Un messaggio spedito da Wu Ming 1 sulla mailing list di Ya Basta! Bologna, il 28 novembre 2001, che non suscitò commenti né ebbe risposte.
Si trattava di una critica a quelle che erano solo le prime avvisaglie di un'involuzione linguistica (e quindi comunicativa e strategica). Tale involuzione riguardava quell'area del movimento che - abbandonato il simbolo aperto della tuta bianca - proprio in quei giorni si rapprendeva in una realtà organizzata ben precisa, i cosiddetti Disobbedienti.
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LINGUA DI LEGNO

...continuo la mia riflessione (auto)critica sul finire per credere alla propria retorica e sui "tic linguistici" che finiscono per diventare concetti. Ci tengo a precisare che negli appunti che seguono non parlo di cose "astratte": il linguaggio è produzione, è potere, è rete di relazioni, è stare-nel-mondo.

- "Disobbedienza civile"
- "Impero"
- "Disobbedienza sociale".
- "Disobbedienza" tout court.
- "Moltitudine"

Finché la parola "disobbedienza" era associata a "civile" rimandava all'idea di cittadinanza (la disobbedienza del cives) , a un percorso ben noto ai più, indicava il momento preciso in cui si decide di varcare il limite della legalità e inoltre, nella nostra particolare interpretazione dava al tutto una torsione "biopolitica", si sposava bene con l'espressione "Impero".

"Disobbedienza sociale" nasce come escamotage per raccapezzarsi nell'immediato post-Genova, è stato come posare una pietra miliare, segnare una discontinuità anche se non si aveva la minima idea di cosa ci attendesse.

Trovo discutibili il perdurare di quest'espressione, la sua graduale sostituzione con la parola "disobbedienza" senza attributi e il suo fissarsi come nome di un soggetto politico ancora tutto virtuale ("area dei disobbedienti").

Tutto questo è successo parallelamente al deteriorarsi dell'espressione "Impero", usata (sempre a sproposito) da tutti i commentatori, come sinonimo di "imperialismo", come metafora per lo stato-nazione USA, come metonimia per "l'Occidente" e chissà cos'altro.

Ciò che di buono aveva l'espressione giace sepolto sotto una discarica di cazzate. Forse non è nemmeno più utilizzabile come mito o metafora da contrapporre a quella della "moltitudine che disobbedisce". Perlomeno non nel modo zapatisteggiante a cui siamo abituati.

Tanto più che non c'è dicotomia tra impero e moltitudine. La seconda fa parte del primo. L'Impero siamo anche noi. L'Impero è anche l'erede (per quanto scriteriato) di secoli di estensione del diritto di cittadinanza.

Dal punto di vista retorico, la "disobbedienza" rimane priva di un'efficace polarità negativa.

Si disobbedisce al padre-padrone, o allo stato-padrone. E' un'espressione che riporta alla vecchia società disciplinare, che invece è diventata qualcos'altro, qualcosa di più sottile e integrato: la società del controllo, un fitto reticolo di classificazioni, controlli, autocensure, criteri di accettabilità, macchine che vedono. E' una società basata principalmente sulla biopolitica, ergo sulla prevenzione e la gestione a distanza dei corpi, dimensione che ingloba e metabolizza la repressione. Il comando è più subdolo, mellifluo, spesso è esso stesso extra-legale, o trans-legale (le nuove mafie ne sono l'espressione più avanzata).

Anche qui, il concetto di "disobbedienza" si ritrova a fare la boxe con la propria ombra.

Ma poi, chi è che "disobbedisce"?

Risposta: la "moltitudine".

Anche qui, la parola è ormai logora, è stata stiracchiata da tutte le parti per aderire a qualunque tipo di consesso, di aggregazione, di comunità e - ahime'! - di massa (che in teoria sarebbe il suo opposto). Personalmente, non riesco più a pronunciarla senza mettermi a ridere.

Anche perché la moltitudine, quella reale, non è fatta delle migliaia di persone che la evocano a ogni pie' sospinto, ma di milioni di persone che noi stiamo intercettando solo per caso, come il 10 novembre [manifestazione nazionale contro la guerra in Afghanistan, N.d.R.].

Insomma, la moltitudine non è certo quella del "laboratorio Carlini", che tutto era fuorché un laboratorio, visto che tra urgenze, acquazzoni, sovraffollamento, repressione e infine voglia di scappare non si è elaborato alcunché.

In francese esiste l'espressione "langue du bois", lingua di legno. E' il linguaggio ufficiale dello stalinismo del PCF (ma anche del PCI), coi suoi concetti sempre più vacui, fatto di richiami rituali a un "socialismo" senza contorni e a un "popolo lavoratore" di cui non si conosceva più la fisionomia. Un linguaggio che produceva continuamente anatemi e bislacchi epiteti infamanti ("opportunisti", "avventuristi", "estremisti", "deviazionisti" etc.)

Anche la vecchia Autonomia aveva la sua "langue du bois", fatta di "soggettività antagoniste", "ricomposizioni del proletariato metropolitano", "sussunzioni reali" e reiterazione ossessiva di slogans e immagini.

Negli ultimi dieci anni noi abbiamo dato alle fiamme quel linguaggio che allontanava l'esperienza.
Sarebbe assurdo sostituirlo con un altro non meno alienante.



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