeridiana de La Stampa, quotidiano all’epoca parte dell’impero editoriale della famiglia Agnelli – che sceglie di deviare lo sguardo dal fronte sociale e costruire per Torino un “altrove narrativo” popolato di presenze e suggestioni magiche, utile a disperdere le tensioni del presente. Quella scelta si concretizzerà in una serie di ventitré articoli – pubblicati dal 13 febbraio al 17 maggio 1978 – destinata a fissare nell’immaginario pubblico l’espressione «Torino città magica», un marchio ancora riconoscibilissimo a quasi mezzo secolo di distanza.

Senza volerlo, quella narrazione diversiva si sovrappone al sequestro Moro: la serie prende avvio poche settimane prima del rapimento e si chiude all’indomani dell’assassinio, ricalcando una dinamica già tematizzata da Wu Ming nel romanzo UFO 78 (Einaudi 2022), dove la gestione mediatica dei dischi volanti viene accostata alla strategia con cui il sistema dell’informazione, intercettando e incanalando desideri e anche pulsioni utopiche circolanti nella società, assorbe e devia l’attenzione pubblica durante i momenti di crisi.

Quell’iniziativa editoriale arriva alle soglie di ciò che verrà poi definito «riflusso»: il progressivo spostamento verso un orizzonte privato e disimpegnato e la parallela attenuazione (interessata) della eco mediatica per il conflitto sociale.

Tra le collaboratrici del giornale che si occupano di occulto c’è Laura Bragagna: sei anni prima aveva definito Torino «città di maghi e streghe» (La Stampa, 17.2.1972), ma in quei giorni cura già una rubrica fissa dedicata alla parapsicologia e servono energie nuove. Nei primi mesi del 1977 Stampa Sera aveva sperimentato un breve viaggio in quattro puntate attraverso la “Torino magica”, affidandone la scrittura a Piero Femore; ma, poiché il reboot si presenta più ambizioso, si decide di affiancargli una collaboratrice. Il direttore Ennio Caretto si rivolge così a Giuditta Dembech, che sulle onde libere di Radio Torino Alternativa conduce con Luigi Brandajs L’altra scienza, un programma dedicato al paranormale. Nei battibecchi pro e contro la magia – che anticipano quelli tra Mulder e Scully in X-Files – Dembech interpreta la parte della credente.

La giornalista ha già pubblicato un saggio sul Musinè, la montagna “magica” della zona, e si incarica di firmare oltre metà degli articoli della nuova serie, portando avanti l’operazione in piena sintonia con le esigenze della testata (a proposito della redazione, lamenterà senza mezzi termini: «Si respirava aria FIAT»). Al termine del lavoro raccoglierà e amplierà quei materiali nel volume Torino città magica (Edizioni l’Ariete, 1978), garantendo lunga vita ad articoli destinati altrimenti a scomparire. Il libro è tuttora ristampato (insieme al secondo volume, uscito nel 1995) e continua a consolidare il canone esoterico ufficiale della città.

In continuità con le prove generali dell’anno precedente, Piero Femore cura la cornice introduttiva e il reportage più delicato, quello su Gustavo Rol. Completano la rosa degli autori Nevio Boni e Gian Piero Bona.

I due strumenti teorici più utili per affrontare criticamente l’operazione sono La Q di Qomplotto di Wu Ming 1 (Alegre, 2021) e Postcolonial Astrology di Alice Sparkly Kat (North Atlantic Books, 2021).

Due libri per capire perché quella della Torino magica è una narrazione tossica

I due saggi offrono lenti preziose per leggere le trame simboliche che attraversano la cultura magico-esoterica: da un lato, l’analisi del mito tecnicizzato – concetto che Wu Ming 1 riprende da Furio Jesi – mostra come narrazioni costruite a tavolino si travestano da tradizioni antiche e verità rivelate per legittimare l’ordine esistente e disinnescare il conflitto; dall’altro, Sparkly Kat evidenzia che ogni discorso sulla magia è sempre situato, mai neutrale, e proprio per questo permette di riconoscere le spinte manipolative con cui l’esoterismo viene spesso usato per far sembrare naturali certe norme sociali.

