A una libreria mai nata

Spedizione ordinaria. 30 chili. 15 euro. Porte girevoli. Il tintinnio degli ultimi spicci e del resto. “Grazie, arrivederci”. Il sole ha disarcionato gli ostacoli ed ora inonda piazza Battisti. Più che normale, per un 3 agosto. Le porte alle Poste si aprono e si chiudono di continuo. Noi il nostro l’abbiamo fatto. Il pacco è stato consegnato all’impiegato. Nel pacco, la Libreria della Plebe. O, meglio, quel che ne rimaneva. Rispedita al mittente, in quel di Rimini. Resa immediata, con disonore. Derivante, quest’ultimo, dal non aver battuto chiodo da mesi. Una settantina di libri. Qualche novità risalente ad aprile, qualche veterano dalla copertina sbiadita, cotta dal sole di decine di banchetti. Feste di partito, sagre, concerti, dibattiti colti. L’irriducibilmente invenduto. I sovversivi del gusto, l’Autobiografia di Duke Ellington, il Rimario della Orecchio acerbo, I piedi per terra della Dromadaire, che ci ha tenuto compagnia per 6 anni. Da quando tutto è cominciato.
Da quei primi pacchi arrivati l’ultimo giorno utile di luglio. A.D. 2004.

Avevamo passato venti serate a scorrere, a setacciare i cataloghi di una settantina di case editrici. Besa, Datanews, Minimum fax, Frilli, Marcos y Marcos, Derive&Approdi, Baldini Castoldi Dalai. Selezionato 100-150 testi. C’era stata addirittura una festa. Special guest: Latente progettualità, avevamo scritto sul manifesto. Per i soli addetti ai lavori, per chi doveva capire. Perché c’era già chi, storcendo il naso, cercava varchi nella giungla dei finanziamenti pubblici alla microimprenditoria. Immaginavamo: un gruppo di verbosi marxisti da autogestione che libera un pezzo di lavoro e tira fuori un reddito dalla cooperazione. Certo, non avremmo sottratto la nostra libreria al mercato. Quello non riesce a nessuno. Ma, quanto meno, avremmo fatto parte di un nuovo inizio. Già ci vedevamo all’inaugurazione. E fino a quel momento sarebbe stata gavetta. Luminosa gavetta.

In macchina verso il primo appuntamento di strada – l’unico per il quale abbiamo effettuato un sopralluogo – il caldo afoso sopra e sotto la cappotta, Chiara chiede: “Quanti libri vendiamo, secondo voi?”; Lello le risponde: “Quattro, cinque, e potremo ritenerci fortunati”. Chiara inorridisce: “Quattro o cinque? Soltanto?”. A Manfredonia c’è la Festa di Liberazione. I banchetti sono di plastica, due. Oltre ai libri abbiamo magliette, spille, fanzine. L’ideale si alimenta anche di questi mezzi prosaici. Non abbiamo ancora finito di allestire la nostra postazione che un signore di mezza età, fresco reduce dai bagni di mare, si ferma incuriosito. Sfoglia, soppesa, poi comincia a infilarsi dei titoli sottobraccio. Due, tre, quattro, cinque. Il rituale “Chi siete?” apre le valvole ad un dialogo fluviale. I nostri sogni, i nostri progetti, finiscono alla mercé del primo venuto, manco fosse un confessore (e noi dei devoti cattolici). “Avete trovato un cliente, ragazzi”. È difficile descrivere l’aria di quel giorno, di quelle settimane, di quella estate. Un miscuglio elettrico di slanci, proposte, velleità. A Manfredonia vendiamo 13 libri. Dalla Storia di Cuba alla Breve storia del tarantismo. Forse, dopo tanto girare a vuoto, abbiamo imbroccato una strada aperta. Siamo euforici. Allacciamo rapporti, nuove amicizie, contatti. Isa gioca ancora coi diablo, Ceska si accolla l’onere di allestire il soppalco, che diventa colorato ed ospitale. Certo, finito l’effetto sorpresa, il primo stentato viavai dettato dal passaparola, sarà dura. Lo sappiamo. Gli intellettuali di questa città – quelli progressisti, col pedigree in regola – difficilmente accetteranno la location. Passare a sera, tra ragazzi e ragazze, birre e sigarette, per scegliere, ordinare, acquistare un libro, non rientra nei loro standard di Cultura con la C maiuscola. Ma siamo nel 2004. A Foggia esiste una sola libreria. Ci sono spiragli, c’è voglia. La voglia di non dipendere. E magari un colpo di fortuna, dopo tanto peregrinare, ce lo meritiamo pure. Andiamo a Salerno, a Lecce. Visitiamo librerie alternative, ascoltiamo pareri, ci confrontiamo. E poi Orsara di Puglia e il suo festival jazz, col suo target alimentato a pubblicazioni della Arcana e di Stampa alternativa. Pastorius & C. a cavallo tra luglio e agosto; Deliceto e i suoi ostinati operai comunisti, le lunghe serate di vino e brace, i libri su Marcos, Guevara, Genova; San Marco e il Mo l’estate; il Vulcanica di Rionero, i suoi skin, i suoi ultrà. La memoria di Valerio Marchi. Teppa. E poi l’Oda teatro, con quegli appuntamenti domenicali. Primavera, autunno, inverno. Due professoresse confabulano: “Loro sono i ragazzi di quella libreria di sinistra… Come, non li conosci?”. Ma, a conti fatti, siamo noi a non conoscerle. Dallo spaccio di via Pagano passano amici e conoscenti. Una coppia di giovani donne passa in rassegna l’intera esposizione: “Complimenti, ci vedremo spesso”. Meteore tagliano il firmamento della nostra determinazione. Un paio di aperture straordinarie ci accompagnano al primo Natale. E le speranze sembrano farsi concrete. In fila all’ufficio delle entrate, a registrare l’Associazione, a scrivere – nero su bianco – che i proventi delle vendite vengono reinvestiti tutti, fino all’ultimo centesimo, nella gestione del locale. Marche da bollo, nuova maturità. E tanta voglia di sbattersi, di crescere.

