UNA BESTIA TROPPO GROSSA PER LE TAGLIOLE
Note sul 10 novembre, le moltitudini, l'Impero, la politica e le merde di cane

di Roberto Bui (Wu Ming 1), 11 novembre 2001


0. Questa moltitudine (uno scambio di messaggi ad asfalto ancora tiepido)
1. L'Impero siamo noi: note sui dubbi del prima, del durante e del dopo, ma comunque "del dentro"
2. L'ultimo chiodo e' piantato nella bara dei DS: non resta che fare un cenno al becchino
3. L'infortunio della falsa "defezione" di Wu Ming




0. QUESTA MOLTITUDINE (UNO SCAMBIO DI MESSAGGI AD ASFALTO ANCORA TIEPIDO)

Bologna, ore 22.53 di sabato sera. Prima di andare al Naked a festeggiare al suono del soul, del R&B, del blue beat e del garage rock miscelati dal collega Wu Ming 5 in veste di DJ, butto giù due righe e le metto su Indymedia:

"Per fortuna sbagliavo (io) e sbagliavamo (noi di Wu Ming).
I dubbi non erano sulla tenuta "demografica" del movimento, ma sulla capacità di superare lo shock e imparare a muoversi con agilità su un terreno simbolico di cui ancora non esistono mappe. Ma la quantità può trasformarsi in qualità, i problemi possono essere risolti se sai di poter contare sulla moltitudine.
Si è sottovalutato il disgusto della cittadinanza romana e non solo per l'arroganza del fan club e delle groupies di George W. Bush.  Sono felice che tutto sia andato bene, come suol dirsi: "oltre le pIù rosee previsioni".
Come ha scritto Bifo: "Ci sono trappole e trappole". Questa era una tagliola, ma c'e' finita sopra una bestia talmente grossa da averne bloccato le fauci.
Ora occorre farla contare davvero, quella moltitudine che ci riporta alla realtà del conflitto, oltre qualunque cazzata detta o fatta dal ceto politico di parlamento e i limiti e gli scazzi del ceto politico di movimento. Bella giornata, insomma. :-)"

Mentre clicko sul tasto "PUBLISH", controllo la posta. Mi scrive Piero, mi colpisce il fatto che usa la stessa metafora delle "fauci". Che quella di oggi pomeriggio fosse una tagliola lo percepivano tutti. I dubbi che avevamo espresso erano largamente condivisi da chi ci contattava per commentare la nostra lettera a "Il Foglio" e l'articolaccio uscito sul Venerdì di Repubblica. So che il difficile comincia adesso e che "non si può avere sempre culo", ma è bello sapere che si è evitato l'irreparabile, e tirare tutti un sospiro di sollievo, respirare insieme:

"Amico mio,
il mio cuore vola alto come un falco.
Le fauci non si sono chiuse.
La trappola non è scattata.
L'avversario non ha avuto un buon giro di carte e siamo andati a vedere.
E' andata liscia.
Grazie a noi, chiedi?
No, malgrado noi, o meglio ... un po' di culo non guasta.
Io, diocan, non c'ero... un lavoro da consegnare lunedì... senno niente paga per i 4 mesi passati... un finesettimana davanti al monitor.....
Hai avuto il tuo bel daffare, ho visto, con gli empati da combattimento della stampa.
Fortuna che sei stato tempestivo... pensa se andavi in un rifugio di montagna invece che guardarti il film ... te ne saresti accorto lunedì..... !!!
Stammi bene e rimettiti in circolo presto. Non ci sono né dirigenti né caporioni né trogloditi che tengano. Nessuno ci capisce davvero un beato cazzo, su come uscirne.
Orizzonti corti... sempre incentrati sulla prossima mossa da fare.... e ogni volta giocandosi tutto....
Non è vita, non si può avere sempre culo.
Per intanto:
al ciccione è andata storta
il Chievo è primo in classifica
un altro mondo è quindi possibile
Piero"

"Il mio cuore vola alto come un falco". Ho rubato la frase, mettendola negli SMS che ho mandato alle compagne e ai compagni che tornavano da Roma. Poi via, a ballare ed espellere le tossine.


