Ali e Ali: il più grande e un grande film
di Roberto Bui (Wu Ming 1), 3 febbraio 2002



Premetto che sono un grande appassionato di Muhammad Ali, come di tutta la cultura e la storia afroamericana. Avevo solo otto anni all'epoca della terza riconquista del titolo (1978), i miei ricordi sono più che vaghi. Qualcosa affiora, però: mio padre (o è uno speaker televisivo?) che mi parla del cambio di nome dopo che "Cassius Clay" è diventato "musulmano". La prima volta che mi  interrogai su cosa significasse essere musulmani. Dev'essere stato da qualche parte fra il "Thrilla in Manila" (il terzo incontro con Frazier, 1975) e la riconquista contro Spinks. Più avanti, i ricordi si fanno più definiti, il primo incontro che seguii davvero fu Larry Holmes contro Gerry Cooney, 1982. Lungo, sfiancante, bellissimo.
In seguito mi sono interessato ad Ali, ho letto l'autobiografia scritta con Richard Durham (Il più grande, Mondadori 1976) e tutti i libri che lo riguardano (perfino roba astrusa, tipo Il tao di Muhammad Ali ). Ho visto almeno dieci volte il documentario When We Were Kings. A suo tempo, ho acquistato i VHS degli incontri col (superfluo) commento di Rino Tommasi. Rientro insomma nella "categoria a rischio" di quelli che potrebbero rigettare, con chissà quale pretesto da "esperti", il film di Michael Mann. Al contrario, ne sono entusiasta.
Il film è un'opera corale, piena zeppa di personaggi, e abbraccia un periodo di dieci anni, dalla prima conquista del titolo al match di Kinshasa.  Non potevo aspettare che uscisse nelle sale italiane né avevo in programma viaggi all'estero, così ho scaricato da Internet una versione pirata in formato "avi" e l'ho vista sul computer.
Ovviamente, nel doppiaggio andrà perso tutto il lavoro fatto sulle voci: Will Smith (non ci avrei mai scommesso) parla e sbraita esattamente come il vero Ali, la stessa cadenza dolce e musicale, gli stessi improvvisi arrochimenti. Mario Van Peebles fa praticamente resuscitare Malcolm X, Jon Voight è posseduto dallo spirito del giornalista Howard Cosell, Don King non mi ricordo chi lo interpreta ma ha la stessa voce di quello vero. I dialoghi sono concitati e non c'è mai un calo di ritmo. Come ha scritto il Washington Post: "Per essere un film, Ali è un grande evento radiofonico: sarebbe quasi meglio strizzare gli occhi e associare a quelle voci immagini sfocate, facce che passano lasciando la scia, movimenti furiosi".
D'altro canto, molte cose il doppiaggio non potrà rovinarle: gli incontri sono esatte repliche di quelli originali, coreografati in modo maniacale, passo dopo passo, pugno dopo pugno, clinch dopo clinch, addirittura smorfia dopo smorfia. Il primo incontro con Liston e il "Rumble in the Jungle" sono momenti epici, era dai tempi di Toro scatenato che non si vedevano cose del genere. Attenzione, però: proprio come il film di Scorsese, Ali non è un vero e proprio film sulla boxe. Mancano i basilari requisiti del genere, cioè il rapporto tra allenatore e pugile, l'allenamento visto come una specie di viaggio iniziatico e la faticosa scoperta della giusta tattica. In fondo, i combattimenti più duri Ali li affronta fuori dal quadrato, come quando cambia nome o si rifiuta di essere arruolato nell'esercito e partire per il Vietnam.
Sopravviverà all'adattamento italiano anche la ricostruzione storica, precisa fin nei minimi dettagli, tanto da risultare - per chi già conosce quelle facce, quelle voci, quegli episodi - straniante, iper-realistica, non un calco della realtà ma un leggero sfasamento, una sorta di dimensione parallela appena un millimetro di fianco alla nostra.
Ovviamente, resterà intatto anche il lavoro prettamente cinematografico: il montaggio mai scontato, la direzione della fotografia etc. Non c'è mai, davvero mai, un momento banale.
Insomma, il film restituisce al cinema la sua dimensione mitologica, come nessuno ha più osato fare dai tempi di Malcolm X di Spike Lee (esplicitamente omaggiato nella scena dell'uccisione, in cui Mann ricorre alla stessa colonna sonora, A Change Is Gonna Come di Sam Cooke). Un'opera imprescindibile. Per citare lo scrittore e poeta nero Amiri Baraka: "Una delle cose più strane dell'America è che, a dispetto del suo profilo essenzialmente meschino, continui a esistervi tanta bellezza. Forse, come hanno detto molti pensatori, è proprio a causa di quella meschinità, e per contrasto a essa, che questa bellezza esiste."