Da Sabato Sera, settimanale imolese, 14 ottobre 2000

[intervista accompagnata dall’annuncio “Ecco le Asce di guerra – Sta per uscire il libro di Ravagli e Wu Ming[…] e dalla pubblicazione in anteprima del capitolo “Sentieri dell’odio: compagnia di disciplina”]

Vitaliano Ravagli e la storia di un libro atteso
“La gioia per il mio libro è nell’angolo della copertina”

Vitaliano Ravagli era un bambino quando il fronte di guerra gli tagliava la casa e la vita in due. Bombe, fame, malattie, a devastargli la vita, come quella della sua famiglia, della madre, del padre, delle sorelle, dei fratelli. Montagne di odio salivano nel suo cuore, più alte delle colline sul Senio da dove tedeschi e fascisti gli picchiavano sulla testa. La fine della guerra non era stata una liberazione, anzi. Il suo odio era stato amplificato da un comunismo che non arrivava, da un comunismo che non aiutava i deboli, lui e la sua famiglia. Ma la spingeva ancora di più lontano dal mondo.

E per lui scattò il tempo della vendetta. Una corsa disperata verso un mondo più povero.

“Scelsi l’Indocina e il Laos per aiutare un popolo più disastrato, per fare un socialismo come lo immaginavo, un socialismo che combattesse la fame, le malattie, il freddo, gli incubi che io avevo e anche il disprezzo della gente verso la mia famiglia, una famiglia tbc. Posso capire coloro che quando mia madre mi mandava a fare la spesa da Ada, prima del bar Gelo, uscivano o si mettevano un fazzoletto davanti alla bocca, temevano il contagio. Ma le istituzioni no, non le capisco. Erano peggio dei funzionari della Repubblica Sociale. Mia madre andava dal podestà e minacciava di scrivere a Salò, Mussolini aveva voluto che lei facesse dei figli ora doveva aiutarla ad allevarli. E il podestà qualcosa ce lo dava. Ma gli altri, quelli venuti dopo, non ci ricevevano nemmeno. Nessuno a Imola, delle istituzioni, aveva fatto nulla per noi. Aveva fatto di più la Repubblica Sociale.”

La montagna di odio saliva e l’odio lo spinse a percorrere sentieri inesplorati.

“Quando mi dissero se volevo uccidere dei fascisti non ci pensai due volte e salii su un aereo per farmi addestrare nei campi in Afghanistan da comandanti cinesi o russi. Io ero lì per creare un socialismo nuovo, come lo avevo sognato io, come me lo avevano descritto molti amici. Dove prima davano da mangiare ai bambini, poi gli altri. Andai via dalla rabbia. Capivo che andavo a morire, ma la delusione del dopo fascismo, del mondo cooperativo che non mi aiutava era troppo forte.”

L’odio per le brigate nere era il primo, il più forte, ma c’erano anche altre mani a spingerlo su quell’aereo con destino ignoto, molto probabilmente di morte. E l’aereo partì due volte, nel ’56 prima, nel ’58 dopo.

Ma queste storie erano già finite sulla carta di un libro, anzi di due. “Il prato degli uomini spenti” e “I sentieri dell’odio”, usciti nel 1998, sono le memorie vere di Vitaliano Ravagli. “Asce di guerra” è qualcos’altro.

Ravagli era arrivato a scrivere i primi due libri autobiografici per un giuramento comune fatto con i compagni di guerra in Indocina e con il suo comandante.

“Al comunismo si andava con i palmi delle mani voltate in basso, mi disse il comandante Chiu Li, un mio istruttore cinese. A lui avevo promesso che avrei raccontato, testimoniato in qualche modo”.

Ma il rispetto per quel giuramento era passato per sentieri contorti.

“Quando mi dissero che avevo poco tempo per vivere ho iniziato a scrivere. Ma non avevo paura di morire, avevo solo fretta di raccontare. Quando cominciai a scrivere il mio angelo custode era Ferruccio Montevecchi, che forse qualcosa sapeva della mia storia, forse aveva captato dei discorsi di mio padre e di mio fratelo Domenico. Quando gli portai i primi due capitoli mi disse di continuare. Gli dissi che quando avessi finito di scrivere, mi sarei ucciso, perché volevo morire con onore, come un guerriero. Ma vicino a me c’era soprattutto Loretta Federici, una persona che seppe ascoltarmi e a cui raccontai tutto, chiedendole di continuare eventualmente la mia storia se non avessi potuto finirla. Quando sembrava finita il dottore, grazie a dio, disse di essersi sbagliato. Quasi un po’ mi dispiacque, la morte era un sollievo che aspettavo. Ma dovevo vivere e sarei vissuto.”

Avrebbe vissuto non una vitua nuova, ma sicuramente diversa da prima. Ora il tempo della memoria era finito. Era il tempo di cercare una nuova via per esprimersi, il sentiero dell’odio lasciava il posto al sentiero della scrittura. Il nuovo libro non è una testimonianza, non è solo la sua storia, dentro c’è anche la creatività e la fantasia.

“Il libro che esce la prossima settimana è una rivincita sociale. Ci sono degli scrittori noti, un editore che ha rischiato il suo denaro per raccontare le mie storie, c’è gente che mi ha creduto. Ora gli incubi mi vengono ancora a trovare la notte, ma non hanno più il volto di mio figlio, la cantina in cui scendo non si chiude ma esplode e si apre.”

A dargli possibili chiavi per aprirla sono state tante persone. Su tutte Ravagli ricorda l’editore, Marco Tropea.

“Mi ha detto, ‘Vitaliano, lascia che rimaneggiamo la tua storia, tu l’hai già raccontata nei tuoi libri’. E’ un uomo a cui voglio veramente bene, è un imprenditore con una forte idea di sinistra che ha fatto un’operazione editoriale in cui crede. Ed è uno di parola. Io ho accettato di raccontare la mia storia anche purché si parlasse degli eroi della 36esima brigata, persone sconosciute, morte miseramente. Da Teo a Bob, morto di tbc perché rifiutò di andarsi a curare in Cecoslovacchia, a E Fator. Questi erano alcuni dei miei amici di allora.”

Tropea è un amico di oggi. Come lo sono i Wu Ming.

“Voglio bene a questi ragazzi, li sento un po’ miei figli. Sono comunisti, hanno studiato, vanno a lottare dove c’è da prenderle, come di recente a Praga fra i manifestanti contro la globalizzazione. Mi piacciono e sto in pensiero per loro quando si buttano in queste mischie […] Loretta è più emozionata di me per l’uscita di questo libro. Quando ha avuto la copia staffetta, la prima copia del libro, ha pianto, e io ero contento per la sua gioia, più ancora che per il mio libro.”

Ravagli, l’uomo che per l’odio ha sfidato la morte in una foresta del Laos, uomo che per il grande amore verso la sua famiglia ha vissuto una storia unica, uomo dai grandi sentimenti, esagerato, improvvisamente diventa moderato, contenuto nelle sue espressioni. Possibile?

“No, sono felice di questo libro. Ma dentro quelle 376 pagine di me c’è soprattutto quel pezzetto di Linea Gotica, sulla copertina, in basso a sinistra.

Paolo Bernardi


Asce di guerra
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