da "Il Domani", quotidiano bolognese, 21 novembre 2001, un articolo di Wu Ming 2 sullo stato del movimento:


Da Genova a Roma, passando per Perugia, risulta ormai chiaro che la pentola a pressione della società civile italiana non ha più un coperchio. Fiumi di liquido bollente si rovesciano fuori, spandono odori all’intorno, mettono l’acquolina in bocca. Schiere di sondaggisti e politologi si interrogano su quale possa essere l’approdo di questo torrente in piena, su come catturarne il consenso, come interpretarne le richieste.
Più importante sarebbe invece capire come si possa continuare ad alimentare il fuoco, evitando che la zuppa, nella sua gioiosa eruzione, finisca per soffocare il fornello.
La scintilla iniziale, l’esca da cui si è partiti, può essere descritta in molti modi. Su giornali e televisioni è ormai normale sentirsi parlare di una sfera etica che si è imposta sulla politica, di una mobilitazione ‘morale’ prima ancora che ‘materiale’.
Tagliando con l’accetta, un tanto al chilo, possiamo accettare questa definizione. Sappiamo bene, però, di non poter alimentare un fuoco a spruzzi d’alcool, legna sottile e tavolette di meta. Tutta roba che brucia in fretta e non lascia braci. Dove trovare allora un combustibile duraturo? Tronchi di faggio per affrontare l’inverno e non lasciare che la minestra si freddi?
La legna sottile è il primato del ‘morale’ sul ‘materiale’. L’alcool sono le mobilitazioni e le scadenze del movimento. Ma alla lunga l’alcool si snatura, evapora: gli appuntamenti vanno bene come tappe di un percorso, se invece si tratta di saltare da uno scoglio all’altro, mentre in mezzo scorre la lava, alla lunga cedono le gambe, ci si ferma in un punto, si rinuncia a proseguire.
Ecco perché abbiamo bisogno di riallacciare le fila con i nostri bisogni, qui ed ora, nel Nord del mondo,  attraversato da contraddizioni, sfruttamenti, precarietà, intelligenze, povertà e risorse.
Perché le contraddizioni che viviamo su base locale sono perfettamente complementari a quelle che denunciamo su scala ‘globale’. L’altra faccia della medaglia, verrebbe da dire. Non possiamo ragionare soltanto in termini di WTO, Fondo Monetario, Banca Mondiale, multinazionali, Guerra Santa. Non è il Palazzo d’Inverno che dobbiamo conquistare. Il dominio e gli interessi sovranazionali, diciamo pure ‘L’Impero’, esprimono e legittimano il loro potere tanto con il lavoro minorile dei bambini indonesiani quanto con il controllo sociale e lo sfruttamento dell’intelligenza a casa nostra.
Occorre evitare ragionamenti del tipo: ‘Noi siamo una minoranza privilegiata, ma dobbiamo pensare a chi sta peggio’. Su scala globale, viviamo sicuramente una serie di ‘privilegi’ incompatibili con un benessere più diffuso, ma su scala locale, altro che privilegi!
Troppo spesso siamo presbiti, capaci di vedere bene solo ciò che è lontano: gli occhiali  di un’azione locale, di un’analisi materiale che parta dalla nostra condizione, sarebbero dunque un buon correttivo.
Ripartire dal lavoro vivo e dalle sue trasformazioni, dall'intelligenza collettiva, questa forza produttiva e creatrice che la logica del profitto imbriglia e recinta. Il flop della "new economy" a dispetto della innegabile crescita di Internet dimostra che la mercificazione dei linguaggi e del comunicare non è un processo dato e ineluttabile.  Ripartire dalla lotta contro copyright, brevetti e proprietà intellettuale (cioè l'accaparramento dei prodotti della cooperazione sociale), per  estendere l'area del "pubblico dominio".  La vicenda antrace-vaccino-Bayer dimostra quanto la proprietà privata del sapere sia nemica dell'umanità.