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Salvate il soldato Lawrence

di Wu Ming 4
da L'Unità del 26 ottobre 2004

Salvate il soldato Lawrence. Dopo settant'anni di dibattito sulla sua figura, davvero non meritava di essere buttato sul mercato editoriale senza nemmeno due parole di accompagnamento. Spedito fuori dalla trincea senza nessuno a coprirlo. Fior di carriere critico-letterarie si sono costruite o infrante davanti al mito di Lawrence d'Arabia, e forse quando un editore sceglie di pubblicare un testo come Rivolta nel deserto, datato 1927, una prefazione sarebbe cosa buona e giusta. Non l'ha pensata così Il Saggiatore, limitandosi a poche e imprecise righe nel risvolto di copertina e a una striminzita nota biografica (dove, tra l'altro, la fatale uscita di strada con la moto diventa un incidente «automobilistico»). Un corollario che ignora completamente decenni di dispute, in cui sono stati coinvolti nomi come George Bernard Shaw, Richard Aldington, Robert Graves e molti altri. Anzi, Il Saggiatore ci ripropone l'immagine edulcorata del corsaro del deserto, come uscì dagli uffici della propaganda bellica inglese negli anni Dieci-Venti. Tant'è che le tre righe di commento in quarta di copertina sono affidate a Winston Churchill.
Che dire? Decisamente un'operazione editoriale dal gusto retro. Peccato davvero, perché abbiamo a che fare con una delle figure più controverse e interessanti della prima metà del XX secolo, immortalata da un famoso colossal di David Lean nel 1962, Lawrence d'Arabia.
Nella sua vita Thomas Edward Lawrence (1888-1935) è stato molte persone diverse. Un giovane studente oxfordiano con il pallino dell'Oriente; un apprendista archeologo; un viaggiatore on the road; un cartografo del Foreign Office; un ufficiale di collegamento dell'esercito inglese e un consigliere militare dei principi arabi. Infine una leggenda guerrigliera, trasportata dalle oasi del deserto fino alle pagine dei giornali occidentali. Inviato presso i capi della rivolta araba contro la dominazione ottomana, con il compito di controllarli e consigliarli, Lawrence finì con l'innamorarsi della causa dei beduini e fare di testa propria. Tra il 1916 e il 1918, insieme ad altri ufficiali inglesi, svolse il ruolo di agitatore e organizzatore della guerriglia araba contro l'impero turco. Ruolo su cui biografi e storici non hanno mai trovato un punto d'accordo. Sì, perché Lawrence ci mise del suo a ingigantire il proprio operato, collocandosi al centro dell'azione e della storia. Non solo durante la guerra, ma soprattutto dopo, quando cominciò a scrivere le sue memorie, rivelando un indubbio talento letterario. Il suo opus magnum, I Sette Pilastri della Saggezza, è stato oggetto delle critiche più feroci e delle esaltazioni più sfrenate. Verità o leggenda autocelebrativa? Un po' entrambe le cose, forse. Quando leggiamo Lawrence non siamo davanti al testo di uno storico, né a una cronaca obiettiva. I Sette Pilastri della Saggezza è un'opera epica, forse l'unica prodotta nel XX secolo, rispetto alla quale non ha senso chiedersi quanto ci sia di «vero», almeno quanto non ce l'ha chiederselo per l'Iliade.
Così come è difficile pretendere di risolvere la scissione psicologica che dà fascino alle pagine di Lawrence. Gli inglesi illudevano gli arabi, promettendo loro l'indipendenza post-bellica, in realtà già compromessa dagli accordi segreti tra le potenze dell'Intesa. Lawrence si mosse in un campo minato, ondeggiando tra l'obbedienza ai superiori e il volersi vedere come liberatore degli oppressi. Rimase sempre in bilico tra mitopoiesi e mitomania, soggetto di una leggenda utile a spaventare il nemico e a tenere alto il morale dei combattenti, ma pronta a risolversi nel suo contrario quando i giochi si fossero chiusi. Ne risultò un ruolo shakespeariano, in chiaroscuro, con il deserto come palcoscenico. Le interpretazioni più «psicologiste» sono arrivate anche a sostenere che l'eroe si fosse inventato tutto, in preda a un delirio frustrato di protagonismo, raccontando la storia come avrebbe voluto che andasse. Se così fosse, ci troveremmo davanti a una follia geniale.
Eppure è difficile crederlo, visto che oltre alle belle pagine, Lawrence ha prodotto una delle teorie della guerriglia più originali di tutto il pensiero occidentale. Teoria che può essere nata solo da un'esperienza sul campo, a prescindere dall'importanza del ruolo storico dell'autore. Lawrence ipotizzò una guerra senza battaglie, senza spargimenti di sangue, basata sull'invisibilità e sulla negazione dei bersagli al nemico. Una guerra senza morti, senza disciplina, senza eserciti. Una guerra priva della dialettica della guerra. Non si accontentò di ribadire la differenza tra guerra regolare, fondata sull'idea di linea, da attaccare o difendere, e guerriglia, basata sulla discontinuità, sull'attraversamento delle linee per sabotarne il tracciato. Disse qualcos'altro: la vittoria, secondo lui, si doveva piuttosto a un'azione intellettiva che militare, a un cambiamento di prospettiva, che non impegnava la forza del nemico, ma la aggirava e la vanificava. Non si trattava di espugnare i capisaldi nevralgici tenuti dall'avversario, ma di modificare la strategia complessiva per renderli di secondaria importanza. Rifiutare lo scontro e spostarsi altrove, lasciando il nemico a difesa di un luogo divenuto inservibile. Incidere di continuo le vie di rifornimento per rendere l'apparato militare avversario sempre più oneroso da mantenere, fino al collasso.
Per i sostenitori dell'idea lineare della guerra questa era un'eresia inaudita, se non altro perché negli stessi anni costoro stavano conducendo il macello generalizzato nelle trincee francesi e tedesche. Chi era questo studentello mascherato da beduino che osava contraddirli, sostenendo che i combattenti non dovevano morire, che non esistevano uomini sacrificabili, che ogni singolo portava un contributo insostituibile all'azione collettiva e doveva condividerla col cuore e con la mente? Chi era questo impudente che descriveva una rivolta come «uno sciopero nazionale» e sosteneva che cercare di reprimere una rivolta con la guerra era come «mangiare il brodo con il coltello»?
L'eretico Lawrence spiegò le sue idee in vari scritti, anche in Rivolta nel deserto, che è la sintesi dei Sette Pilastri, uscita con alcuni anni d'anticipo. Incalzato dagli amici e dagli ammiratori, Lawrence si risolse a dare alle stampe la cronaca delle sue avventure belliche in una versione più asciutta di quella finale. Un resoconto in cui già si avverte, almeno nello stile, la tentazione letteraria: scrivere un romanzo autobiografico come fosse un'epopea ribelle. Proprio in quelle pagine si trova la descrizione di un famoso capo beduino che calza come un guanto all'autore stesso: «Egli vedeva la vita come una saga. Tutti gli eventi erano significativi, tutti i personaggi a contatto con lui eroici. La sua mente era ingombra di poemi che narravano di antiche scorrerie o di epiche battaglie». Un'attitudine che di per sé non fa di Lawrence il Napoleone del deserto, come volevano i suoi ammiratori e la propaganda di stato, ma certamente uno strano, originale, incrocio tra Ulisse e Omero.

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link Wu Ming 4, Sui fiumi di Babilonia. Appunti sulla teoria della guerriglia di T.E. Lawrence (2003)

linkJunto a los ríos de Babilonia. Apuntes sobre la teoría de la guerrilla de T. E. Lawrence

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