da Carta, anno V n.11, 27 marzo / 2 aprile 2003:

IL MONDO E' PER STRADA

di Wu Ming


C'è un rischio da sventare, mentre le bombe cadono e i carri armati si fanno strada nel deserto. C'è un esorcismo da fare. È forse un imperativo psichico prima ancora che politico: resistere al rinculo del peggio sulle nostre menti. Evitare la depressione,la disperazione,lo scoramento. Difficile, quanto imprescindibile.

Il più grande movimento d'opinione, di idee e di corpi, della storia recente ha davanti a sé un compito titanico, di cui fin'ora si è dimostrato all'altezza al di là di ogni migliore aspettativa. Deve continuare ad esserlo. La guerra che l'amministrazione Bush e i suoi alleati ci hanno promesso,la guerra che hanno dichiarato al mondo,alle istituzioni internazionali, al movimento dei movimenti, non finisce in Iraq. È un progetto politico di lungo corso. Occorre quindi essere pronti a una lotta lunga e durevole, senza quartiere, tra due super potenze che usano armi e strategie diverse, opposte, e che segnerà indissolubilmente i primi decenni di questo secolo. La forza della ragione, della condivisione, del dialogo, contro la monodimensionalità del profitto, della guerra, dell'imposizione.

Coloro che sopravvivono alle guerre, che riescono a sconfiggerle semplicemente riuscendo a non soccombere, sono coloro che nonostante tutto non rinunciano alla vita. Sono quelli che restano convinti che tra uccidere e morire esista una terza scelta:vivere. Questo vale, sempre, anche per chi non ha bombardieri sulla testa. Anche per chi sta qui. E in tempi di guerra, vivere significa lottare tenacemente, se possibile ancora più di quanto si è fatto finora. Tenendo presente innanzitutto un dato rilevante: l'amministrazione Bush e i suoi alleati partono zoppi, mutilati. Partono soli.

Le lotte politiche e sociali di questi ultimi due anni hanno prodotto una discontinuità fondativa con l'ultimo decennio del secolo scorso. Il risultato è che, a parte un drappello di traballanti governi, nessuno al mondo avvalla la guerra di Bush. Per il semplice motivo che tutti hanno capito che è una guerra contro il mondo intero. Alcuni, quei pochi governanti straccioni senza più niente da perdere, hanno scelto di stare aggrappati al carro più forte. Hanno scommesso un cavallo texano, che promette ampie ricompense per gli amici, e vita dura per i nemici.

Noi dobbiamo scommettere contro. Perché l'amministrazione Bush ed i suoi alleati questa guerra la perderanno. Non perderanno in Iraq, non perderanno sui campo di battaglia. Militarmente sono i più forti. Perderanno perché hanno scelto di schierarsi da soli contro il pianeta. Il tempo che impiegheranno a perdere questa guerra dipende molto anche da noi. Dalla nostra capacità di non abbatterci e di continuare a pressare governi, parlamenti, consessi internazionali. Di sospingerli, condizionarli, compenetrarli dal basso. Di continuare a essere e a concepire per quello che siamo: moltitudine costituente di un altro mondo possibile e necessario.

Non solo, non basta. Concretamente occorrerà gettare badilate di sabbia negli ingranaggi della macchina bellica. Bloccare i paesi. Disertare la produzione.

Non basta. Dovremo continuare indefessamente a pensare e costruire modelli, esperimenti sociali condivisi, spazi aperti partecipati, battaglie di opinione culturalmente egemoniche. Ora più che mai. E dovremo farlo sfruttando lo spazio politico europeo,per la prima volta, dal 15 febbraio, popolato dalla società civile continentale e non solo da banchieri e guardie di frontiera. Questo spazio va usato tutto, quasi fosse una terra nuova da scoprire e da percorrere da capo.

Ancora non basta. I governi bellicisti sono già in bilico. Toccherà a noi dar loro la spinta definitiva. E questo vale anche per Bush junior,presidente grazie ai smaccati brogli elettorali e ancora presidente grazie all'11 settembre. L'America non è con lui. Dagli attivisti per la pace che vengono schiacciati dai bulldozer israeliani alle star strapagate di Hollywood, si respira solo disapprovazione per la sua linea di governo. Non c'è un intellettuale americano che si sia fatto reclutare per la sua crociata.

