"Chissà se abbiamo risposto alla domanda..."
Due interviste dell'autunno 2004

Intervista a Wu Ming sul n.9 di Cem Mondialità, rivista di educazione interculturale, novembre 2004.

IL NARRATORE SI SIEDA IN CERCHIO CON CHI ASCOLTA
intervista ai Wu Ming

L'esperienza di Luther Blissett, vostro precursore, nasce all'insegna della beffa e della guerriglia mediatica, facendo proprio il presupposto di Sun Tzu (L'Arte della Guerra) per cui è “possibile agire dentro il sistema della comunicazione massmediatica, combattendolo con le sue stesse armi” (Totò, Peppino e la guerra psichica 2.0, Einaudi ). Vi riconoscete ancora in quei presupposti?

Non siamo mai stati dei teorici o dei filosofi dei media. Quel che abbiamo fatto, abbiamo creato momenti di critica pratica dei media e del loro funzionamento. Giocoforza, lo abbiamo fatto usando dei media. Esiste forse qualcosa o qualcuno al di fuori della comunicazione mediatica? Oggi non esiste vita associata senza i flussi di informazione veicolati dai media (vecchi e nuovi). Non solo è "possibile" agire dentro il sistema: è inevitabile. Il sistema è sistemico, appunto: ci siamo dentro, ci ingloba, ci in-forma. La strategia di resistenza e contrattacco è acuire la crisi nei rapporti tra informatori e informati, tra produttori e consumatori, tra vertice e base, tra alto e basso, tra emittenti e riceventi, tutte queste dicotomie che stanno saltando per aria, grazie allo sviluppo di nuove tecnologie e nuovi comportamenti collettivi, nuovi strumenti e coordinate spazio-temporali, i blog , le reti peer-to-peer, gli sms usati per organizzare manifestazioni spontanee... Accade sempre più spesso che un flusso d'informazione emanato da un potere costituito si perda nelle reti, si interrompa o si contorca per tornare al mittente senza aver ottenuto il suo scopo o avendo ottenuto quello opposto. Molte persone e comunità sono al lavoro per decodificare, demistificare, sbugiardare, sputtanare. E tutto questo non avviene in un indefinibile "fuori": avviene qui dentro.

Luther Blissett aveva un nome e un volto (anche se virtuali e ingannevoli), Wu Ming ha perso entrambi ("this revolution is faceless", si legge nella vostra home page). Qual è il senso che sta dietro la scelta di por termine all'esperienza Luther Blissett con tanto di suicidio rituale?

Wu Ming un nome ce l'ha: "Wu Ming". Wu Ming è il nome di un gruppo di cinque persone, come "The Beatles" era il nome di un gruppo di quattro persone etc. Wu Ming ha anche cinque volti, perché le persone hanno un volto. È la rivoluzione antropologica in corso (ne abbiamo appena citato alcuni scampoli) che non ha un volto, nel senso che non ha star, non ha divismo, non ha un leader, è impersonale come la particella "si": si sta facendo una rivoluzione . Luther Blissett è una possibile antropomorfizzazione di questo processo, era il bandito sociale che è "tutti e nessuno", che incarna provvisoriamente i desideri e le aspirazioni di una moltitudine. Tutti possono essere Luther Blissett, eroe popolare dell'epoca di Internet, semplicemente adottando il nome e siglare così il passaggio all'azione. Noi lo abbiamo fatto per cinque anni, poi abbiamo smesso, ma il nome continua a essere usato, nella Rete e in diversi paesi, in Spagna, in Brasile... L'esperienza a cui abbiamo posto termine è la nostra, quella dei "pionieri", dei veterani dell'utilizzo del nome. Era previsto fin dall'inizio, si trattava di un piano quinquennale.

“Tutto è racconto e i racconti sono di tutti” affermano Wu Ming 2 e Wu Ming 4. Noi di Cem, sostenitori della necessità di una “pedagogia narrativa” ci sentiamo particolarmente in sintonia con questa affermazione. Ha senso parlare di una “svolta narrativa” della vostra esperienza e con quali intenti viene sviluppata? Pensate che possa avere un risvolto pedagogico o didattico?

