
Quando Margaret Powell pubblicò il suo memoriale, nel 1968, il mondo era cambiato dagli inizi della sua carriera. Soprattutto era cambiata lei stessa, dato che era diventata una scrittrice.
Era nata a Hove, una cittadina del sud dell’Inghilterra, sessantuno anni prima, seconda di sette figli di una famiglia poverissima. La madre faceva la donna delle pulizie, il padre era imbianchino, richiamato per la Grande Guerra, spesso disoccupato. Con una mente acuta in un corpo poco aggraziato e lungagnone, a tredici anni Margaret aveva dovuto rinunciare alla borsa di studio vinta per meriti scolastici e andare a lavorare. Cioè a fare l’unico lavoro che la sua condizione sociale le consentiva: la domestica, o meglio, la serva nelle case dei ricchi.
Ai piani bassi, il suo memoriale, caso editoriale a fine anni Sessanta, è stato recentemente pubblicato da Einaudi Stile Libero e lo si trova perfino nei centri commerciali, con una fascetta che ci ricorda che la fiction di successo Downton Abbey è ispirata a questo libro. In quarta di copertina viene perfino riprodotta la recensione del serial uscita su “La Repubblica”, come se il libro e la fiction televisiva fossero la stessa cosa (bah!). Ad ogni modo vale la pena ringraziare il successo di Downton Abbey se ha consentito di vedere pubblicata in italiano l’opera prima di Margaret Powell, a dimostrazione del fatto che un margine per i circoli virtuosi è ancora possibile perfino nel rimpallo tra tv nazionalpopolare e grande distribuzione.
Ai piani bassi è una lettura salutare, che calza come un guanto ai tempi moderni, anche se racconta la vita di una serva nelle magioni aristocratiche inglesi degli anni Venti e Trenta. La storia di Margaret, scritta in prima persona e costellata di aneddoti fulminanti, è esemplare non perché qualcuno potrebbe vederci in controluce il romanzo di formazione o perché abbia qualche insegnamento morale da offrire. Questa storia è esemplare perché racconta con un tono lieve, scanzonato ed efficacissimo il punto di vista “dal basso” della working class. Quello di un tempo antico, prima che la società subisse alcune grosse trasformazioni, ma in un certo senso quello di sempre.
La protagonista di questa storia è una ragazza con una spiccata consapevolezza di classe e una buona dose di incazzatura ab origine. Margaret ha imparato presto a non aspettarsi niente dalla vita, ma anche a bandire ogni fatalismo e a escogitare tutti i modi possibili per sopravvivere senza doversi umiliare né essere schiacciata: senza diventare serva “dentro”. Per lei si tratta di lavoro retribuito, bando alle ciance retoriche sull’etica del servizio, sulla devozione, di cui si vorrebbe ammantare il suo ruolo. Per questo rifiuta di legarsi a una sola famiglia, cioè di diventare una specie di famigliare di serie B, costretta alla riconoscenza e all’ossequio per tutta la vita. Preferisce cambiare impiego, spostarsi da una casa all’altra, capacissima di cogliere le differenze – perché, certo, ci sono i padroni perfidi e quelli più umani -, ma senza mai perdere il senso della reciproca diversità, della divisione tra “noi” e “loro”, tra chi ha tutto e chi ha poco o niente. Divisione che perfino i padroni buoni non perdono occasione di rimarcare, considerando la servitù una fetta di umanità sfortunata, da trattare bene, con accondiscendenza, purché non sorpassi certi limiti.
Invece Margaret, nonostante le tante umiliazioni subite, non solo azzarda, ma non si arrende nemmeno all’abbrutimento a cui la vita potrebbe facilmente condannarla. Da sguattera – il gradino più basso della servitù domestica – si improvvisa cuoca per passare di grado, si iscrive a improbabili corsi di cucina, si lancia in grottesche soluzioni gastronomiche (si trattasse anche di recuperare dalla spazzatura l’aringa rifiutata a pranzo, per servirla a cena con la salsa ai propri padroni). Ma soprattutto legge romanzi, brama una cultura. E quando nelle poche serate di libertà va in balera in cerca di un marito che possa affrancarla almeno in parte dalla vita al servizio dei ricchi, non prova a inventarsi un’avvenenza e una paraculaggine che non ha, ma pretende di conversare, di dire cose intelligenti, di parlare di Dickens e di Conrad. Questo ovviamente non rende più facile l’impresa che si prefigge, ma le impedisce di accontentarsi del primo venuto senza cervello.