Missili piovono su Baghdad, edifici in fiamme dietro gli occhi sbarrati di un inviata mentre impazza la disinformazione di guerra. "Va tutto bene,va tutto bene, non si sente la puzza..", ridanciani salotti bellici spandono melassa,arruolano ogni sorta di leccaculo, accreditano ogni balla preconfezionata. Tutto inutile, il mondo è per strada, diserta la guerra catodica, va a incontrare i suoi simili nelle piazze, per pensare a qualcosa di meglio da fare, per trasformarsi nel più grande medium di massa che la soria dell'umanità abbia conosciuto. Non in nostro nome,e nemmeno in quello del loro presunto dio blasfemo. Isolati, disperati, pericolosi,seduti sopra la gigantesca polverina di una stolta volontà di potenza. Con accanto solo una parrucchiera, poverina, costretta ad un impossibili maquillage, e una telecamera a cui fare smorfie dementi prima di annunciare l'attacco..

Com'era quel motto?

"Voi 8, noi 6.000.000.000"


da Carta, anno V n.13, 9 / 16 aprile 2003:

LA VITTORIA IMPOSSIBILE

di Wu Ming 3

Si attende con il cuore in gola la battaglia di Baghdad. l'OK Corral è già fissato da tempo dai cowboys seduti nella stanza ovale, per la gioia dei loro colleghi che presidiano le redazioni dei mass media occidentali. Quando queste righe, parziali e insufficienti, raggiungeranno lo sguardo di chi legge, essa starà già infuriando (strada per strada, casa per casa, tombino per tombino?), addirittura potrebbe essere finita, a dar retta agli ottimisti (l'ottimismo necrofilo di analisti e commentatori). Non prima comunque di aver aggiunto altri carichi di orrore e indicibili sofferenze alla popolazione civile. Altre prove inconfutabili dello stadio paranoide e terminale di una civiltà morente.

Intanto la disinformazione imperversa. Tutto sta andando secondo i piani. Ma quali sono i piani?

I cowboys con le stellette e le decorazioni ci dicono di aspettare, di avere fiducia, qualche giorno, poche settimane, e tutto sarà finito, l'obiettivo raggiunto.
I cowboys assisi nella stanza ovale ci dicono di aspettare, di avere fiducia, un decennio, massimo due, e tutto sarà finito, l'obiettivo raggiunto.
Stanno parlando della stessa cosa, purtroppo. Dopo l'Iraq, la Siria e l'Iran, poi la Giordania, l'Arabia Saudita, l'Egitto, la Libia... Una grande Palestina per una grande Israele. Dobbiamo attendere e avere fiducia.
Ma l'attesa non è amica delle certezze, semina dubbi in proporzione alla sua durata, lascia dietro di sé domande che non giovano al morale delle truppe, quelle sul campo come quelle a casa, compresi i reggimenti dell'informazione che vanno a letto ("embedded") con l'esercito angloamericano.
E allora aspettiamo, lasciandoci travolgere dai dubbi, intercettando le domande inevase, provando a farle risuonare dentro noi stessi, e poi fuori.

Alla luce di quanto abbiamo visto e vissuto nel corso del secolo appena concluso, è ancora possibile "vincere" una guerra?
Eè almeno dalla fine della seconda guerra mondiale che le certezze, o le illusioni, di von Clausewitz - teorico dell'"arte" occidentale di fare la guerra, secondo i cui dettami sono state studiate e combattute le battaglie degli ultimi due secoli - si sono infrante contro l'evidenza di un mondo dalla realtà radicalmente e irreversibilmente mutata. Dopo Dresda, dopo Hiroshima, l'idea di una guerra combattuta solo da "professionisti", da eserciti in scontro molare, alla ricerca reciproca di una preponderante superiorità sul nemico, ha dimostrato per sempre tutta la propria tragica inadeguatezza. Eè ormai palese l'ipocrisia omicida dei sostenitori di un tecnicismo bellico e militare "asettico", impermeabile alla società "dei civili".
Anche l'altro pilastro teorico del discorso di Clausewitz, l'idea dello scontro campale decisivo, della battaglia definitiva che racchiude in sé le sorti della guerra, è andata in pezzi di fronte alle evidenze della storia recente.

Quando finiscono le guerre contemporanee? Quali e quante delle guerre combattute nel corso della seconda metà del XX secolo possiamo considerare concluse, in senso militare e politico?

