Live in Pavia, 2010 (preceduto da alcune note sul “frattempo”)

Premessa: alcune cose che ci frullano in capo

Abbiamo parlato più volte, qui su Giap, della necessità di un “frattempo”, un tempo nostro, sfasato e autonomo rispetto alle aggressioni della cronaca, dell’opinionismo, delle storie tossiche, delle voghe culturali. Un tempo non ansiogeno, che accolga in sé e rallenti pressioni e sollecitazioni, e ne smorzi l’impeto per rielaborarle. Lavorare con lentezza. Questo per non ridurci, come dice Alain Badiou, a topi:
«Topo è chi, tutto all’interno della temporalità dell’opinione, non può sopportare d’attendere […] Topo è chi ha bisogno di precipitarsi nella temporalità che gli viene offerta, senza essere affatto in grado di stabilire una durata propria.»
L’aria è piena del suonar di pifferi che ci richiamano in quanto topi.  Topo è anche il “tuttologo”, chi si precipita a farsi un’opinione su qualunque fatto, per gettarla subito in pasto al mondo. Topi sono certi “attivisti da click” che aprono gruppi su Facebook su qualunque cosa accada e montano campagne immaginarie su pseudo-eventi. La rete è piena dei “fossili” di cose fatte in fretta e poi abbandonate. Topo è lo scrittore che risponde a domande su qualunque argomento, a prescindere dalla conoscenza che ne ha. Topo è chi non si prende il tempo di elaborare e riflettere.
La “tentazione-topo” si presenta tutti i giorni, quando hai un blog molto seguito. Alla vigilia di ogni post che non sia “di attualità” (a pensarci bene, che espressione insensata!), noi ci chiediamo: “Ma possiamo davvero non parlare della tal altra cosa?”, oppure: “Che impressione diamo se, mentre succede la cosa X e tutti se ne occupano, noi pubblichiamo un post su tutt’altro?”
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I minatori di San José e la fiction istantanea

[Oggi, sulle pagine de L’Unità, compare un articolo di WM2 a proposito dell’instant fiction costruita sulla vicenda dei minatori di San José. L’articolo è piuttosto breve (ci avevano chiesto 4200 battute) e riesce solo ad abbozzare un discorso molto più vasto, che vorremmo invece sviluppare con voi. Intanto, eccolo qui.]

Il ritorno dagli inferi dei minatori di San José – raccontato in diretta su tutti i mezzi d’informazione del pianeta – ha prodotto un corto circuito nella memoria di molti italiani over 35. In un unico evento mediatico si sono fusi e confusi due episodi centrali per la storia della televisione italiana: Vermicino e il Grande Fratello. L’ansia vissuta davanti al teleschermo per la sorte di Alfredo Rampi dentro un pozzo artesiano e l’attesa dei fan per l’uscita dei concorrenti dalla casa di Cinecittà. Riflettori accesi e pulsione di morte: da un momento all’altro la capsula di salvataggio dei trentatré minatori cileni poteva incepparsi e trasformare “la festa in tragedia”, con il conseguente dibattito sul cinismo dei giornalisti, già sviscerato sessant’anni fa da Billy Wilder nel film L’asso nella manica. Prosegui la lettura ›

Le bestie dalla Serbia, falso evento

di Wu Ming 5

Il Demos non sa che farsene della democrazia. Questo mi viene in mente se ripenso alle scene televisive di Italia-Serbia. Non sono Valerio Marchi, e le mie analisi tendono al generale, sempre. Non sono così addentro al “fenomeno ultras” da potermi spacciare per esperto, ero solo uno che andava in curva negli anni ’80. E’ proprio in questi frangenti che la voce di Valerio manca. Non che ci sia silenzio attorno alla vicenda. Anzi, c’è il frastuono. I titoli dei giornali: “Vergogna”, “Ecco le Bestie”. Le Bestie. Cioè quelli che portano fino in fondo il discorso imperante nel campo simbolico: identità, radici, essere-qualcuno, amico-nemico. Il medesimo discorso di molti partiti al governo in Europa. Mi viene in mente che parecchi dei nazionalisti serbi in azione a Genova devono essersi trovati, da bambini, sotto i bombardamenti democratici dell’occidente, cioè del Mondo. Non è un discorso giustificazionista: chi non comprende il nemico è destinato a soccombere. Vedete bene che qui, sì, il calcio davvero non c’entra. E neanche gli ultras. E’ utile quindi un sforzo di analisi, cercare il frattempo, riflettere, ragionare: tutte cose che non si possono fare sotto la spinta urgente della cronaca. Prosegui la lettura ›