1. L'IMPERO SIAMO NOI: NOTE SUI DUBBI DEL PRIMA, DEL DURANTE E DEL DOPO, MA COMUNQUE "DEL DENTRO"

L'indomani. Le notizie del successo della manifestazione (con una moltitudine che risponde festosa e adirata a una convocazione pure equivoca e rischiosa) si accompagnano alla minaccia, da parte di Bin Laden, di rispondere a un eventuale attacco nucleare dell'Impero usando lo stesso tipo di armi. Questo accostamento sulle prime pagine dei giornali mi ha riportato alla mente un articolo di Toni Negri scritto nel dicembre 1990, poco prima che scoppiasse la Guerra del Golfo.

"La critica dovrebbe permettere di prendere posizione. Resistere alla guerra è infatti, sempre, il risultato della critica filosofica. Resistere alla guerra è dunque il primo e fondamentale dovere etico. Ciò detto, non si può sottacere che la genealogia critica della resistenza è oggi, in Occidente, equivoca: lo è e non può non esserlo. [...] Se non ci si affida al revanchismo di vecchie mitologie politiche, si riescono a identificare solo degli imperativi morali da rivendicare, come dati elementari e fondamentali dell'esistenza, mai delle direzioni di movimento da organizzare, degli ancoraggi ontologici duri. Eppure è proprio su questo vuoto della purezza della rivendicazione etica e dello scontro[...], su questo limite di incomprensibilità e di violenta denuncia dell'intollerabile, che ogni speranza di ricostruzione va poggiata. E' dentro questo spazio vuoto che una genealogia univoca della resistenza può essere ricostruita. Come? [...] Gli elementi sottesi alla crisi del Golfo (il conflitto tra Nord e Sud, fra sfruttatori e sfruttati, fra ricchi e poveri e la ricerca di un ordine internazionale di vera cooperazione) possono essere letti anche nella realtà quotidiana della nostra esistenza - e nella "felicità" del nostro sistema politico. Se non riusciremo a rendere univoche queste dimensioni, la rivendicazione della resistenza, per quanto incontenibile, resterà equivoca - e il pensiero molle riuscirà di contro, insaziabilmente molle, a produrre l'apologia della guerra. Se non riusciamo a ripensare la lotta di classe e delle prospettive radicali di rinnovamento nel Nord, ontologicamente, qui da noi, come materialità e necessità dei nostri corpi singolari e collettivi, la pace continuerà a essere definita dalla Borsa, dalla perversione dei media e dall'iniziativa dell'imprenditore politico, per noi sarà solo in effetti misera compassione. E quando le bombe nucleari cominciano a cadere sull'orlo della morte, ci guarderemo in viso con aria stupefatta."

Rispetto a undici anni fa, io credo che abbiamo fatto qualche passo avanti, ma più breve e incerto di quel che ci sembra quando, inebriati dai corpi che riempiono le strade e i telegiornali, vediamo solo la potenza del movimento.
 
Ho molto apprezzato un intervento di Paolo Virno, pre-11 settembre, fatto a Bologna durante uno dei convegni "Rekombinant" organizzati da Bifo. Virno diceva che il movimento è come il sorriso del gatto del Cheshire di "Alice nel paese delle meraviglie" (in Italia noto anche come "lo Stregatto"). Il sorriso lo vediamo, è bello, ma dobbiamo anche materializzare il gatto.

Prima ancora che lo spiegasse, ho capito perfettamente dove andava a parare. Perché ero e sono oggi più che mai d'accordo.
Non abbiamo ancora reso chiare ed evidenti le basi materiali del nostro agire politico. Abbiamo costruito molti miti di lotta intorno al "dovere etico", agli "imperativi morali", ma se non creiamo un linguaggio che comunichi dritto al cuore - ad hominem - ciò che sappiamo e ci diciamo da dieci anni nel suggestivo ma a fini pratici inutile "lessico post-fordista" (nuove figure del lavoro vivo, intellettualità di massa, "general intellect", reddito di cittadinanza etc.), se non ancoriamo duramente al dato materiale e di classe una "genealogia univoca" della resistenza, finiamo per ricadere nel "pensiero molle" delle continue mediazioni al ribasso pur di mantenere mobilitata la moltitudine, anche senza obiettivi definiti.