Nell’era preistorica delle email e dei contatti su MySpace, torniamo ai manifesti. Uscire fuori, riportare la cultura – per come la intendiamo noi – a confrontarsi coi contesti. Contattiamo De Michele, De Cataldo, Nanni Balestrini, i Wu Ming. Ad ognuno spieghiamo che non ci sono gettoni di presenza, non c’è gloria da monetizzare; c’è un sacrificio da compiere. Gli chiediamo di impegnarsi come noi per primi ci impegniamo. Offriamo pranzo, cena e pernottamento. E un rimborso spese per il viaggio. Accettano tutti, o quasi, e ci sembra incredibile. Le icone della cultura letteraria italiana spodestate da quegli altarini immaginari in cui noi stessi per primi – vittime della suggestione collettiva dell’intellighenzia – li avevamo posizionati. Marco Philopat arriva ai Tre Archi che sembra appena uscito da Matrix, Rovelli ci scambia per anarchici e si fa scorrazzare per le campagne del caporalato, Emilio Quadrelli si dichiara doriano davanti ad una torta macrobiotica. Pagine di Contrasto, le abbiamo intitolate queste Serate letterarie senza patrocinio. Non sono svago, masturbazione cerebrale. Sono serate di lotta, a modo loro. È il nostro modo di stare al mondo che sfila su quei palchi, tra quelle sedie. E il nostro modo è conflittuale. Ad ascoltare Nanni Balestrini c’erano quindici persone, a rendere il giusto tributo a Marco Amato neppure quelle. Ma si va avanti lo stesso. Quando una rappresentanza della comunità orsarese giunge a salutare il quasi compaesano Renato Curcio, quando Wu Ming 5 ci tiene all’oscuro della segreta respirazione per curare l’emicrania, quando abbiamo narrato dei segreti del pancotto a Daniele Biacchessi, o provato con ogni mezzo a far svegliare Cristiano Armati, sprofondato in un sonno dirotto. Immagini che restano.

