Un testo circolato nelle mailing lists di movimento e rivolto alle ex-tute bianche reduci della missione "Action For Peace In Palestine".

DISOBBEDIENZA, MARTIRIO E FINE DELLA PACE
Domande per chi torna dal cuore della Guerra Civile Globale.


di Wu Ming 4, 10 aprile 2002


Vi scrivo per porvi delle domande. O meglio, per riproporvele alla luce della vostra esperienza in Terra Santa, visto che già le avevo anticipate ad alcuni di voi prima che partiste e visto che io in Terra Santa non sono riuscito ad arrivare, essendo stato espulso prima ancora di poter varcare la frontiera israeliana.
Alla vigilia del vostro viaggio avevo sollevato delle perplessità, che mi portavano a essere scettico sulla spedizione che stavate per intraprendere. Non certo sulla sua importanza, quanto piuttosto sulla sua potenziale efficacia e sulla sua tempistica. Credo che in Palestina abbiate raccolto un bel po' di elementi e vissuto esperienze uniche, che adesso possono portarvi a rispondere a quelle domande. Spero quindi che prendiate queste mie riflessioni come un pungolo al ragionamento che sicuramente state elaborando, mentre riordinate le idee e gli appunti di viaggio.
Le mie perplessità erano sostanzialmente due. La prima riguardava l'opportunità di impegnarsi ed esporsi tanto su una questione, quella palestinese, di cui la nostra area di movimento si era disinteressata per almeno un decennio. Ricordo che usai un'espressione secca: "non si possono recuperare dieci anni in una settimana". La mia preoccupazione era che il nostro percorso politico e teorico non si era mai cimentato con un universo culturale tanto differente e temevo che gli equivoci e i fraintendimenti potessero surclassare e sovradeterminare la vostra azione laggiù. Un'altra espressione che usai con alcuni di voi era: "Attenzione, perché laddove noi diciamo 'disobbedienza civile', in quel contesto culturale si può facilmente leggere 'martirio'".
La seconda perplessità nasceva dalle condizioni contestuali che andavano rapidamente delineandosi al momento della vostra partenza e che poi sono precipitate proprio il giorno del vostro arrivo. In sostanza la domanda era questa: quale può essere il margine d'azione "disobbediente" in uno scenario di guerra aperta, quando parlano le bombe e i carri armati? Permane ancora una possibilità d'azione sul campo, quando la guerra si dispiega?
A dimostrazione del fatto che non erano domande campate in aria, ho ritrovato analoghe riflessioni e dubbi nel bellissimo documento che avete prodotto a Gerusalemme, quando sembrava che la vostra spedizione avesse subito una pesante battuta d'arresto. Quel documento era l'inizio di un ragionamento accurato ed efficace sulla fine del concetto di "pace", sull'impossibilità stessa di tracciare un confine tra guerra e pace nell'era della guerra civile globale permanente. Voi stessi confermavate il mio primo dubbio, affermando che il bagaglio concettuale e culturale con cui eravate giunti in Palestina si era rivelato pressoché inutile e obsoleto rispetto alla situazione che avevate trovato. Vi interrogavate su quale ruolo i "pacifisti" potevano svolgere in quel contesto ormai spacciato, fatto salvo che non potevate assumere come vostra l'idea del "martirio per la pace".
Gli eventi delle ore e dei giorni successivi vi hanno impedito di proseguire quel ragionamento, ma l'impressione è che abbiate tentato di dare una risposta pratica a quei dubbi con la violazione della "zona rossa" di Ramallah. Vi siete reinventati un ruolo, siete andati là dove non dovevate essere. La percezione di quella decisione che si è avuta da qua è stata quella di una forzatura, di un tentativo estremo, di una torsione, improvvisa e inaspettata, della vostra spedizione. Ai miei occhi, che seguivo gli eventi via cellulare, via satellite e via Internet, la vostra scelta è apparsa come la risposta alla richiesta di diventare qualcos'altro da quello che eravate stati fino a quel momento. Richiesta che partiva dagli stessi palestinesi. Resosi insufficiente lo spazio delle manifestazioni davanti ai check-point e nelle piazze, la spedizione ha voluto superare l'azione d'appoggio alla protesta della società civile palestinese e israeliana, diventando quasi una missione "umanitaria" (absit iniuria), d'interposizione simbolica e materiale.
Il risultato è stato al di là delle migliori aspettative. Si potrebbe dire che con quella scelta la spedizione è risorta dalle proprie ceneri e non ho certo bisogno di ribadire quanto già vi ho scritto nella lettera del 1 aprile 2002 che ho fatto circolare in rete.
Ma quel successo non toglie niente alle perplessità politiche che vi sto riproponendo, proprio perché nasce da una scelta presa sul campo, in medias res, come spesso accade nelle situazioni d'emergenza, che ha proiettato i disobbedienti in una dimensione a loro non propria. Il passo è stato gigantesco. Per buona sorte non è stato più lungo della gamba, ma tutti voi sapete quale rischio avete corso. Infatti, al di là dell'assunzione di responsabilità individuale, è del tutto ovvio che esiste una responsabilità politica collettiva, giacché non eravate andati in Palestina come singoli individui decisi a mettere a repentaglio la propria vita, ma come disobbedienti appunto, con un'idea completamente diversa di quello che avreste fatto. Necessariamente le responsabilità non possono che essere assunte collettivamente, come collettivamente ci sarebbe stato presentato il conto politico nel caso qualcosa fosse andato tragicamente storto (e inutile nascondersi che sarebbe stata la rovina per tutti...).