Non la guerra di Corea, per cominciare da uno dei conflitti più antichi, che trascina le sue conseguenze da decenni e si ripropone sullo scenario internazionale come tappa futura, a tempo debito, di avvicinamento al grande scontro con la Cina.
Certamente non il conflitto mediorientale successivo alla formazione dello stato di Israele, che anzi sembra diventare modello di una possibile gestione della cronicizzazione della guerra. La guerra che diventa ambiente, quotidiano e abitato, dato di fatto, stato di cose che militarizza tutta la società e rifonda un patto sociale perverso sull'esistenza del nemico in casa.
Tutt'altro che conclusi possiamo dichiarare i mattatoi africani, disseminati in ogni angolo del continente e in ogni oscuro anfratto del nostro occidente. La penisola indocinese non smette di soffrire. India e Pakistan si fronteggiano tramite deterrenza nucleare, terrorismo e uno stillicidio di scontri quotidiani alle frontiere. I Balcani viaggiano su equilibri di cartapesta e omicidi mafiosi di capi di Stato. La Cecenia, l'Afghanistan, hanno endemizzato il conflitto in forme non più reversibili.
La prima guerra del Golfo, quella di Bush padre, ancora basata su uno scenario clausewitziano, la grande battaglia campale nel deserto, non portò alcun risultato per il solo fatto che Saddam non la riconobbe, disinteressato alle perdite materiali subite. Gli Stati Uniti, dal canto loro, non poterono terminarla, per non violare platealmente il mandato che l'ONU aveva affidato alla coalizione belligerante. Oggi, per provare a chiudere quel capitolo, si apre il vaso di Pandora del mondo all'indomani della rottura di ogni tipo di diritto internazionale.

Ma c'è una guerra che si è conclusa con verdetto e vincitori chiari. Quella che già molti chiamano la Terza Guerra Mondiale, temendo o auspicando che la Quarta sia appena iniziata: la Guerra Fredda, che ha informato di sé tutti gli altri conflitti militari, incorporandoli in una dinamica molto più complessa e stratificata. Ciononostante gli indiscussi vincitori dell'ultimo, e unico, conflitto conclusosi, sono più che mai alle prese con il lascito avvelenato di quella stessa vittoria: i nemici di oggi sono in buona parte gli amici di ieri (Saddam, Bin Laden), e d'altro canto i vecchi nemici ora alleati ("il mio amico Vladimir") tramano nell'ombra e giocano su tutti i tavoli leciti e illeciti.

Ne consegue che l'esito della guerra di oggi e la sua possibilità di analisi, appartengono molto di più alla concezione orientale, che vede la guerra come il campo dell'inganno più che della forza, dove si vince senza la battaglia decisiva, o addirittura si può vincere senza combattere affatto. Le teorie dello stratega prussiano vanno in pezzi di fronte alle evidenze di un mondo complesso e globalmente intrecciato, e con esse tramontano i loro assunti principali.

Dunque, la guerra non è "la prosecuzione della politica condotta con altri mezzi". La guerra è la guerra. Un'attività umana, la più efferata, e soprattutto una visione del mondo.

La rottura verticale del fragile ordine post-guerra fredda fondato sul diritto internazionale presuppone una volontà monocratica e imperiale, da parte di un pugno di golpisti texani, di fondare un nuovo ordine incardinato sulla paura e sulla guerra come visione del mondo, appunto.
Nel tempo in cui nessuna guerra può più essere vinta e tantomeno conclusa, quest'atto è da considerarsi almeno due volte criminale.

L'opposizione moltitudinaria e globale al conflitto in corso attira le ironie e gli sberleffi dei suoi detrattori "intelligenti" a causa dell'opzione pacifista intransigente, considerata irrealistica, ingenua, utopica e quindi dannosa. Non praticabile e non propositiva. Ancora un volta saranno costretti a ricredersi e a inchinarsi di fronte allo sguardo profondo di questo nuovo gigante che si affaccia sulla scena mondiale, capace da solo di cogliere l'essenza della realtà assemblando un miliardo di menti.
Il "realismo" del ripudio della guerra, come forma di consapevolezza rinnovata, come istinto di sopravvivenza della specie, apparirà ben presto l'unico antidoto possibile all'infezione mortale che si va propagando.