Applicate al 1978 torinese, queste prospettive rivelano che il racconto della «città magica» proposto su Stampa Sera non allarga gli orizzonti ma li restringe: invece di aprire possibilità, orienta l’immaginazione verso un passato mitizzato che fa apparire “naturali” equilibri di potere costruiti nel tempo. Il risultato è un velo di profondità illusoria che difende l’ordine esistente: la città diventa un serbatoio di simboli e segreti accessibili soltanto a chi appartiene già ai gruppi dominanti, mentre ogni sguardo alternativo – per posizione sociale, provenienza o identità di genere – viene escluso o reso invisibile.

Guardare al passato della città attraverso queste lenti permette di riconoscere gli stessi incantesimi oggi all’opera e di immaginare pratiche critiche in grado di scalfire le narrazioni con cui il potere continua a costruire l’immaginario urbano. Solo così il magico può tornare a essere un campo di possibilità, e non una gabbia simbolica.

A come Arcani diversivi

Il primo articolo della serie è la matrice da cui l’intero progetto prende forma. Qui compaiono già tutti gli elementi che verranno ripresi e ampliati nelle puntate successive: la città come luogo eletto, la centralità di figure aristocratiche o altolocate, il ricorso costante al segreto come chiave d’accesso a un sapere privilegiato. Piero Femore allestisce una Torino regolata da trame invisibili, accessibile solo a pochi iniziati, e introduce fin da subito un repertorio che diventerà il canovaccio dell’intera operazione.

Sul piano narrativo, la città viene descritta a partire da un passato mitico e sacrale: Celti, Egizi, Templari, valdesi, druidi e profeti si avvicendano senza coerenza storica, perché ciò che conta non è la verifica delle fonti ma l’effetto evocativo. Questo impasto di ascendenze produce una sospensione atemporale che funziona da antidoto simbolico alla Torino del lavoro e del conflitto: una fuga immaginaria che risuona con la nostalgia reazionaria dell’epoca, tentata come oggi da un ideale «Make Torino Great Again».

A questa costruzione si affianca una forte componente elitaria. La magia cittadina viene attribuita perlopiù a salotti benestanti, a figure ben integrate nel potere locale, mentre le presenze popolari impegnate nell’occulto restano sullo sfondo come dettaglio pittoresco.

L’articolo si chiude con la figura di Gustavo Rol, scelto come garante supremo dell’intero impianto narrativo: un “padrino” ideale, investito di capacità paranormali che lo collocano simbolicamente al vertice di una gerarchia naturale del potere. In lui si concentra una forma esemplare di white saviourism: la tendenza a rappresentare un uomo bianco, borghese e benestante come portatore di una sapienza eccezionale e destinato per questo a guidare gli altri. I presunti poteri di Rol non sono solo curiosità sovrannaturali ma diventano il segno che l’élite cittadina possiede qualcosa di innato che la distingue e la legittima. L’eccezionale diventa così la giustificazione arcana di chi detiene il controllo sulla città.

B come Brodo mitologico

Il secondo articolo della serie prende il Santo Graal come perno narrativo: secondo Giuditta Dembech, la reliquia sarebbe nascosta a Torino, ma il luogo esatto resterebbe leggibile solo attraverso una trama di indizi simbolici disseminati sulle statue e sui monumenti cittadini. Questo annuncio introduce una miscela densa di simboli, indizi e rimandi arcani, fatti ribollire fino a creare un impasto narrativo progettato più per suggerire un accesso riservato che per offrire informazioni precise.

Nel contesto di un quotidiano a larga diffusione, l’annuncio di un dato archeologico tanto sensazionale produce un cortocircuito: l’articolo titilla la curiosità e lascia intravedere l’esistenza di un sapere nascosto, ma al momento decisivo trattiene l’informazione cruciale. La promessa di un disvelamento non è mantenuta perché il vero messaggio non riguarda il Graal in sé ma la gerarchia che lo circonda: esiste un’élite che conosce il segreto ma tu non ne fai parte.

La cronista fa esplicito riferimento a un «giro magico», una cerchia ristretta di persone che avrebbero accesso ai significati nascosti delle pietre e dei segni. La distinzione tra costoro e la massa esclusa riprende uno dei cardini dell’esoterismo reazionario del Novecento: l’idea che esistano individui superiori per natura, capaci di cogliere verità che agli altri restano precluse, e per questo legittimati a comandare.