Anche ai tempi del Luther Blissett Project creavamo e raccontavamo storie. La differenza è che allora le allestivamo sul palcoscenico del mondo, le portavamo per le strada e poi le spacciavamo ai media, scoop avvelenati che venivano divorati dai giornalisti come bacche misteriose, che poi provocavano loro crampi allo stomaco e all'intestino. Le nostre sceneggiature avevano un numero esorbitante di personaggi e attori, molti dei quali inconsapevoli. Quindi siamo sempre stati narratori, erano diversi gli strumenti. Oggi ci concentriamo su una dimensione più specifica del narrare, e lo facciamo come mestiere. Ci consideriamo dei cantastorie. Raccontare ha sempre un valore educativo (o dis-educativo, dipende dai punti di vista: ciò che è considerato educativo da un antirazzista è il massimo della dis-educazione concepibile da un razzista, etc.), noi tutti educhiamo o dis-educhiamo noi stessi ventiquattr'ore su ventiquattro per mezzo di storie, storie raccontate in treno, al bar, a scuola, di fronte al distributore di caffè dell'ufficio, sugli spalti di uno stadio, all'oratorio. La nostra vita non sarebbe vita senza le storie, gli aneddoti, i pettegolezzi, le barzellette, i ricordi, le favole e tutto ciò che ci raccontiamo l'un l'altro. Raccontare è l'atto sociale primario e primordiale.

“È narratore (o narratrice) chi racconta storie e rielabora miti, insiemi di riferimenti simbolici condivisi - o comunque conosciuti, e quand'è il caso messi in discussione - da una comunità”. Così l'incipit del Preambolo della vostra Dichiarazione dei diritti (e doveri) dei narratori. In che modo le figure del mito e del simbolico rientrano nella vostra esperienza?

Prima di tutto, va detto che rientrano nell'esperienza di tutti gli umani. Vale lo stesso discorso di prima: non c'è vita associata senza mitopoiesi, non c'è comunità senza dimensione simbolica. C'è un modo di dire molto diffuso e molto scorretto: "Ha solo un valore simbolico". Quel "solo" è del tutto inappropriato, perché il simbolico ha un grandissimo valore, il valore simbolico di una cosa eccede spesso il suo valore d'uso e quello di scambio. La bandiera della pace non protegge nessuno da missili e bombe (è solo tessuto acrilico, non può attutire colpi), il digiuno volontario della vittima non crea danni fisici al carnefice (semmai li produrrebbe il digiuno forzato del carnefice), eppure esponiamo la bandiera, facciamo gli scioperi della fame, questi atti producono effetti nella dimensione simbolica, possono minare consensi, far provare vergogna, indicare una condotta come sconveniente, attirare l'attenzione sulla necessità di una sanzione sociale, e quindi possono avere conseguenze materiali. Il lavoro di un narratore consiste nell'esplorare costantemente la dimensione simbolica, capirne e farne capire il funzionamento, inventare o comunque raccontare storie che smuovano e facciano vivere l'insieme dei simboli.

Il titolo del nostro dossier è L'arte di apparire, affermazione che vorrebbe essere problematizzata. (Le apparenze ingannano? L'apparenza è l'ultima verità? Scomparire è un'arte in un mondo di apparenze? Scomparire per essere più presenti?) Come vivete la dicotomia apparire/scomparire?

"Trasparenti verso i lettori, opachi verso i media". Siamo sempre presenti, ci siamo ma non "compariamo" (nel senso che non facciamo comparsate). Non andiamo in tv, se possibile evitiamo di essere fotografati. La collocazione naturale di chi racconta storie è: seduto in cerchio insieme a chi le ascolta. Oggi invece l'immagine pubblica dei narratori si pone d'intralcio, nel mezzo tra le storie e il loro pubblico. Si vede prima l'autore (con tutto l'ingombro che crea) e poi la storia che racconta. Si vende il divo, e in subordine il libro o il film del divo. Tutto questo, da un punto di vista mercantile, avrà pure la sua ragione d'essere, ma non è il rapporto che ci interessa instaurare.

Potreste sinteticamente parlarci dell'esperienza di scrittura collettiva? Come vi siete organizzati per scrivere, per esempio, un testo come Q? Il collettivo dei cinque Wu Ming riceve apporti da collaboratori, diciamo così, esterni?