James Woolsey, ex capo della CIA con sicuri incarichi di governo nell'Iraq post-Saddam, ci preannuncia soddisfatto tre o quattro lustri di sangue. Chissà se è cosciente dell'inevitabile, tragica sconfitta cui corre incontro col ghigno del predatore.
Quanto a noi, moltitudine impaurita ma determinata, il tempo e le modalità di quella sconfitta, quanto sapremo esserne protagonisti e non vittime, sanciranno le condizioni della nostra sopravvivenza, e di quella del pianeta tutto.


da Carta, anno V n.14, 17 / 23 aprile 2003:

L'ALTRO NUOVO ORDINE MONDIALE

di Wu Ming 3 e Wu Ming 4

Davanti all'orrore delle immagini dei bambini mutilati, davanti alle notizie dei saccheggi, regolamenti di conti strada per strada, linciaggi, marines che sparano sui bambini scambiandoli per kamikaze, davanti a tutto questo è quanto mai grottesco sentirsi dire che "la guerra è finita". Vinta e finita.
Questo è soltanto l'assaggio dell'"afghanistanizzazione" dell'Irak. Ignoriamo (benché sia facile immaginarlo) quali potranno essere i costi umani e politici della gestione di questo "dopo" tanto sbandierato.
Il sospetto fondato è che lo ignorino anche gli stolti texani assisi nella stanza dei bottoni a Washington. Ovvero che non abbiano alcuna capacità di valutarlo.

I piani annunciati dall'amministrazione Bush per l'Irak prevedono un protettorato militare e politico, in grado di tutelare gli interessi statunitensi nella regione. Al fianco di generali-ministri americani dovrebbe essere schierata una batteria di diplomatici irakeni di ritorno dall'esilio, gente che non mette piede nel paese da oltre trent'anni. Teste di legno che offrano una parvenza di democrazia esportata. Lo stesso ruolo ricoperto da Karzai in Afghanistan, uomo immagine che di certo non governa il paese, e gira per Kabul (anzi, per la porzione di Kabul di cui potrebbe essere considerato a malapena il sindaco) scortato dai marines, onde evitare d'essere ammazzato per strada, come è già toccato a svariati ministri del suo governo fantoccio. Anche lì la guerra è finita. Anche lì la guerra continua.
Quello che Bush e i suoi sodali non sanno è che gli imperi coloniali non si costruiscono solo con la potenza di fuoco e la propaganda. L'ultimo impero, quello britannico, oltre che sulla preponderanza militare e su un'ideologia, contava sulla conoscenza. La gang dei texani no. Anzi, trasuda ignoranza da tutti i pori. Le conseguenze si vedono a occhio nudo.

Anche l'impero britannico si autoassegnava un ruolo civilizzatore per i paesi "arretrati". La retorica che guidò la sanguinosa conquista di mezzo mondo da parte degli inglesi non era tanto diversa da quella che viene sbandierata oggi da Bush & soci. Non si trattava di esportare la democrazia, ma la civiltà. Di offrire ai popoli vittime della propria stessa arretratezza la possibilità di entrare a far parte del mondo "civile". Lo chiamavano il "fardello dell'uomo bianco". Eppure non sono stati i cannoni di Sua Maestà ad aprire le tante "vie per Baghdad" agli inglesi. Quelli sono venuti in un secondo tempo. Gli apripista sono stati esploratori, avventurieri senza scrupoli, scaltri funzionari del Foreign Office. Gente come Livingstone, Burton, Lawrence. Gente che percorreva per anni i territori che poi sarebbero stati occupati militarmente o sarebbero diventati basi operative dell'esercito britannico. Profondi conoscitori delle aree del mondo di interesse strategico o economico, che cercavano di capire gli equilibri sottili tra le popolazioni locali, che imparavano a relazionarsi con esse, ne apprendevano la lingua, gli usi e i costumi, la mentalità. Sono stati i James Brook e i Lawrence d'Arabia a gettare le fondamenta di quell'impero.

Nel 1915, quando si trattò di sollevare le tribù beduine contro la dominazione turca per preparare l'offensiva inglese in Medio Oriente, Sir Archibald Murray, Generale per l'Egitto, fu escluso dalle operazioni militari in Arabia e in Mesopotamia perché lui e il suo stato maggiore "mancavano della competenza etnologica necessaria".

L'11 settembre 2001 in tutto il Pentagono c'erano solo tre persone che parlavano l'arabo.

Il progetto neo-coloniale texano marcia armato di una retorica "democratizzatrice" sempre più rarefatta, sempre meno efficace, e soprattutto che non si preoccupa di conoscere il mondo per dominarlo. Il "fardello" della lotta al terrorismo si riduce all'esportazione del terrorismo come nuova frontiera della politica economica. Come dire che alla macchina bellica, al gigantesco apparato militare-industriale (a capitale statunitense ma non solo), caduto ogni velo ideale, non resta che autogiustificarsi, rendersi evidente. Alla fine del suo percorso, il neoliberismo non teme di mostrarsi nella pienezza dell'origine e dello scopo.