Il ricorso al Graal accentua questa gerarchia. Presentare la reliquia come fulcro magico della città non fa che riproporre un immaginario intriso di sangue puro e dinastie sacre, lo stesso che ha alimentato le fantasie dei nazisti e le mitologie ultrareazionarie del Novecento. In questo quadro, vedere i segni della coppa sulle rive del Po diventa un meccanismo di gatekeeping: chi coglie gli indizi appartiene all’élite, chi non li riconosce resta escluso. La mappa simbolica tracciata da Dembech anticipa persino il futuro “rito dell’ampolla con l’acqua del Po” caro a Umberto Bossi, mostrando quanto questo repertorio si presti a fornire basi mitiche a ideologie identitarie e razzializzanti, che la Lega delle origini userà per rivendicare una presunta superiorità etnica e territoriale.

A completare il quadro, la cronista segnala alcuni episodi soprannaturali degli Anni Cinquanta: ombre e apparizioni nella chiesa della Gran Madre di Dio indicano una perfetta continuità tra passato e presente; il mistero non appartiene soltanto alla storia remota ma continua a manifestarsi nel presente, a patto di saperlo vedere. Il brodo mitologico di Dembech non mira dunque a spiegare Torino ma a ordinarla secondo una gerarchia spirituale rigida: la «città magica» si chiude attorno ai suoi presunti interpreti, rafforzando l’idea che il potere appartenga a chi possiede le chiavi del sacro.

C come Catabasi

Il terzo articolo della serie è la discesa agli inferi di un quartiere popolare che prende avvio da un episodio ottocentesco: al centro c’è la figura di un «mago nero» capace di soggiogare le ragazze grazie al suo presunto potere magnetico. Secondo il racconto, l’uomo sarebbe stato trovato orrendamente decapitato, un omicidio che le autorità dell’epoca avrebbero definito «delitto extraumano», come se la violenza estrema potesse essere spiegata solo invocando il soprannaturale. Come sfondo, il vicolo Tre Galline: un dedalo povero e degradato che l’articolo trasforma in un crogiolo di energie oscure, un luogo in cui la presenza del maligno continuerebbe a manifestarsi ancora oggi.

L’immaginario della “magia nera” viene declinato in chiave maschiocentrica: il potere occulto è presentato come mezzo per ottenere privilegi personali e accesso alle donne. Il genere femminile non appare mai come soggetto ma come risorsa da usare o vittima da manipolare. Nell’intreccio tra soprannaturale e cronaca nera, la violenza sessuale non è trattata come fatto sociale radicato in rapporti di potere ma come episodio eccezionale reso possibile da facoltà paranormali. L’abuso diventa così un elemento di colore utile a costruire la leggenda del «mago nero», non un’occasione per interrogare le dinamiche concrete che lo rendono possibile.

Il teatro delle violenze, all’epoca abitato da famiglie proletarie e segnato da miseria e marginalità, viene trasformato in un santuario della negatività, una «zona accentratRice di energia» che rende naturale associare la povertà a un’aura malefica. Qui l’immaginario dell’orrore funziona come dispositivo di classe: invece di leggere il quartiere attraverso le condizioni materiali dei suoi abitanti, l’articolo lo racconta come luogo pericoloso in quanto indecoroso. Le disuguaglianze non vengono analizzate ma moralizzate: la povertà diventa una colpa che si manifesta come energia oscura.

L’idea stessa di «delitto extraumano» serve a costruire il vicolo come un territorio dove l’ordine civile può essere messo tra parentesi: l’aura diabolica del luogo autorizza l’eccezione, e se la violenza viene descritta come “non umana”, diventa plausibile che le istituzioni rispondano con misure repressive altrettanto eccezionali.

L’effetto generale è chiaro: il racconto usa il soprannaturale per tracciare una mappa simbolica che contrappone le zone benestanti ai quartieri popolari, trasformando questi ultimi in emblema di ciò che la città vuole tenere a distanza.

D come Distinzione sociale

Il quarto articolo ruota attorno alla figura di Bianca Capone Ferrari, presentata come studiosa dell’occulto e figura di riferimento di un piccolo gruppo di ricerca. Il pezzo insiste sui segni dell’agio borghese (casa elegante in precollina, arredi di pregio, figlie all’università) ma subito precisa che la donna non appartiene alla borghesia cafona incarnata dai cliché mondani delle vacanze ad Alassio e al Sestriere. La strategia serve a costruire un modello di borghesia colta perché impegnata sui temi dell’esoterismo, distinta tanto dal popolo quanto dalla versione più volgare e consumista dei ceti medio-alti.

