da "Il giornale" del 25 giugno 1999, pag. 33:

Romanzieri usa e getta
I giovani scrittori italiani sono troppo spesso sopravvalutati da una critica compiacente.
Alla prova dei fatti si rivelano fenomeni che durano una sola stagione finendo presto nel dimenticatoio. Con qualche eccezione.

Giuseppe Conte

Come sempre nella letteratura italiana, anche oggi è nel campo della poesia che si vedono semi di rinnovamento del linguaggio e della visione del mondo: basti pensare alla ricognizione della nuova poesia fatta da un critico giovanissimo e già così maturo come Giampiero Marano in quel suo mirabile La democrazia e l'arcaico, appena pubblicato dall'editrice Arianna. Ma i nuovi poeti, e penso a Garzia, Galzio, Bramati, Tonelli, Ponzio, Marangoni, Scandroglio e altri ancora, non sono sotto i riflettori e lavorano in un silenzio fecondo. Invece i nuovi romanzieri sono continuamente in mostra, e gli editori ne vanno a fare retate a Reggio Emilia, poveri loro, dove annualmente si radunano sotto il patrocinio di vecchie cariatidi degli anni Sessanta come Barilli, Guglielmi & co.
Il romanzo italiano ormai sembra non appartenere nemmeno più alla letteratura: è un oggetto di consumo usa e getta, e giovani romanzieri vengono ogni stagione artificialmente inventati, pubblicati e pubblicizzati, recensiti e premiati, incoronati con le corone di plastica dello Strega o del Campiello e subito dopo gettati nella spazzatura: chi si ricorda più, ad esempio, del giovane Barbero, cui toccò qualche anno fa una simile sorte? Ma ci sono le eccesioni, di romanzi giovani e importanti: io ne sto leggendo due in questi giorni, con reazioni diametralmente opposte: l'uno mi entusiasma, l'altro mi deprime.

TRA IDEE FORTI...

Quello che mi entusiasma è Q di Luther Blissett, il nome sotto cui si celano quattro incursori elettronici, autori di azioni sediziose via Internet ispirate al situazionismo. Q, edito da Einaudi, è un libro di 651 pagine in cui il protagonista, uno studente tedesco del XVI secolo, attraversa con baldanza e vitalità fremente la Riforma di Lutero, la rivolta contadina di Thomas Muntzer, la caduta di Munster e la persecuzione degli anabattisti, l'espansione europea della banca Fugger, sempre dalla parte degli emarginati, dei rivoltosi, degli sconfitti, mentre il suo contraltare e segreto nemico Q, spia al soldo del papato, tessitore di inganni e di tradimenti, infiltrato subdolo e responsabile di tante rovine, invia dispacci al cardinale Carafa in una specie di controcanto pacato e insinuante. Alla fine il protagonista deve diventare lui cacciatore, esporsi per fare uscire allo scoperto Q, conoscere la sua identità.
Entusiasmo non è una parola eccessiva per una prova narrativa così, il linguaggio è robusto, la costruzione ardita, il ritmo incalzante, le idee forti. Da una parte recupera la grande tradizione ottocentesca del romanzo d'azione ma, saltando tutto il piagnisteo psicologico-memorialistico e tutta la estenuata prosa d'arte del Novecento, si presenta come un romanzo totalmente nuovo, fresco, pieno di aperture sul futuro. E poi, cosa per me decisiva, è un romanzo che agita idee: non dico che abbia una tesi da sostenere, ma certo ha un tema enorme da dibattere: il contrasto tra ribellione e istituzione, tra movimento e stabilizzazione, tra vitalità rivoltosa e autorità mortifera, tra passione erotico-intellettuale e denaro. Contrasto vivo nel XVI secolo come oggi, tra noi.
Il romanzo che mi deprime è invece City di Alessandro Baricco, edito da Rizzoli. In Q ci sono luoghi, tempi, azioni, personaggi, destini, idee. In City niente, assolutamente niente di tutto questo. O forse non riesco a vederci niente io, e lì è la causa della depressione. Qual è la "città" del titolo? In Q si riconoscono Muenster, Anversa, Venezia e Istambul nel sorprendente finale. Qui la città è senza nome ma anche senza volto, senza luci, senza carne, senza sangue, senza pulsazioni: non una città simbolica come quelle "invisibili" di Calvino, ma una città di carta, una confezione mentale non rigorosa, ma con i tratti dell'informe, dell'ameba.
 

... E PERSONAGGI DEBOLI

I personaggi, il ragazzo prodigio Gould, la telefonista Shatzy Shell, Diesel, Poomerang, come chiamarli personaggi? Non hanno fisionomia, non compiono azioni che abbiano un senso, non hanno nessun destino e nessuna idea da esprimere. Non ci sono eventi, in City, o solo eventi di secondo grado, meta-eventi, un antico incontro di boxe, una specie di western. Sintomatiche certe invenzioni lessicali: i verbi "nondire" e "non pensare"; infatti il libro di Baricco è imperniato su un nichilismo irresponsabile e su un arbitrio simile a quel blando delirio di onnipotenza concesso dalla virtualità.
Niente è vero, in City, non c'è nessuna idea, nessuna forma: l'insensatezza del mondo diventa non più un dramma livido e fosco, come in Beckett, ma un narcisistico videogioco. Dentro Q di Luther Blissett io corro: l'inseguirsi del protagonista e del suo nemico mi ricorda quello di Jean Valjean e del poliziotto Javert dei Miserabili di Hugo. In City mi perdo. Non trovo nessun punto di riferimento, nessuna via di uscita, mi sento addosso la mefitica, purulenta miscela di insensatezza e di ossido di carbonio cui è oggi ridotta la vita nelle città occidentali. Q è un libro ribelle, e non a caso termine con uno sguardo fuori dell'Occidente. City è un libro conservatore, e si intorce nel nichilismo tipico della nostra civiltà allo stremo. Da questo il successo di Baricco, e la sua importanza sintomatica.
Non posso che ridere di Fofi, che ha esaltato il Baricco degli esordi per poi attaccarlo livorosamente al momento del successo: mica è diverso, a parte le copie vendute, di cui a un critico non dovrebbe importare nulla. E non posso che compiangere Siciliano, che nonostante l'età e il potere raggiunti, ha dovuto dedicare a City una recensione che è tutta un untuoso, gelatinoso esempio di gesuitismo reticente e ipocrita. Baricco è un tenero e arrogante giocoliere del nulla, in sintonia con un clima dominante, con la regressione narcisistica e infantile tipica di parti cospicue della nostra società. Per questo, e per quel che vale, gli preferisco di gran lunga Luther Blissett, il cui gioco è chiamare alla ribellione, alla libertà senza freni, alla passione della verità, anche se inconoscibile.