Qualunque scrittore riceve costantemente apporti da collaboratori esterni, che costoro ne siano al corrente o meno. Nessun narratore, anzi, nessun essere umano può astrarsi dal mondo che lo circonda. Un narratore che fosse isolato dal mondo esterno non avrebbe nulla da raccontare. Siamo nodi di una grande rete, la rete della specie umana, che comprende i vivi, i già morti e i nascituri.Ne riceviamo, elaboriamo e ri-trasmettiamo messaggi. Nei libri di uno scrittore trovi le cose che ha sentito alla tv, la telefonata che ha ricevuto, un ricordo di sua madre, il primo amore, la più grande figura di merda, la caricatura di una persona che gli sta sulle balle, etc. Uno scrittore è una spugna, assorbe e la devi strizzare. Nel nostro caso specifico, è ovvio che abbiamo delle metodologie, che però cambiano anche radicalmente da libro a libro. Dipende da cosa vogliamo raccontare, dipende dalle fonti consultabili, dal tempo a disposizione, dall'assenza o presenza di uno di noi, dagli strumenti che utilizziamo. Un libro costruito col registratore richiede un metodo diverso da uno costruito consultando microfilm. Poi c'è la divisione dei compiti, ma è tutto aperto e reversibile, non c'è specializzazione.

Un film, Lavorare con lentezza (insieme a Guido Chiesa), e un libro, Tre uomini paradossali (di Girolamo De Michele, da voi scoperto), che leggono da punti di vista diversi, l'esperienza del movimento del '77. Il 1977 ha continuato a “lavorare” in maniera carsica all'interno della storia sociale italiana. Il suo potenziale mitopoietico può ancora parlarci?

Cum grano salis, diremmo di sì. I nodi affrontati da quell'insorgenza sono gli stessi che affrontiamo oggi, e anche i due periodi, in superficie, si somigliano: c'era la crisi energetica, e oggi c'è la crisi energetica, peggiore di quella di allora perché quella era congiunturale, oggi è al 100% strutturale: chiudi gli occhi e il petrolio non c'è più. C'era la stagflazione, e anche oggi c'è la stagflazione - ma nessuno lo ammette, perché l'economia capitalistica non ha strumenti efficaci per affrontarla. Ieri si parlava di austerity, oggi le menti più lucide ammettono che è necessaria una decrescita. Ieri si "sfondava" per non pagare ai concerti, oggi i cd costano troppo e i ragazzi li scaricano gratis dalla Rete. Etcetera et cetera. Chissà se abbiamo risposto alla domanda...

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Intervista a Wu Ming 3, tratta da teatrioffesi.org, rilasciata a Pescara il 6 ottobre 2004 in occasione dell'anteprima di "Lavorare con lentezza".

Secondo autori come Benasayag e Schmit viviamo nell’epoca delle “passioni tristi” caratterizzata da blocchi emozionali, depressione pervasiva ed ansia per il futuro. In tal senso possiamo notare la contrapposizione con il ’77: questo periodo viene ricordato dai partecipanti del movimento di allora come un’epoca di passioni gioiose ed emozioni travolgenti. Secondo te come si interconnette oggi la liberazione della positività e della creatività nell’esistenza con l’azione politica?

Non sono un ottimista in generale, non è una forzatura quella che sto per dire ma una cosa che sento nei confronti della nuova generazione. Sicuramente esiste una quota devastante di sofferenza che attraversa tutti gli strati sociali e generazionali, ma io vedo anche segnali, qualità, fenomeni significativi che sono attualmente in corso e dei quali non si riconosce la possibilità di trasformazione del reale.
A differenza dell’idea di rivolta del ’77 che veniva al termine di un ciclo di lotte di almeno dieci anni, questa generazione viaggia in assenza di padri, anzi in rimozione, e non si può non tenerne conto per fare una genealogia e quindi un’analisi sensata.
Veniamo da venti anni di individualismo e competizione, viviamo in una società che isola, classifica e divide, e che fa dell’atomizzazione del corpo sociale una delle principali strategie di controllo.
Soprattutto per la generazione degli anni ’80 si può parlare di un imprinting che agisce come meccanismo interno del quale non si ha neppure coscienza. Credo che una delle principali via di fuga da tale situazione in cui ognuno si sente imprigionato e incapace di reagire sia da ricercarsi nella cura del sé, del proprio corpo e della propria dimensione esistenziale.
Tuttavia quello che è successo da Seattle fino ad oggi dimostra che è già stato possibile sottrarsi ad un automatismo di passività e disillusione e di aprire percorsi collettivi in grado di incidere materialmente sulla realtà. Credo che sia sempre più urgente liberarsi di una dialettica di tipo oppositivo vincolata ad una logica di scontro frontale e legata a vecchie pratiche, per attuare alternative in grado autonomamente e immediatamente di divenire costituenti.