Con una precisione non lasciata al caso, viene indicato l’esatto indirizzo della signora: via Morazzone 16, nel quartiere borghese di Madonna del Pilone. Questo dettaglio funziona come polo luminoso di una mappa simbolica che oppone la rispettabilità dei ceti alti all’oscurità dei vicoli popolari evocati nell’articolo precedente. La magia bianca e la magia nera si distribuiscono così sulle zone della città: secondo la logica reazionaria della serie, il mistero “buono” abita i quartieri benestanti mentre quello “cattivo” si annida nei luoghi degradati.

Secondo Nevio Boni, la cerchia dei «maghi bianchi» funziona come un canale parallelo a cui la città affida ansie e fratture quotidiane. L’immaginario esoterico finisce così per sostituire gli strumenti sociali reali: la responsabilità collettiva arretra e la gestione del malessere viene delegata a figure informali che offrono rituali e consulti a pagamento. Ne deriva un dispositivo di distinzione che agisce in modo diseguale: i ceti borghesi possono ricorrere a questi percorsi “alternativi”, mentre chi non dispone di risorse o reti solide si ritrova più esposto al vuoto lasciato dallo smantellamento del supporto pubblico.

E come Esorcismi

Il quinto articolo introduce nella Torino magica la dimensione della religione istituzionale. Nevio Boni racconta le attività dell’esorcista Padre Alfredo Gattoni, la cui autorevolezza permette di saldare in un unico quadro il paranormale e la Chiesa. Poiché la magia rischia sempre di essere associata al folklore e alla superstizione popolare, qui la voce di un gesuita le fornisce una legittimità ufficiale, presentando la Torino cattolica e la Torino magica come le due facce di una stessa medaglia.

La cornice della lotta contro il demonio riscrive la sofferenza individuale come fenomeno soprannaturale. Le diagnosi mediche vengono evocate solo per essere presto accantonate; disturbi psichici e fragilità emotive diventano segnali di entità sovrannaturali. Bambini che bestemmiano, anziani che compiono salti, donne che vomitano oggetti impossibili: il disagio mentale è trasformato in spettacolo, oscillando fra le estetiche dei freak show e del grand guignol. Quando l’unica chiave interpretativa ammessa è l’assedio del Maligno, scompare ogni possibilità di leggere le vite delle persone attraverso categorie sociali, psicologiche o cliniche.

La città stessa resta impigliata nel racconto dell’esorcista torinese. Le “case infestate”, gli armadi che volano, i telefoni che squillano da soli, la villa sulla collina che perfino Rol avrebbe temuto: la metropoli industriale degli Anni Settanta si dissolve in una topografia di presenze e infestazioni che affida il senso della città non a un confronto collettivo ma a una ristretta élite di interpreti. Così l’articolo aggiunge all’impianto della serie l’imprimatur della religione: se finora comparivano cerchie iniziatiche, genealogie inventate e luoghi carichi di poteri arcani, ora interviene la Chiesa come garante ultimo del soprannaturale. Il risultato è un sistema chiuso in cui tutto converge verso la stessa conclusione: Torino sarebbe attraversata da una battaglia invisibile che solo pochi possono vedere e decifrare, mentre la vita quotidiana e le sue complessità vengono espulse dal quadro, sostituite da un ordine simbolico che mette in ombra tutto il resto.

F come Feticci esclusivi

Il sesto articolo ruota attorno al presunto passaggio di Nostradamus a Torino e alla misteriosa lapide che ne sarebbe la prova. Giuditta Dembech racconta di averla vista nella casa di una famiglia che la custodisce da generazioni, trasformando l’incontro con l’oggetto in una sorta di rito d’accesso: varcare la soglia, toccare il marmo, seguire le incisioni con le dita. Il punto focale non è ciò che la lapide dice ma il fatto stesso di poterla vedere.

La cronista ripete due volte che il luogo in cui si trova il reperto «deve restare segreto», ma non offre alcuna ragione concreta di quel riserbo. La segretezza non protegge il reperto ma lo trasforma in un piccolo privilegio domestico che distingue chi può accedervi dal resto della città, relegato al ruolo di spettatore escluso. Così raccontata, la lapide diventa un vero e proprio feticcio, il cui valore non nasce dalla potenziale rilevanza storica ma dalla sua sottrazione allo sguardo pubblico.