Credo quindi che sia impensabile partire da un importante e improvviso "colpo di fortuna", da una scelta azzeccata, quanto fortuita, per tracciare una linea politica di comportamento contro la Guerra Civile Globale. La riflessone sarà sicuramente più profonda. Anche perché, come già avevate scritto nel vostro documento, nemmeno col gesto più generoso e straordinario, qual è stato il vostro, era ed è possibile fermare la guerra e, aggiungo io, il rischio di rendere labile il confine tra disobbedienza alle zone off-limits e il suddetto martirio di pace, in certe situazioni può essere troppo alto. Non credo infatti sia nelle intenzioni di nessuno pensare di chiamare all'arruolamento di massa nelle costituende Brigate Internazionali della Pace, nonostante purtroppo qui "a casa" l'impresa del Ramallah Hospital sia stata letta, sull'onda dell'entusiasmo, anche in questa chiave distorta e facilona. Noi tutti sappiamo che le Crociate dei Bambini non hanno mai avuto fortuna.
C'è dell'altro. Con la coraggiosa spedizione a Ramallah siete riusciti a inserirvi, a vostro rischio e pericolo, in un interstizio praticabile. Forse l'ultimo piccolo spiraglio di manovra e di possibile "presenza" in un teatro bellico che aveva però le caratteristiche dell'operazione mirata di polizia e rastrellamento, piuttosto che della guerra totale dispiegata. Eppure la Guerra Civile Globale non si dà sempre nelle stesse forme. La Palestina non è l'Afghanistan, né l'Irak. E forse la stessa Ramallah non è stata Nablus o Jenin. Cambiando il bersaglio, si ridefinisce anche lo scenario bellico. La domanda che quindi sorge spontanea è anche questa. Al di là delle scelte individuali, tutte legittime - dal farsi manganellare davanti alla Orient House al prendere le bombe in testa a Kabul insieme a Gino Strada - è possibile trarre una "lezione" politica dalla vostra esperienza? E quale proposta collettiva può partire dall'area della disobbedienza? Siete/siamo in grado di assumerci una responsabilità in questo senso? E' opportuno farlo? O dobbiamo piuttosto ammettere di essere entrati in un gioco troppo grande?
Adesso tocca a voi che eravate là iniziare una riflessione su quegli eventi e su quale sbocco, quali ricadute, possono avere. Se posso permettermi di dire la mia, credo che proprio da quel primo documento dovreste ripartire, dalla riflessione di Gerusalemme, prima ancora che dall'impresa di Ramallah. Col vantaggio postumo, però, che proprio da Ramallah, come avamposto privilegiato, avete potuto scandagliare il cuore della Guerra Civile Globale.
Aggiungo anche che, comunque sia, purtroppo il tempo perduto non si recupera con una scelta indovinata. Infatti la mia caustica battuta "non si recuperano dieci anni in una settimana", a proposito delle differenze culturali, ha trovato una brutta conferma durante le manifestazioni di sabato 6 aprile 2002. Trovare in testa ai cortei le comunità palestinesi che bruciavano le bandiere israeliane a ripetizione, che inneggiavano alla guerra santa ("Ebrei attenti, l'esercito di Maometto sta tornando!"), che avvolgevano i bambini nelle bandiere palestinesi e li facevano passare sopra le teste a mo' di cadaveri dei kamikaze, è stato a dir poco agghiacciante, per quanto non ci si potesse aspettare molto di diverso, data la tragicità del momento. In questi giorni le mailing list pullulano di lettere di compagni che comunicano il loro disagio e la difficoltà di resistere alla tentazione di abbandonare quei cortei. Mentre si otteneva il grande risultato di trascinare a Ramallah i parlamentari dei partiti della sinistra moderata, dando sbocco pratico e simbolico alla coraggiosa azione di diplomazia dal basso cominciata con la visita ad Arafat e il successivo ingresso all'ospedale, in Italia si offriva il gancio agli stessi partiti e sindacati per togliere l'adesione alle manifestazioni che avevamo organizzato (senza parlare poi del pretesto offerto ai filo-israeliani per ricompattarsi dopo lo shock iniziale). Inutile dire che un passo avanti e uno indietro ti fanno restare fermo. Forse appunto non poteva andare diversamente, data la tempistica, ma questo dimostra ancora una volta che non ci verranno più scontati errori e improvvisazioni.
Per questo è urgente produrre un ragionamento che vada oltre ogni retorica. E siccome credo che il punto di vista di chi ha vissuto le cose da qua possa essere un buon contraltare per il confronto, riconfermo e ripropongo le mie domande, sperando che possano essere utili a tutti in vista di un momento collettivo di riflessione.




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