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Cary Grant. L'attore, il mitoCARY GRANT. LO STILE COME ARTE MARZIALE
Conversazione con Wu Ming 1 (2005)

[Alla fine del 2004 partecipammo a un convegno internazionale di tre giorni su Cary Grant, al Museo Nazionale del Cinema di Torino, invitati da Giaime Alonge, docente del DAMS di Torino e sceneggiatore cinematografico.
L'intervista che segue ha avuto luogo via e-mail alcuni mesi dopo, ed è inclusa nel libro Cary Grant. l'attore, il mito (a cura di G. Alonge e G. Carluccio, Marsilio, 2006), che raccoglie atti e interventi di quel convegno.
N.B. L'8 novembre 2006 Giaime Alonge e WM1 hanno parlato di Cary e del libro alla trasmissione Hollywood Party di Radio Tre. Qui l'mp3.]


GIAIME ALONGE - Com'è nata l'idea di inserire Cary Grant in 54? Che cosa vi affascinava di questo personaggio?

CaryWU MING 1 - Il primo capitolo in cui compare Cary include una lunga tirata pseudo-storica e pseudo-teorica, una sorta di analisi marxisteggiante del mito-Grant e del suo valore per la lotta dei proletari. L'intento è satirico, è una parodia dei tentativi di ricamare sui motivi per cui ci piace qualcosa o qualcuno. Si tende ad avere del prossimo un'immagine bidimensionale, la faccia che il prisma rivolge verso di noi, non cogliamo la profondità, vediamo un quadrato dove c'è un ipercubo. Pretendiamo che l'Io di una persona sia unitario anziché frammentato, denunciamo le incoerenze, e a nostra volta cerchiamo di mostrarci coerentissimi, ogni elemento deve incastrarsi bene con tutto il resto. Se uno ci chiede: "Come mai uno come te, che ha ben presente i guasti di una certa ideologia stars & stripes, nondimeno ascolta Country & Western?"; oppure: "Ma se sei ecologista, come fai a dire che la tale automobile è bella?", la tentazione immediata è quella di "forzare" per ricondurre quella tua passione o preferenza sotto l'ombrello della tua ideologia. I "sovversivi" fanno i salti mortali per dimostrare che la musica che ascoltano è a sua volta "sovversiva", persone di sinistra che spiegano come portare le tali scarpe non sia affatto di destra etc. Il capitolo di cui sopra, dove un imprecisato narratore onnisciente sproloquia di Cary Grant, classe operaia, socialismo, è anche un'auto-parodia preventiva, abbiamo messo le mani avanti: quando ci chiederete perché abbiamo inserito Cary Grant in un nostro romanzo, noi vi risponderemo con qualcosa che somiglia a questo. Al contempo, esagerando e terminando con una frase di Marx stravolta in boutade ("In una società senza classi, tutti avrebbero potuto essere Cary Grant"), è come se avessimo diramato un avviso: non prendetela troppo sul serio, 'sta lettura. E' sensata, più o meno. E' suggestiva. Però è venuta dopo. Grant lo abbiamo inserito – cogliendo al volo un malinteso di Wu Ming 2 – perché ci è simpatico, perché ci intriga, perché ammiriamo il suo stile. Ho conosciuto il non-ancora-Wu Ming 4 undici anni fa, si era appena diplomato e stava per iniziare l'università. La prima volta che sono entrato in camera sua, sulla parete c'era un grande poster di Cary Grant. Non è la star che ti aspetti di trovare appesa sopra il letto di un diciannovenne. Ciascuno per i fatti suoi, abbiamo sempre ammirato le persone di stile, quelle che sapevano fare del proprio stile un'arte marziale. "Lo stile come arte marziale" è anche il nome di una rubrica che ho tenuto qualche anno dopo, su una rivistina locale. Spero che questa risposta fosse comprensibile. A scanso di equivoci, preciso che ascolto anche un po' di Country & Western, ma detesto le automobili e non sono mai riuscito a trovarle belle. Anche la più glamorous delle Lamborghini, mi sembra soltanto una lamiera triste e mortifera. Come? Qual era il malinteso di WM2? Beh, sfogliando una rivista dell'epoca, trovò un articolo sulle stelle del cinema preferite dalle lettrici. Al primo posto c'era Gary Cooper. WM2 scarabocchiò in fretta "G.C." sul suo quaderno. A distanza di qualche settimane, tornando sui propri sgorbi, lesse "C.G." e pensò: Cary Grant. Alla riunione ci disse: "L'attore più popolare tra le lettrici della tal rivista era Cary Grant". Illuminazione! Cary Grant! Procuriamoci film e biografie!