Invece di mettere in discussione questa dinamica, la cronista vi aderisce senza esitazioni e non contempla nemmeno l’ipotesi che la lapide possa essere un falso: ammetterlo significherebbe incrinare il prestigio che quell’oggetto garantisce a chi lo possiede e a chi lo può vedere. Così, dopo il «giro magico» del Graal, Giuditta Dembech ribadisce una visione dell’esoterismo torinese come filtro “esclusivo”, un meccanismo che decide chi può accedere al mistero e chi deve restare fuori.

G come Gerarchie disciplinari

Il settimo articolo porta la Torino magica dentro un vero e proprio teatro dell’obbedienza. Giuditta Dembech racconta la sua visita presso un gruppo esoterico che si definisce «esseno», descrivendo un protocollo di ingresso in cui ogni gesto (dalla benda al silenzio che le vengono imposti, dai tragitti disorientanti ai cappucci dei suoi interlocutori) è progettato per mettere alla prova la sua disponibilità a seguire regole rigide senza fare domande. Tutto rimanda a un’estetica deliberatamente teatrale, simile a quella che Stanley Kubrick metterà in scena in Eyes Wide Shut (1999). La cronista presenta questo apparato come perfettamente naturale, come se l’accesso a un sapere “superiore” implicasse sempre la rinuncia alla propria autonomia critica.

Nel riportare l’intervista agli Esseni, nessuna delle affermazioni del gruppo è sottoposta a verifica: chi legge è invitato ad assumere la stessa passività, sospendendo ogni giudizio e accettando le parole di un’autorità che non prevede repliche o contestazioni. In quel quadro, la “vera” conoscenza rifugge dal dubbio e incoraggia l’adesione a una gerarchia che pretende di legittimarsi da sé.

La dottrina delle «forme pensiero» occupa l’ultima parte dell’articolo: secondo gli Esseni, esisterebbero energie benefiche che alcuni iniziati invierebbero «a distanza», senza che le persone coinvolte ne siano consapevoli. È un modello esplicitamente paternalista, fondato sull’idea che un’élite invisibile sappia cosa è bene per tutti e possa intervenire sulle vite altrui senza alcun consenso. A questo si affianca una selezione severissima: il gruppo afferma che, tra cento persone che chiedono di essere ammesse, solo una avrebbe le qualità necessarie per essere “risvegliata”. L’insegnamento occulto non è quindi un percorso aperto ma un sistema chiuso, che distribuisce il privilegio in modo selettivo e incontestabile.

L’intervento dall’alto e questa selezione arbitraria rivelano un meccanismo che si può definire “darwinismo spirituale”: una gerarchia iniziatica che presenta la disuguaglianza come naturale e ineluttabile, autorizzando i pochi prescelti a filtrare gli accessi e a incidere sulle esistenze degli altri. Ma che cos’è il darwinismo spirituale se non una variante esoterica della logica che regola i rapporti di potere nella Torino industriale degli Anni Settanta? Nel tempio come in fabbrica, ciascuno deve accettare il proprio posto nella scala gerarchica e obbedire alle regole fissate dall’alto. La disciplina mistica proposta dagli Esseni e quella produttiva imposta negli stabilimenti rispondono alla medesima logica dell’adattamento: disinnescare il conflitto, scoraggiare ogni messa in discussione e presentare l’obbedienza come l’unica via possibile.

Un immaginario magico che plasma non per emancipare ma per addestrare sudditi.

H come Healing mentale

L’ottavo articolo si apre con domande altissime sul destino dell’anima e sulla libertà umana, ma subito ci riporta a terra, a Torino, nelle mani di un ingegnere dell’Enel. È il classico colpo di scena della serie: non serve viaggiare in Oriente o consultare maestri leggendari, perché la risposta all’enigma dell’esistenza abita a Pino Torinese, in via Montcervet 3. La magia diventa domestica, quotidiana, incarnata nel vicino di casa: Roberto Favro lavora otto ore al giorno e, secondo la cronista, può diagnosticare malattie a distanza, trasmettere energia curativa e proiettare la mente fuori dal corpo.

La forza dell’articolo sta nell’accostare all’aura soprannaturale un linguaggio pseudoscientifico di grande presa negli anni Settanta: onde che si esprimono con le lettere greche, stati alterati di coscienza e riferimenti al Mind Control. L’ingegnere diventa così una figura-ponte: abbastanza tecnico da risultare affidabile, abbastanza “sensitivo” da incarnare l’eccezionalità, residente in una delle zone più agiate della cintura. La sua autorevolezza deriva anche dall’aura di benessere proiettata dal dettaglio geografico.