Alla fine un marito lo troverà, metterà su famiglia, darà avvio a una seconda fase della vita. Per un pezzo farà la casalinga, con tre figli, e conoscerà una povertà non dissimile da quella di provenienza, con il marito chiamato in guerra, la Seconda, com’era accaduto a suo padre. Poi, per volere o per forza tornerà a servizio, in una società, quella post-bellica, dove ormai l’aristocrazia è in decadenza, lo sfarzo è perduto, resta soltanto l’arroganza rancorosa del O tempora, o mores, perché il personale domestico non accetta più di essere trattato come un tempo. Anche davanti a questo, Margaret è capace di cogliere il dramma umano delle anziane dame appassite senza bisogno di compiangerle. Così come non indulge mai nell’elogio della buona povertà, sventando il rischio di uno sbnobismo al contrario, quello di chi alla fine è riuscito a farcela, a studiare filosofia, storia e letteratura ai corsi serali, ad ampliare la propria cultura, a diventare perfino una scrittrice, e guarda indietro con indulgenza, sentendosi appagata delle proprie esperienze e della dura gavetta. No, Margaret conserva intatto il suo sano odio di classe, e non accetta che la sua storia diventi esemplare e consolatoria: «Sono povera, ma non per questo fingo che ci sia qualcosa di meraviglioso nella povertà. Essere ricca mi piacerebbe molto».
Fino all’ultimo questa storia rimane una storia di lotta di classe e lotta di genere come fossero la stessa cosa (e in effetti lo sono) che diserta ogni parabola morale dickensiana e anche il fatalismo a la Hardy, ribadendo la semplicità e l’ineluttabilità del conflitto in una società iniqua, divisa tra piani alti e piani bassi.
«So che il passato è morto e sepolto; ora cose del genere non succedono più. Ma credo valga la pena di non dimenticare che accadevano», dice Margaret. Vale la pena infatti. Ricordarsi da dove si proviene, quale storia c’è alle spalle di ogni conquista sociale, ottenuta grazie a una spinta di affrancamento che viene dai piani bassi, assai più che dai padroni illuminati che vivono al piano di sopra.
In un’epoca in cui la retorica dominante afferma che esiste un unico interesse comune, che padroni e sottoposti sono sulla stessa barca e possono stare nelle stesse liste elettorali, la storia vissuta e narrata di Margaret ci testimonia e ci ricorda proprio il contrario. Se una ragazza poco più che adolescente, provinciale e incolta, si rendeva conto già negli anni Venti che il paternalismo padronale fotteva i sottoposti, quanto è più sciocco doverlo subire oggi e vedersi governati da gente che condivide la stessa retorica (e che in certi casi si reputa pure “di sinistra”).
Leggere un libro come Ai piani bassi, scritto quarantacinque anni fa da un’attempata signora inglese, dà la misura di quanto sia cambiato il mondo e al tempo stesso di quanto la lotta per la dignità e l’eguaglianza sia perennemente necessaria e non vada mai dimenticata. Altrimenti è certo che la stessa merda ricomincia da capo.

Scarica questo articolo in formato ebook (ePub o Kindle)


Wa che storia, io vivo a Hove e non ne sapevo una sega. Magari vado a cercare un memoriale o qualcosa.
[…] In un’epoca in cui la retorica dominante afferma che esiste un unico interesse comune, che padroni e sottoposti sono sulla stessa barca e possono stare nelle stesse liste elettorali […]
ok, grazie; quindi *narrativa* *italiana* *di oggi* è uguale a *narrativa italiana di oggi*, o no? (se posso chiedere, ovviamente).
N.B. Su Camilleri (sui suoi libri non-Montalbano) consiglio questo bellissimo pezzo di Srecko Jurisic.
@lacasinadelpittore: io il significato degli asterischi lo conosco, ma se ti può consolare, devo ancora capire come si fa a scrivere qui sopra in corsivo e in grassetto :-)
E’ presto detto :-)
Per il grassetto:
http://www.lapaweb.com/come-fare-il-grassetto-in-html.html
Per il corsivo, al posto di “b” metti “i”.
Si fa prima coll’asterisco :-)
Wu Ming 1, l’uomo che sussurava ai computer…
P.S.
Ora passerò tutto Bl pomerBggBo a scrBvere Bn corsBvo.
GrazBe.
Scherzi a parte, grazie per la dritta e per il link che ora vado a leggere.
Sarò ovvio ed off topic ma la realtà E’ che il marketing ha trasformato il mercato editoriale italiano prediligendo sempre più questi titoli dato che la nicchia dei lettori assidui è principalmente un pubblico femminile.