I signori del petrolio e delle armi, dell'industria securitaria del XXI secolo, protetti per vent'anni dalla belle epoque del discorso e della pratica neoliberista, scoprono le carte e rifiutano ogni mediazione. La logica dell'"enduring war" è la risposta che danno gli avventurieri texani alle proprie paure, inorriditi dal profilarsi della fine della civiltà degli idrocarburi. Insieme a loro ci sono gli alleati raccattati dentro solidi interessi finanziari, oppure tra i residui della morente egemonia anglosassone, o ancora nell'innato servilismo di governi sempre più delegittimati, che nutrono la vana speranza di accaparrarsi piccole quote dei profitti di guerra.

La superclasse degli idrocarburi e delle armi, di fronte alla crisi, recessiva, endemica e strutturale, da essa stessa prodotta, tutela il proprio dominio imponendo come soluzione l'industria mondiale della sicurezza, e la necessaria creazione di un'enorme domanda che la sostenga. Trasformare la patologia in profitto. La paura come traino dell'economia capitalista del XXI secolo.

Il danno che costoro stanno infliggendo al pianeta non è calcolabile; il progetto, come ogni autocrazia tautologica, è destinato a fallire.

Bisogna evitare che le conseguenze e le ripercussioni, le "reazioni" suscitate dal dispiegamento di questo feroce apparato, assumano le logiche della deriva identitaria e militarista "anti-americana", nel nostro caso ad esempio la rinascita di un nazionalismo europeo "renano", capace di cogestire le dinamiche di guerra fredda. A quella logica occorre sottrarsi.
Ancora una volta l'antidoto che il movimento globale contro la guerra e il neoliberismo, per la dignità dei popoli, porta con sé fin dalla nascita, traccia l'unica rotta alternativa praticabile. Ingaggiare la lotta nel suo punto più alto, quello della rottura e della rifondazione di un nuovo ordine internazionale. Senza arroccamenti conservatori o passatisti, opponendo altri modelli di relazioni internazionali, dichiarando l'insostenibilità economica e ambientale del sistema che governa la produzione e la gestione delle risorse, e proponendosi di soppiantarlo, con nuove istituzioni, altri modelli di sviluppo, culturalmente meticci, e una nuova classe dirigente dei saperi bassi e del lavoro cognitivo. Una classe dirigente formatasi nelle periferie e negli slums di Bangalore o di San Paolo, che ha viaggiato in questi anni sulle autostrade e gli snodi della rete globale, da Seattle a Los Angeles, da Londra a Praga, da Seul a Sidney.

L'erosione del consenso dall'interno, il rifiuto della militarizzazione della vita, associato a quello altrettanto netto dell'ineluttabilità dello scontro tra culture e civiltà, costituiscono già l'"anticorpo" piantato nell'Occidente infetto al tempo del suo ultimo rodeo. Purtroppo tutto questo non è ancora sufficiente a garantire la salute del malato, tantomeno le conseguenze del contagio.

Non vi è alcuna possibilità di ricostituire ordini ed equilibri basati sugli esiti del secondo conflitto mondiale. Qualsivoglia atteggiamento "resistenziale", che guardi al passato e alla conservazione di equilibri e istituzioni inservibili, è inadeguato e perdente. Guardare il nemico negli occhi, porre lo sguardo all'altezza della sua sfida, è la sola disposizione che offra una chance a coloro che si propongono di affrontare un'armata di cowboys seduti su una montagna di barili. Il movimento globale è nato per questo motivo. La consapevolezza di questa realtà è l'origine stessa del movimento.

L'incapacità strutturale della sinistra, nel suo complesso e logoro viluppo, di stare al passo coi tempi e non incartarsi su ogni questione, va presa come dato irreversibile di un'istituzione anch'essa morente, la sinistra otto-novecentesca, che prova goffamente a traghettare pezzi, organi, brandelli di sé dentro un'epoca sconosciuta. Ogni ulteriore recriminazione sulle divisioni e le faide dentro e fuori gli ulivi e le loro vecchie segreterie, andrebbe considerata una perdita di tempo. Senza una trasformazione radicale, che ribalti fin dalle fondamenta i modi della riproduzione politica e finanche i suoi presupposti filosofici per adeguarli al movimento reale, non sarà possibile per quella compagine storica rientrare nel flusso degli eventi.

Il cuore pulsa altrove, nei sobborghi in fermento di Teheran e Buenos Aires. E' il respiro della mente globale ad alleviare gli effetti della catastrofe annunciata.


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