Nevio Boni non mette mai in dubbio le affermazioni di Favro: non chiede verifiche, non cita controlli indipendenti, non problematizza il rischio di sostituire cure reali con miraggi energetici. Nel racconto dell’ingegnere, inoltre, la guarigione non si delega più a un percorso medico, né è un diritto garantito, ma un risultato che dipende dalla capacità della singola persona di entrare «nel giusto stato cerebrale». Ma se la salute dipende dalla mente, allora la malattia diventa colpa di chi non sa controllarla. Questo fa scomparire dal discorso tutte le cause materiali che incidono realmente sul benessere – dall’inquinamento allo stress per i ritmi di fabbrica, dalla scarsa sicurezza sul lavoro alle condizioni abitative – e l’intera responsabilità ricade sul singolo.

Trasformare la salute in un fenomeno magico, facendo appello al linguaggio sedicente neutrale della scienza, consente di ignorare le rivendicazioni collettive e ricondurre ogni disagio allo sforzo (o alla debolezza) della singola persona: la città industriale e le sue contraddizioni restano nell’ombra e la sofferenza diventa un difetto interiore da correggere attraverso tecniche mentali.

I come Iside svelata

Il nono articolo costruisce una «Torino egizia» attraverso leggende sulla fondazione della città da parte di principi provenienti dal Nilo, sull’arrivo del culto del toro Api e su un destino misterioso che avrebbe «guidato» a Torino statue, papiri e gioielli faraonici. Ogni oggetto custodito nel Museo Egizio diventa segno di un conflitto cosmico tra divinità benevole e potenze oscure: reperti e mummie sono presentati come talismani attivi, capaci di irradiare energie benefiche o malefiche.

La straordinaria collezione torinese non è mai ricondotta al suo retroterra ottocentesco, all’espansione europea in Egitto o ai meccanismi di acquisizione che hanno permesso ai Savoia di comprare i pezzi raccolti da Bernardino Drovetti: tutto viene interpretato come se provenisse da una sorta di “vocazione mistica” della città, e la narrazione dissolve il saccheggio coloniale nel racconto di un destino ineluttabile: ciò che è stato sottratto diventa ciò che “doveva” trovarsi a Torino.

Giuditta Dembech porta all’estremo la tendenza della serie a sostituire la storia con il mito: le lotte fra Seth e Horus diventano la metafora che copre da un lato i conflitti materiali fra potenze europee e territori colonizzati, dall’altro gli scontri sociali che attraversavano Torino negli anni Settanta, soprattutto quelli tra la manodopera Fiat e la sua dirigenza. L’immaginario magico riferito all’Egitto serve ad assolvere sia lo sfruttamento coloniale che ha portato i reperti a Torino, sia lo sfruttamento industriale che strutturava la vita quotidiana della città.

Questa postura ideologica non appartiene affatto al passato. Le polemiche che negli ultimi anni hanno accompagnato ogni tentativo del Museo Egizio di discutere criticamente il proprio lascito coloniale mostrano quanto sia ancora radicata la tentazione di leggere la collezione come un dono misterioso e non come l’eredità di un’epoca di espansione e dominio europeo. L’articolo non è quindi una stravaganza d’epoca: è il sintomo duraturo di una sensibilità che preferisce le benedizioni di Iside alla storia materiale, e che continua a trasformare un patrimonio sottratto in un feticcio identitario.

J come Jung nel sotto-sopra

Il decimo articolo aggiunge un tassello decisivo alla mitologia della Torino magica: la convinzione che esista un sotto-sopra di Torino à la Stranger Things, un luogo nascosto da cui si sprigionano poteri arcani. Le «grotte alchemiche» descritte da Bardato Bardati sono presentate come camere sotterranee in cui si potrebbe «entrare per caso» ma che restano negate ai profani. In quelle cavità, secondo l’alchimista, si accede a livelli progressivi di dominio: la soglia ultima è la conquista del controllo mentale di tutto ciò che sta in superficie. Giuditta Dembech sospende ogni prudenza, accogliendo il linguaggio ermetico dell’alchimista senza mai chiedergli di chiarire ciò che afferma. Nonostante il contesto divulgativo, l’opacità non appare come un limite ma come un valore: più le parole sono oscure, più sembrano autorevoli.