GA - Che tipo di lavoro di ricerca avete fatto su Cary Grant e in generale sull'ambiente della Hollywood dei primi anni Cinquanta?

WM1 - A Bologna c'è una "storica" videoteca, Balboni, che ha decine di migliaia di vhs. Abbiamo noleggiato una cinquantina di film di Grant e ce li siamo sparati tutti nell'arco di un mese. Abbiamo letto la biografia di Graham McCann (a cui dobbiamo l'interpretazione del personaggio), quella più pruriginosa di Higham & Mosley, e la biografia illustrata di Geoffrey Wansell (pubblicata in Italia da Gremese). Sono stati utili anche i libri autobiografici di David Niven, The Moon's a Balloon (titolo citato nel romanzo) e Bring on the Empty Horses, a dir poco esilarante. Su Hollywood, FBI e maccartismo abbiamo letto diverse cose, ma il libro più utile è stato Official and Confidential, la biografia di Hoover scritta da Anthony Summers. Nel frattempo, oltreché Hollywood, studiavamo anche Cinecittà: ci siamo procurati svariati film usciti nelle sale nel 1954. La reazione di Pierre vedendo al cinema Siamo donne è la stessa che abbiamo avuto noi vedendo il vhs.
E poi, era importante capire com'era vista Hollywood dall'Italia, e per quello c'erano i rotocalchi, e le pagine spettacoli dei quotidiani.

GA- Quali sono i suoi film che ami di più? Hai visto Il ribelle (più noto con il suo titolo originale None but the Lonely Heart) e, se sì, cosa ne pensi? Te lo chiedo perché si tratta di un film magari non pienamente riuscito, ma interessante dal punto di vista della questione delle origini proletarie di Cary Grant, che in 54 gioca un ruolo rilevante.

WM1 - Il ribelle non era tra i film disponibili da Balboni, a tutt'oggi non l'ho visto (è uno dei pochi) e non so dirti nulla sotto l'aspetto cinematografico. Di certo quel film metteva tutte le dita nelle piaghe più dolenti, tutte le biografie lo citano quasi come fosse un momento di autoanalisi. Quanto ai film dell'opus grantiano che amo di più, non sono pochi. Sicuramente – sarò banale – Caccia al ladro e Intrigo internazionale. Nel 2002, qualche mese dopo l'uscita di 54 in Italia, ero a Parigi al Beaubourg. Ad un certo punto ho visto che nel cinemino stava per iniziare Caccia al ladro, ho trascinato dentro la mia amica e l'ho rivisto per la millesima volta. Mi piace molto anche un film dei meno conosciuti, La gente mormora, con Grant che fa il ginecologo laico e largo di vedute, uno che di certo avrebbe votato quattro "sì" al referendum sulla procreazione assistita. Un altro che rivedo sempre volentieri è Un evaso ha bussato alla mia porta, quello con Cary attivista sindacale latitante. I film che mi fanno più ridere sono però Ero uno sposo di guerra e Operazione sottoveste. Trovo che il Grant cinquantenne sia più buffo di quello trentenne delle screwball comedies.

Frances FarmerGA - L'inserimento di David Niven nella storia è "naturale", nel senso che i due erano amici; a Frances Farmer, invece, come ci siete arrivati? Cary Grant, certo, ha fato film con lei, Alla conquista dei dollari, del 1937, ma non mi pare i due avessero rapporti stretti. Il parallelo che Cary Grant traccia tra l'esperienza di manicomio di Frances e quella di sua madre è una vostra invenzione?

WM1 - Sì, è un'invenzione, ma ha una sua plausibilità, magari stiracchiata ma c'è. L'idea di inserire Frances Farmer non ha a che vedere con Alla conquista dei dollari, film di cui ignoravamo ancora l'esistenza. Il "mezzano", nel nostro caso, è stato il drammaturgo Clifford Odets (regista e co-autore del Ribelle), che aveva avuto una relazione con Frances (nell'eponimo film con Jessica Lange viene dipinto come un personaggio spregevole) ed era un buon amico di Cary. Il resto viene da sé: il peso che l'istituzione manicomiale ebbe nella vita di entrambi (Cary con la madre ricoverata a sua insaputa, Frances con la sua personale discesa agli inferi), il maccartismo propriamente detto e il maccartismo ante litteram di cui Frances rimase vittima...