Ma voi potreste eseguire un notturno su un flauto di grondaie?
Si, certo che si. D’altronde, abbiamo attraversato l’inizio del Millennio trasportando assi di legno e tavolacci, casse cariche e lampade da campeggio, oltrepassando piazze di paese in festa. Tagliato in orizzontale l’epoca d’oro della tarantella, dei folk festival che spuntavano come funghi e delle chitarre battenti di Carpino, dove la gente balla scalza e con le stesse movenze qualsiasi melodia. Sciamerebbe allo stesso ritmo se sul palco salissero gli Interpol. La signora si autoproclama francese, laureata alla Sorbonne. Non mettiamo in dubbio. Poi cerca un interlocutore valido per raccontare del suo amore viscerale per Matteo Salvatore e le sue ballate. Sull’argomento siamo scarsi, ma la signora ci vuota il banco lo stesso. Compra cinque libri, e immancabilmente ci congeda con un “Teniamoci in contatto” che sa più di straziante addio che di arrivederci a presto. Come sempre. E quelli che ci propongono reading, quelli che ci offrono quartetti d’archi e possenti spettacoli teatrali ancora semiclandestini. San Paolo Civitate, i Bisca, i Gang. 2005, 2006, 2007. E sempre la stessa domanda: “Ma voi chi siete?”. Come un film da compagnia sperimentale finnica, dove il protagonista non lascia traccia nella memoria acquosa dei suoi interlocutori. Ci invitano a Torremaggiore, a San Martino in Pensilis, a Lucera, a San Severo. In certi casi, siamo l’unica attrazione della serata. La benzina costa, la cassa langue. Ma compensiamo con un’indefessa opera di costruzione di ricordi. Che sono belli e unici, senz’altro, ma poco alla volta la pianta deperisce. E non possono impedirlo. Mancanza d’acqua. In sede passa sempre meno gente, finché il flusso non si spegne del tutto. Di quelli che c’avevano salutato come una manna dal cielo, neppure un numero di cellulare. Diventiamo un fenomeno estivo, che si stende come certi anziani prematuri tra fine luglio e i primi d’agosto. Come su un’amaca. Tutt’al più natalizio, da ultimo regalo alla vigilia. Nel frattempo, Foggia si dota di altre tre librerie, mentre una cede di schianto. Il mercato è saturo, ma poco male, giacché anche il più ottimista dei nostri aveva dimenticato da tempo le ragioni del 2004. Certo, il 35% di provvigione su ogni titolo venduto continua a farci comodo, a garantirci il tetto, a pagare Enel e Acquedotto Pugliese. E allora si va ancora. Si parte, si viaggia, si prova. Fino in fondo. Continuiamo a telefonare a casa degli autori, a chiedere impegno, a sedurre l’aspetto più idealista di ognuno di loro. 2008, 2009, 2010. Tornano i Wu Ming, ma è quasi un canto del cigno. Poetico, certo, come il finale di The Commitments, ma anche carico di un cupo realismo meridionale. E di insegnamenti altrettanto pesanti: per remare controcorrente c’è bisogno di saper durare. E capire quando bisogna affondare il colpo, rischiare il tutto per tutto al momento opportuno. Anche da soli. Ma senza capitali la difficoltà si fa esponenziale. Non ci è riuscita la capitalistica accumulazione primaria e gli intellettuali progressisti hanno continuato a scialare in centro, a parlare dell’insopportabile declino di certe case editrici, en passant.

Quando l’email ci ha ingiunti di fare fagotto, nessuno si è sorpreso. Nessuno si è opposto. Stanchi, sfiniti, sfibrati, tutti hanno compreso che era giunto il momento di staccare la spina. Di disporsi l’animo in pace. Di ascoltare le voci di dentro. “Non sono riusciti a salvare Nannucci a Bologna, che aveva una clientela, figuriamoci”. Giusto. Senza rancore. Ma quando l’amico d’amici, ai tavolini all’aperto di un bar, mi ha chiesto: “Vendete ancora libri al centro sociale?” – così, come si chiede che hai fatto stamattina, giusto per consumare qualche attimo in conversazione, dando per scontata la mia risposta – ed io ho risposto: “No, stiamo restituendo tutto”, davvero non mi aspettavo quella faccia contrita, quel dolore quasi fisico, quella fitta di autentica disperazione simulata: “Come no? E adesso dove andremo a comprare quei titoli che vendete solo voi?”, mi è risalita per intero la complessa argomentazione che fu dell’Einaudi, ai tempi della sua chiusura e dei pianti postumi dei clienti non acquirenti all’ottomana ricerca del Caffè letterario. Avrei voluto ricominciare daccapo. Mi sono concentrato, forzato su una mosca per alzare solo le spalle e non dare corda a quel provocatore involontario, che mai aveva varcato la soglia della nostra sede in sei anni di onorata carriera. Ma non è bastato. E solo alla riproposizione della domanda s’è fatta largo la vera risposta, quella risolutiva, quella epistemologicamente esplicativa, la sola che avrei dovuto dare dall’inizio, forse prima ancora di quel luglio 2004: “Eh, dimmi tu, dove andiamo?”. A fanculo, fratè. A fanculo.

Ma voi potreste eseguire un notturno su un flauto di grondaie?
Forse no, Vladimir, forse no. Ma è stato bello sopravvalutarsi. E la colpa, mettiamola così per stare tranquilli un po’ tutti, è del destino. Il destino. Del resto doveva, come tutto ciò che merita enfasi, finire con una spedizione ordinaria. Prima o poi.

da “Il Laerte” – se avete commenti, lasciateli in calce al post originale.

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One commento su “A una libreria mai nata

  1. […] di un libro è davvero “sentito”, quelle che purtroppo muoiono già come mosche, a volte uccise prima di nascere, e chi ancora resiste è campione di salti […]