La creatività essendo una delle qualità principali dell’intelligenza collettiva e può divenire, come nel ’77, un mezzo comune di liberazione. Nonostante ciò essa viene spesso sussunta dal sistema e trasmutata in strumento di profitto. Come fare ad evitare questa forma di vampirismo?

Esatto, come nel ’77 l’ondata creativa non ha fermato la reazione governativa, la ristrutturazione, la precarizzazione delle esistenze , la modernizzazione selvaggia, anche oggi centodieci milioni di persone in piazza non bastano a fermare la guerra. Ciò non toglie che in quegli anni si è assistito al liberarsi di forze tanto dirompenti da far saltare molti dei rigidi paradigmi che costituivano quella realtà sociale. La memoria di questo non è un totem da venerare ma dobbiamo considerarla come una cassetta degli attrezzi da utilizzare per cambiare la vita nella realtà attuale. Oggi è necessario trovare nuove fessure e nuovi punti di frizione del sistema.

Per sviluppare il discorso fatto in precedenza vorremmo chiederti cosa ne pensi del mediattivismo e delle pratiche di guerriglia comunicativa, in particolare vorremmo sapere quali sono secondo te le linee di sviluppo di queste forme di militanza.

A questo proposito possiamo guardare ciò che accade nella rete. Credo che il web oltre ad essere un contenitore da cui attingere informazioni in brevissimo tempo, il che è già molto importante, sia anche un bacino di relazioni umane, qualcosa di straordinario che non sostituisce ma integra e potenzia la relazione umana divenendo una vera e propria protesi.
Mi sembra importante rilevare che oggi stiamo assistendo alla crisi dell’ industria mondiale dell’ intrattenimento e della musica grazie alle strategie legate all’ uso che la nuova generazione fa delle nuove tecnologie. Il potere di riappropriazione di queste pratiche, soprattutto se lo consideriamo in rapporto alle modalità tradizionali, non è assolutamente da sottovalutare, in quanto ha la capacità intrinseca di aprire un terreno di lotta in grado di sfuggire le strategie di controllo. Scaricare musica, film, ecc. rappresenta quindi un importante ed efficace strumento in quanto comunità intelligenti attraverso la diffusione in rete e il copyleft divengono in grado di potenziare se stesse. La capacità innovativa e di trasformazione di queste pratiche non è ancora stata riconosciuto, e di conseguenza valorizzata a sufficienza. Io penso che molto andrebbe fatto in questo senso, soprattutto per quanto riguarda il riconoscimento delle potenzialità dei nuovi soggetti che irrompono sulla scena.

Al momento il movimento sta vivendo una fase di riflusso e di bassa intensità, in cui si assiste ad un accentuarsi delle contraddizioni ed all’ emergere di differenze tra le diverse singolarità non più in grado di costruire quella sintesi che ne ha costituito la forza e la potenza sin dal suo irrompere sulla scena sociale. Pensi che stiamo vivendo la fine di un ciclo di lotte o che ci troviamo in un momento di passaggio?

Io non penso che il riflusso che è in corso in questo momento sia qualcosa di definitivo.
In questi ultimi anni noi abbiamo avuto modo di imparare tantissimo dallo zapatismo, dalla loro strategia della parola e della comunicazione ma anche del silenzio.
Ci troviamo in presenza di nuovi soggetti, di nuove dinamiche, che rendono questa società decisamente più complessa rispetto a quella degli anni ’70.
Quando a Bologna si parlava di contaminazione, ci si riferiva semplicemente agli studenti e ai lavoratori giunti dal sud e dal centro Italia, oggi è possibile parlare di meticciato.
Ben presto in Italia, in Francia sta già accadendo, si affacceranno sulla scena gli immigrati di seconda generazione, persone nate in Italia che rivendicheranno i loro diritti di cittadinanza e non si accontenteranno più di vivere come i loro padri, e la miscela che ne verrà fuori sarà esplosiva.
Ecco io penso che oggi noi ci proponiamo una sfida che è ardua, che ci porterà a farci delle domande, ad avere una sensazione di inadeguatezza di fronte a dinamiche tanto complesse, ma per ritornare alle passioni tristi di cui parlavamo prima, non credo che accetteremo la sofferenza o penseremo che l’unica soluzione sia lo psicofarmaco.

 

Omnia sunt communia
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