GA
- Come avete lavorato sui dialoghi di Cary Grant? Far parlare/pensare in maniera credibile un divo americano degli anni Cinquanta non è semplice. In alcuni passaggi si nota una costruzione della frase ricalcata sull'inglese. Avete anche studiato le battute dei suoi film, il suo modo di parlare?

WM1 - Non è facile nemmeno far parlare in maniera credibile artigiani-profeti e monaci proto-rivoluzionari del Cinquecento, o – come nel prossimo romanzo collettivo – indiani irochesi del Settecento. Occorre evitare il plateale anacronismo, ma è ancor più pericoloso l'eccesso di rigore filologico e mimesi linguistica, perché i dialoghi devono essere prima di tutto vivi, anche a costo di qualche piccola licenza. Scriviamo come ci suona giusto, la frase deve far sorridere l'orecchio. Nel caso del Cary di 54, si tratta di una persona depressa e in crisi di identità, eppure molto puntigliosa e facile all'esasperazione se si trascurano certi dettagli o non si rispettano certi piccoli rituali. Come parla una persona così? Con una cortesia screziata di impazienza e sarcasmo, che ogni tanto lascia il posto a brevi, contratte sfuriate. Ci abbiamo provato. La prova del nove sarebbe stata la traduzione in inglese, cioè... il ritorno alla lingua "originale". 54 è uscito in Gran Bretagna nel maggio 2004, e l'espressione più usata dai critici per definire il nostro Cary è stata «utterly convincing». Sono o non sono soddisfazioni?

GA - Torniamo un attimo all'analisi pseudo-marxista che citavi all'inizio. Certo, è autoironica, e sono assolutamente d'accordo sul fatto che cercare sempre di giustificare ideologicamente i propri gusti sia ridicolo, però quel passaggio (che, per inciso, trovo molto bello e che ho usato come chiosa del mio articolo, insieme – ovviamente – a una citazione di Marx: evidentemente sono caduto nella trappola) coglie anche in maniera assai lucida una questione molto importante: il vistoso spostamento a destra del cittadino medio degli Stati Uniti avvenuto nel corso degli ultimi trent'anni. L'idea di Cary Grant come «Homo Atlanticus: civile, ma non noioso; moderato, ma progressista» dà conto del fatto che l'America, prima della presidenza Reagan, anche sotto presidenti repubblicani come Eisenhower e in piena guerra fredda, preservava nel proprio DNA l'esperienza del New Deal e della lotta al fascismo della Seconda guerra mondiale. In qualche modo, il fascino di Cary Grant consiste anche in questo: nel suo essere così "remoto" rispetto a noi che viviamo dopo la "frattura storica" degli anni Ottanta.

