Da "Il giornale di Vicenza", Giovedì 25 Gennaio 2001

Il romagnolo che combattè in Laos
Ospiti di Interzona due dei cinque Wu Ming (ex Luther Blisset) che, con Vitaliano Ravagli, hanno scritto «Asce di guerra»

«Asce di guerra», ovvero storia di un romagnolo che negli anni '50 ha combattuto in Laos a fianco delle schiere di Ho Chi Minh: una storia incredibile trasformata in un caso letterario con sapienza da parte di un gruppo di cinque autori «opachi ai media, trasparenti per i lettori». Il che, in soldoni, significa che i cinque preferiscono non dichiarare i propri nomi (peraltro stampati sul risvolto di copertina del libro), raccolti sotto lo pseudonimo Wu Ming (in mandarino «senza nome»), che non si fanno fotografare o riprendere, ma che sono facilmente contattabili via internet (www.wumingfoundation.com). Ostili ai media e ai «cronisti culturali» rifuggono da un «divismo alla Baricco», essendo in realtà coscienti che ne costruiscono uno speculare, fatto di questa opacità e di questo velo di mistero che si scopre solo di fronte a quel pubblico che si prenda la briga di andare a incontrarli alle presentazioni del libro che avvengono qua e là per l'Italia. Anche grazie ai media, il loro precedente romanzo «Q», scritto quando in quattro avevano lo pseudonimo Luther Blisset, ha venduto 80.000 copie; per «Asce di guerra» (Marco Tropea editore) siamo già a quota 15.000, orgogliosamente raggiunta principalmente grazie al tam-tam dei lettori direttamente incontrati.
Due dei cinque WuMing sono stati anche a Verona, ospitati da Interzona alla Stazione frigorifera agli ex magazzini generali, insieme a Vitaliano Ravagli, il sesto autore-protagonista, un imolese di sessantasei anni che non ha difficoltà a dichiarare il suo nome. Ci hanno spiegato come è nato questo strano sodalizio e come si scrive un romanzo a dodici mani: Vitaliano Ravagli ci ha messo la sua storia; gli altri cinque autori hanno scritto una o più scene ciascuno, tutti hanno partecipato alla revisione di ogni scena per dare unitarietà stilistica al tutto. «Un po' come per le scenografie cinematografiche», spiegano.
Tv e cinema non sono in effetti così lontani: anche la costruzione del romanzo, fatta di continui salti spazio-temporali introdotti dalla didascalia che spiega data e luogo in cui si svolge la scena, ci ricorda la fortunata serie televisiva «X-files» che di questo strumento ha fatto la sua bandiera. Non a caso alla fine troviamo i titoli di coda.
Salta fuori una storia italiana sotterranea, fatta di gente qualunque che in nome di un ideale e di una rivoluzione che non riesce a fare entro l'arco alpino, imbraccia le armi e abbraccia altre cause; di ignoti gruppi politici che organizzavano gli espatri clandestini, in uno scenario violento sotto la facciata del benessere che si andava lentamente costruendo, uno scenario ancora più crudo di quello che certo neorealismo cinematografico e letterario ci hanno raccontato, andando a scoperchiare la pentola di fortissime tensioni sociali di cui i più giovani non sono coscienti e i più vecchi si sono forse dimenticati. Anche se noi crediamo che siano pochi a pensare che l'Italia degli anni '50 fosse quella di Peppone e Don Camillo. Anche se nella fiction la realtà storica prende a volte tinte sfocate.
Vitaliano Ravagli è assolutamente autentico nella sua parlata romagnola, nel suo linguaggio da uomo semplice, alla ricerca di valori per cui valga la pena vivere e combattere. Tanto quanto tutto ciò che dice di aver vissuto risulta assolutamente «scollato» dall'immagine che ci si può fare di lui dopo averlo sentito raccontare la sua versione dei fatti, nella concitazione dovuta all'emozione che ancora tutto ciò gli suscita.
Incalzato da una falsa dichiarazione di morte imminente, fattagli nel 1994 da un medico un po' distratto, Vitaliano Ravagli si decide a pubblicare la sua esperienza in un paio di libri che restarono senza divulgazione e quindi senza successo.
Avviene l'anno scorso l'incontro con i Wu Ming, già al lavoro per altri percorsi sulla storia degli anni '50, che decidono di dedicarsi alla stesura della sua vicenda. E sono loro che, fatte le indagini storiche del caso, assicurano la veridicità del tutto, avendo creato anche il necessario contesto storico e introdotto la debita parte di fiction, rendendo il tutto indubbiamente affascinante.
Ma Vitaliano Ravagli è sinceramente preoccupato dal solo fatto che le sue vicende servano da monito alle nuove generazioni, perché non si ricaschi più negli orrori della guerra. Allo stesso tempo dichiara che, se tornasse indietro, rifarebbe tutto ciò che ha fatto, anche se tutti quei morti nella foresta laotiana lo perseguitano ogni notte negli incubi che non lo lasciano riposare. E questo getta un po' di confusione nel suo messaggio che vorrebbe essere pacifista ma ammette che si debba correre in difesa dei poveri e degli oppressi mitra alla mano.
Eppure ci sfiora il dubbio, dopo i tanti errori di valutazione occorsi nella storia, che non sia sempre così facile distinguere i buoni dai cattivi: Vitaliano non ha dubbi, e non ebbe dubbi nemmeno allora, nel 1956 quando, dopo anni di sofferenze e di povertà, di guerra e di ingiuste persecuzioni inflitte dai fascisti e dai loro eredi, decise di sfuggire alla naia e di partire per il Laos su un tupolev scalcinato.
Identificando i fascisti più in generale con i cattivi, (nella sua accezione «fascista» non ha necessariamente il colore nero, ma solo quello delle azioni persecutorie contro i più deboli), partì perché gli avevano detto che laggiù c'erano fascisti da combattere, e il suo odio verso questa categoria si era talmente ingigantito da non essere più contenibile.
Se per la giovane età durante la guerra non aveva potuto essere partigiano, ora voleva rifarsi. E rifarebbe tutto, così come allora tornò per una seconda volta, nel '58, in Laos. Nonostante gli incubi, l'odio è stato più forte, lo stesso da cui Ravagli intende metterci in guardia.
Camilla Bertoni