Questo immaginario sotterraneo è sorprendentemente vicino alle intuizioni di Jung, che vedeva in cavità e grotte il simbolo materiale dell’inconscio collettivo, il luogo dove si deposita ciò che la coscienza rimuove. In questo senso, l’articolo offre involontariamente un esempio perfetto: le grotte diventano il contenitore in cui far confluire pulsioni, paure e desideri della città industriale. Ma mentre per Jung la discesa nell’inconscio poteva avere una funzione trasformativa, qui l’accesso alle profondità funge da strumento di esclusione: pochi possono scendere, tutti gli altri devono restare in superficie.

Collocare gli ingressi delle grotte nei pressi del Palazzo – e non nei quartieri popolari – non è un dettaglio lasciato al caso. Significa ribadire la mappa di una città in cui i poteri occulti restano saldati ai poteri visibili, lasciando fuori le periferie dove vive la classe operaia. Letta attraverso Jung, questa Torino sotterranea non è una semplice trovata narrativa: è il volto rovesciato di una città industriale che preferisce nascondere sotto il tappeto le proprie tensioni invece di affrontarle. È l’inconscio della città messo in scena, ma trasformato in gerarchia invece che in occasione di cura.

K come Kabbalah

L’undicesimo articolo introduce l’idea che il destino della città sia inscritto nelle sue stesse lettere. Renucio Boscolo, esperto di crittografia esoterica, scompone “Augustae Taurinorum” per ricavarne parole che rivelerebbero la vera natura di Torino. È una variante pop della cabala della Temurah: giocare con le parole per svelare i sensi nascosti di un luogo.

Ogni anagramma viene letto come la conferma di una vocazione: “storia”, “regno”, “autorità”, “timone” dimostrano che la città sarebbe sempre stata destinata al comando. Il metodo non dimostra nulla ma allude in modo potente al fatto che Torino occupa un posto speciale nell’ordine del mondo.

Per la prima volta, in filigrana, compare anche la città industriale: dagli anagrammi affiorano “moto”, “motori”, “rumori”, perfino le “arnie” dove vivono turnisti e pendolari. È un’apparizione fugace, priva di qualsiasi riflessione sulle condizioni materiali della classe operaia: la fatica quotidiana è ridotta a un indizio linguistico, un tratto che conferma la vocazione produttiva della città, non un problema sociale.

In un articolo che magnifica l’importanza delle parole, il diavolo si nasconde nei dettagli: Giuditta Dembech scrive che “se la città è magica, lo sono di diritto anche i cittadini”. Il sillogismo sembra allargare il cerchio, ma in realtà lo restringe; non parla di chi vive a Torino: parla di “cittadinanza”, una categoria giuridica che – ieri come oggi – esclude persone migranti, richiedenti asilo e rese invisibili da norme che negano diritti fondamentali. Quella che appare come una celebrazione giocosa del linguaggio diventa così una cabala identitaria che riproduce, in forma esoterica, le stesse barriere che plasmano le città escludenti del presente.

L come Latente

Il dodicesimo articolo ruota attorno all’idea che ogni persona custodisca facoltà latenti, capaci di emergere solo rinunciando alla razionalità e lasciando agire il corpo in modo spontaneo. Dopo l’ingegnere Favro, la serie propone un secondo ingegnere – Enrico Tomasetti – come depositario di una tecnica in grado di liberare queste potenzialità: una ginnastica intuitiva che trasformerebbe la mano in strumento terapeutico e l’inconscio in fonte di diagnosi e guarigioni. È una ripresa novecentesca del magnetismo di Mesmer, convertito in ginnastica spontanea.

Ma l’enfasi sul potere latente non mira ad alcuna emancipazione: come nel caso di Favro, il racconto sposta il peso della sofferenza sull’individuo, sollevando la città dalle responsabilità legate all’accesso alle cure. Mentre annuncia di portare alla luce ciò che è latente nel corpo, il testo di Gian Piero Bona occulta la strategia latente nel progetto di «Torino città magica»: l’uso del paranormale per rafforzare una visione rigidamente individualizzante della malattia e della guarigione.

(continua)

* Storico della magia e scrittore, Mariano Tomatis intreccia ricerca d’archivio, critica dei media e pratiche illusionistiche per leggere l’occulto come un linguaggio capace di rivelare e incrinare le architetture del potere. Al posto del solo debunking, propone “controincantesimi”: narrazioni trasparenti nei trucchi ma radicali nelle alleanze, pensate per restituire voce ai margini e aprire spazi di immaginazione condivisa.

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