Barry GoldwaterWM1 - Questo è il precario fondo di verità di quella specie di analisi in forma di cavalcata visionaria, per questo l'ho definita "sensata, più o meno". Noi non siamo grandi sostenitori della "innocenza perduta" dell'America, i "good ole days" della democrazia americana etc., per il semplice motivo che l'America non è mai stata innocente, le radici dell'albero erano putride già sul Mayflower, e si tratta una nazione costruita – come la casa stregata di Poltergeist – su un immenso cimitero indiano, nonché sulle fosse comuni degli schiavi e su strati e strati di ceneri di corpi linciati. Gli stessi miti delle origini (la rivoluzione, la dichiarazione d'indipendenza etc.) sono stati demistificati dagli storici, a partire dalla ricostruzione che ne ha fatto Francis Jennings. Detto questo, noi non siamo nemmeno "antiamericani", abbiamo scritto e parlato diverse volte contro la tentazione di prendere scorciatoie ideologiche. L'America è qualcosa di complesso, contiene grandi quantità di veleni e piccole ma importanti riserve di antidoti. Con gli occhi di oggi, il periodo "classico" di Hollywood (diciamo dalla crisi del ‘29 fino al discorso di Churchill all'ONU sulla "Cortina di ferro"), fu un periodo molto liberal, lo stesso Grant recitò in film come Incantesimo, il cui tema (appena filtrato da una nebbiolina rosa), era la lotta di classe, o il già citato Un evaso ha bussato alla mia porta (in quanti film successivi il sindacalista è l'eroe anziché il villain?). Il maccartismo chiude la parentesi, i primi anni '60 la riaprono, poi c'è un appariscente "spostamento a destra", un processo quarantennale che inizia con la candidatura di Goldwater contro Johnson. Goldwater perde la battaglia elettorale, ma pianta i semi per una nuova "rivoluzione conservatrice", dagli esiti pericolosi per l'America stessa e per le sorti del mondo intero.
Tuttavia, siamo sicuri che oggi, dietro la facciata, non siano in corso tutt'altri slittamenti, persone che si uniscono e si mettono in marcia in tutt'altre direzioni? E poi, non bisogna trascurare la "stickiness", l'aderenza di certi movimenti, idee, tendenze. L'universo culturale che qui in Italia abbiamo sempre chiamato "l'altra America" continua a resistere e riemergere. L'avanguardia del movimento operaio americano fu spazzata via poco dopo la Rivoluzione d'Ottobre (Valerio Evangelisti ci ha scritto il suo romanzo più bello, Noi saremo tutto), eppure il radicalismo americano non morì. Il maccartismo seminò il terrore, eppure pochi anni dopo già rinascevano movimenti di massa. Quei movimenti furono a loro volta spazzati via (Cointelpro etc.), eppure sotto la prima presidenza Bush Jr. abbiamo assistito a imponenti mobilitazioni contro la guerra, per la difesa dell'ambiente etc.

GA - Prima citavi McCann. Voi aderite alla versione di Cary Grant proposta nel suo libro, Cary Grant: A Class Apart, e non posso che concordare, perché certamente è la biografia più seria. Al momento del vostro lavoro per 54 non era ancora uscito il volume di Marc Eliot, ma immagino che tu non ne avrai una grande opinione (personalmente, mi è parso un libro stupido: la quintessenza della "biografia non autorizzata"). E aderite anche alla posizione netta di McCann circa le "voci" sulla supposta bisessualità di Cary Grant, che il biografo confuta con decisione, e che voi attribuite a una campagna di disinformazione orchestrata dall'FBI (a questo proposito, immagino che le "voci" su Hoover siano state uno spunto interessante). Ma al di là delle speculazioni sulla realtà della sessualità di Cary Grant, non avete preso in considerazione l'ipotesi di usare il tema della bisessualità per costruire il personaggio? Sarebbe stato un tratto in linea con la sua natura "schizofrenica": proletario e aristocratico, inglese e americano, Archie e Cary.

WM1 - Il libro di Marc Eliot è senz'altro stupido, e in più non aggiunge niente al corpus di opere su Grant. Il lavoro di McCann resta insuperato, una pietra miliare. In passato Eliot scrisse una lurida ma interessante biografia di Walt Disney, Hollywood's Dark Prince, libro che mio fratello vinse a un concorso telefonico di "Hollywood Party" su Radio 3 (dalla frase "Luccichi come la porta di un bordello" indovinò il film Il mio nome è nessuno di Tonino Valerii). Quel libro deve aver subito un boicottaggio, dato che in poco più di dieci anni è andato fuori catalogo in tutti i paesi, un po' strano, no? Forse Eliot, dopo la brutta esperienza, ha deciso di scrivere cose meno "sovversive".
Curiosamente, sul Guardian del 21 maggio 2004 è uscita una recensione comparata di 54 e del libro di Eliot. Il recensore, Chris Petit, concludeva che il "nostro" Cary è molto più convincente di quello della biografia. Riguardo alla seconda parte della domanda, non abbiamo dipinto Grant come un bisessuale per due ragioni: la prima era che volevamo prendere le distanze proprio dall'impostazione "scandalistica" di cui sopra, anche perché nel caso di Grant è poco interessante. Voglio dire, se mi parli delle scopate di uno come Errol Flynn, simpatico zozzone malato di satiriasi, coinvolto in attività loschissime, amico e complice (involontario, pare) di una spia nazista come Herman Erben, può darsi che io mi diverta, anzi, che mi scompisci dal ridere: la vita di Flynn sembra davvero uno dei suoi film di cappa e spada, in più ha scritto – più o meno di suo pugno – un'autobiografia (My Wicked, Wicked Ways) che fin dal titolo ha precisamente quel taglio. Archie Leach ha avuto una vita interessante, ma per tutt'altri motivi: il rapporto con la madre, il lavoro di "invenzione" del personaggio Grant, l'ossessione per l'autocontrollo e i dettagli, l'autogestione della propria carriera in un'epoca in cui gli attori erano marionette mosse dai padroni degli Studios... Noi abbiamo parlato di questo. La seconda ragione era che avevamo già in mano un personaggio complicatissimo, pieno di sfaccettature, difficile da rendere, schizofrenico, depresso, scettico, demotivato... Se ci avessimo aggiunto la bisessualità, altroché «utterly convincing»: non saremmo mai riusciti a dargli forma.