Anteprima Stephen King: Notte buia, niente stelle

[WM1:] Sono reduce da un lungo tafferuglio, una lenta scaramuccia, una colluttazione durata sei mesi. Ho affrontato quattro novelle di Stephen King (in realtà tre romanzi brevi e un racconto lungo), cercando di rendere al meglio in italiano uno degli autori più “intraducibili” della letteratura nordamericana contemporanea.
L’antologia si intitola Full Dark, No Stars e non è ancora uscita nemmeno negli USA. In questi mesi sono stato tra i pochi al mondo ad avere tra le mani la bozza rilegata. Prima ancora era una risma di fogli A4, con tanto di annotazioni autografe dell’autore e, su ciascun foglio, la scritta verticale grigia “RALPH M. VICINANZA” (l’agente di King scomparso da pochi giorni a causa di un aneurisma cerebrale, RIP).
In Italia il libro uscirà tra un mese con il titolo Notte buia, niente stelle, e già su questo ci sarebbe un aneddoto curioso, un “appunto di traduzione”, ma ne parleremo a novembre.
La traduzione, come rimarca Umberto Eco nel suo Dire quasi la stessa cosa (2003), è sempre negoziazione: «per ottenere qualcosa, si rinuncia a qualcosa d’altro – e alla fine le parti in gioco dovrebbero uscirne con un senso di ragionevole e reciproca soddisfazione alla luce dell’aureo principio per cui non si può avere tutto.»
Tali “parti in gioco” sono numerose: il testo-fonte; la cultura in cui il testo è nato; il testo di arrivo; la cultura in cui verrà recepito; le consuetudini e norme redazionali della casa editrice; le aspettative dei lettori.
E qui c’è un nodo da sciogliere o da tagliare: per tanti anni, in Italia King ha avuto principalmente una voce, quella di Tullio Dobner. Prosegui la lettura ›

Una rivoluzione. Maometto, la poesia, la differenza, il potere

WM4 recensisce il romanzo di Kader Abdolah Il messaggero, Iperborea, € 17,00

Da un punto di vista a-confessionale le religioni sono un fatto storico, culturale. Sono portatrici di un messaggio definito dal corso degli eventi e dalle forze storiche che mettono in movimento, messaggio che anche quando viene canonizzato in un solo testo sacro rimane soggetto a diverse interpretazioni. L’Islam non fa eccezione, naturalmente, e tuttavia la vulgata mediatica e politica occidentale preferisce presentarlo come una religione afflitta ab origine da tare congenite, quindi immutabili.  Potrebbe anche bastare questa considerazione a riconoscere l’importanza di un romanzo come Il Messaggero, cioè il romanzo della vita di Muhammad, profeta dell’Islam.
L’autore, Kader Abdolah, iraniano di formazione marxista, ha osteggiato tanto il regime dello Scià quanto quello khomeinista, al punto da dover lasciare il proprio paese. Dal 1983 vive in Olanda e oggi è uno dei più noti scrittori in lingua olandese. Ma al di là della biografia politicamente corretta dell’autore, i meriti del romanzo non sono solo culturali, bensì prima di tutto narrativi.
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Il Socrate brasiliano nell’Italia degli anni ’80

Un’irreale progressione, come se l’attaccante galleggiasse su un cuscino d’aria, scarpe-hovercraft prive d’attrito. L’azione taglia l’area come un bisturi, caccia il pallone in fondo alla rete. Primo piano sul volto di un uomo assai lontano dalle misure antropometriche dei calciatori odierni. La Seleçao in festa. La nazionale che avrebbe fatto alzare in piedi Pertini raggiunta dopo un fulmineo vantaggio.
Per gli italiani è uno snodo centrale, che porta a uno dei momenti più tipizzati nell’esercizio dell’ossessione nazionale: il “come eravamo” condito in tutte le salse, meglio se dolciastre e fuori fuoco. I brasiliani invece ricordano quella partita come la “Tragedia del Sarrià”. Prosegui la lettura ›