GA - Passiamo al tuo romanzo "solista" New Thing. Qui, al contrario di 54, non ci sono personaggi presi dal mondo del cinema, al di là di qualche in-joke, come l'inserimento di Lou Canova – da Broadway Danny Rose – all'interno dell'elenco dei cantanti italo-americani. Però, leggendo il libro mi sono reso conto dell'importanza del cinema, sul piano della scrittura più ancora che su quello dell'immaginario, per il tuo lavoro. D'altra parte, tu stesso, nella postfazione di New Thing, per descrivere il tuo modo di procedere utilizzi espressioni prese in prestito dal linguaggio cinematografico: "regista", "montaggio", "documentario". Si tratta di una semplice metafora, oppure credi che ci sia un'omologia reale tra certe forme di scrittura letteraria e il linguaggio del cinema (o, se preferisci, audiovisivo)? Personalmente, ho sempre un po' paura a usare parole come "montaggio" fuori da un contesto strettamente audiovisivo, perché temo si possa cadere in affermazioni generiche (ma lo fa persino Ejzenstejn, per cui …). In alcuni casi, però, il rapporto è realmente stretto.

cinepresaWM1 - E' molto difficile che oggi uno scrittore abbia influenze solamente – strettamente – letterarie. Anzi, direi che è proprio impossibile. La letteratura è un sottoinsieme del comunicare, intersecato con tutti gli altri sottoinsiemi e media che si descrivono e raccontano a vicenda: la prima idea per un romanzo viene leggendo un testo interessante apparso sul blog dedicato a un film tratto da un libro in cui è descritto un videogioco nel quale compare un fumetto in cui va in scena una pièce teatrale che è tratta da un libro ispirato a un fatto di cronaca ampiamente raccontato da giornali e tv attingendo a clichés tipici dell'immaginario cinematografico che ha origine nelle vecchie riviste pulp la cui prosa si ispirava alla "nera" di giornali e rotocalchi. La prima idea per un romanzo viene ascoltando una canzone che fa capolino in un film che si ispira alla vicenda capitata a un tuo vicino di casa che faceva una trasmissione alla radio e ha fatto un'inchiesta sul teatro in carcere. Il lavoro di chi narra non può non essere influenzato da tutti questi rimbalzi e retroazioni, e non parlo solo di argomenti, di contenuto. Per "prima idea" intendo anche la modalità espressiva, le tecniche che il narratore desidera acquisire, lo stile che vuole mettere in campo. Nel vedere un documentario o nel leggere un lavoro di storia orale, il narratore può sentirsi sfidato a imitare quel particolare montaggio, riproporre in un altro medium quel modo di porre gli argomenti, di rimbalzare tra presente e passato etc. Aggiungi a tutto questo che noi Wu Ming non abbiamo mai asserito di fare "letteratura" in senso stretto, ammesso che di tale senso "stretto" si possa parlare (io ho seri dubbi, in proposito). Noi abbiamo sempre detto che ci interessa la narrazione, l'atto del raccontare, quindi non facciamo troppe discriminazioni tra diversi media, diverse arti e diversi generi. Fin dai tempi di Q abbiamo sempre utilizzato una terminologia para-cinematografica, spuria, poco letteraria: "qui parte il flashback", "qui va la dissolvenza"... Scrivendo Q, paragonavamo l'eponimo deuteragonista a una macchina da presa sul dolly, che inquadra la Storia a volo d'uccello, mentre Gert/Ludovico era la camera a spalla, inquadratura in soggettiva, attraversa il caos della guerra di classe ad altezza d'uomo... Infine, la maggior parte delle influenze rinvenibili nei nostri romanzi sono più cinematografiche che romanzesche. Le lunghe "passeggiate" sul registro medio che ci sono in 54 (per capirci: i capitoli con Pierre e Angela) sono ispirate ai film strappalacrime dell'epoca, quelli di Raffaello Matarazzo, con Amedeo Nazzari. Va da sé che i capitoli "grantiani" traggono la propria atmosfera dai film che abbiamo visto, come anche i capitoli più spy-story e così via. Q doveva molto a Leone, Peckinpah e il Kurosawa dei chambara movies. Guerra agli Umani deve molto ai fratelli Coen di Fargo e Il grande Lebowsky.

GA - Rimanendo sul terreno del rapporto cinema/letteratura, ma spostandoci dalla questione dello stile a quella delle modalità tecniche di scrittura, vorrei soffermarmi sul fatto che voi lavorate anche con il cinema: avete scritto con Guido Chiesa la sceneggiatura di Lavorare con lentezza. Però, già nell'idea di una scrittura collettiva e anonima, che caratterizza il vostro approccio al romanzo, c'è, in qualche modo, un legame con la scrittura per il cinema. Infatti, il lavoro di sceneggiatura molto spesso è a più mani, e se certo non è anonimo in senso stretto, comunque non si tratta di una scrittura di tipo autoriale (l'Autore del film è il regista, i nomi degli sceneggiatori, anche se compaiono sui titoli di testa, lo spettatore medio non li conosce). Quali differenze e quali elementi di continuità trovi tra scrivere un romanzo e scrivere per il cinema?

WM1 - Noi, a parte il discorso sull'immaginario cinematografico e sul passing da un mezzo all'altro e da un linguaggio all'altro, siamo partiti avvantaggiati rispetto ad altri autori: col tempo abbiamo "rodato" una serie di metodi di scrittura collettiva non dissimili da quelli in uso presso gli sceneggiatori. Inoltre, la sceneggiatura l'abbiamo scritta insieme a Guido, che ci ha accompagnato lungo tutte le fasi. Detto questo, abbiamo avuto difficoltà, e nel risultato finale un po' si vedono. Al cinema certe piccole sfumature non te le puoi permettere, ad esempio non puoi affidare troppe cose a una singola battuta, a un sottinteso piazzato al momento giusto. Un film non è un libro, se senti che ti sei "perso" qualcosa non puoi rileggere un passaggio, tornare indietro, cercare la cosa che non ti torna. Ti faccio l'esempio di un dialogo cruciale di Lavorare con lentezza, quello tra carabinieri (il tenente Lippolis e il suo diretto superiore) che precede gli scontri di piazza e l'assassinio di Francesco Lorusso. Se uno in quel momento è andato a pisciare, o sta chiacchierando, non ha modo di avvertire il peso dei sottintesi e del tongue-in-cheek, e se si perde la frase: «Abbiamo carta bianca», la morte di Lorusso gli sembrerà avvenuta per puro caso. Da qui alcune critiche molto ideologiche al film, che ad alcuni è parso "sdrammatizzare", edulcorare quella morte. Non è vero, è una scemenza, ma l'errore di percezione deriva da un difetto di scrittura, dobbiamo farcene carico.
Analogo discorso per i mille dettagli che noi amiamo mettere in un libro, soprattutto dettagli e allusioni che noi chiamiamo "bombe a tempo", di cui pochi lettori si accorgono alla prima lettura. Esplodono se e quando rileggi. L'ispirazione è la celeberrima scena dello specchio in Profondo rosso, l'agnizione che rende il film memorabile. La prima volta passi di corsa, vedi ma non t'accorgi. La seconda passi e senti un "click!" nel cervello, tutto acquista un nuovo senso. Anche Lavorare con lentezza è pieno zeppo di dettagli, piccoli particolari, allusioni, battute a effetto ritardato... Solo che, come dicevo, non stiamo parlando di un libro. Se non li cogli la prima volta, non è detto che avrai voglia di rivedere il film.

(c) 2006 by Marsilio Editori s.p.a. in Venezia


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