Così non solo la moltitudine torna a essere considerata "massa" (e dopo un po' ti lascia col culo per terra), ma i vari Galli della Loggia continueranno ad avere buon gioco nell'accusare il movimento di "ingenuità" e non sapremo cosa rispondere quando ci chiederanno: "OK, il terrorismo si sconfigge con la pace. Ma come?". A parte qualche opinione raccogliticcia sul "ruolo dell'ONU" o minchiatelle sulla Spectre e 007.

Intorno al 1998 sembrava che le "tute bianche" potessero diventare la incarnazione, la messa in pratica del lessico post-fordista. Si era creato un simbolo per il lavoro "precario", "flessibile", ormai "atipico" anche quando si svolge nei luoghi tradizionali dello sfruttamento. E' un prodotto di quell'epoca il libro Tute Bianche che Fumagalli e Lazzarato curarono per le edizioni Derive Approdi. Le tute bianche erano collegate alla rivendicazione del "reddito di cittadinianza", facevano blitz nelle agenzie di lavoro interinale, erano per cosi' dire lo spettro dell'operaio sociale.
Poi le tute bianche si sono dedicate prevalentemente alla pratica di piazza della "disobbedienza civile protetta", e l'altro ramo si è atrofizzato.

Ora le tute bianche non esistono più ma quel discorso bisogna riprenderlo, per trovare "ancoraggi duri", "qui da noi", nel cosiddetto Nord, riscoprire - al di là della testimonianza "compassionevole" sulla guerra e sulle storture della globalizzazione - la nostra "necessità e materialità".

Correrò il rischio di sembrare old-fashioned, ma qui bisogna rispolverare Marx, che abbiamo messo in soffitta benche' il sub-comandante Marcos non avesse detto nulla in proposito :-)  
In Per la critica della filosofia del diritto di Hegel (1844), il più luminoso e citato - soprattutto a sproposito - dei suoi scritti giovanili,  tagliente riflessione sulla comunicazione rivoluzionaria, Marx scrive:
"L'arma della critica non può certamente sostituire la critica delle armi, la forza materiale dev'essere abbattuta dalla forza materiale, ma anche la teoria diviene una forza materiale non appena si impadronisce delle masse. La teoria è capace di impadronirsi delle masse non appena dimostra ad hominem, ed essa dimostra ad hominem non appena diviene radicale. Essere radicale vuol dire cogliere le cose alla radice. Ma la radice, per l'uomo, è l'uomo stesso."
E in un altro passaggio:
"Si tratta di descrivere una reciproca, sorda pressione di tutte le sfere sociali l'una sull'altra, un generale inerte malcontento, una limitatezza che altrettanto si riconosce quanto si misconosce, il tutto racchiuso nella cornice di un sistema di governo che, vivendo della conservazione di ogni meschinità, non è altro che la meschinità al governo ."

In questa fase, il linguaggio che abbiamo adottato prima di Genova non serve più a nulla. La deposizione di Luca Casarini di fronte alla commissione parlamentare su Genova (6 settembre 2001) ne è stata la pietra tombale.
Il linguaggio da trovare oggi dev'essere materico, tangibile, produrre il rumore di una marea che avanza a travolgere la meschinità al governo (intendo il governo mondiale, mica solo quello di Berlusconi).

Il dato di fatto è che ripartiamo da un'impressionante sequela di manifestazioni di potenza.
Ma, se mi e' permesso un gioco di parole, la potenza non e' l'atto.
Nello specifico, e per il momento, l'atto è fuori dalla nostra portata: fermare questa guerra.
In potenza possiamo arrivare a farlo: stiamo spostando gli equilibri, in America e in Europa. Persino i sondaggisti sono costretti a registrarlo. La nostra stessa esistenza rende difficile la propaganda e l'amministrazione del fronte interno. La conduzione militare e mediatica di questa guerra appare vieppiù ingiustificabile.
Ma il problema si pone più in generale: anche a guerra interrotta, l'atto è disarmare - moralmente e materialmente - il terrorismo.

Il terrorismo e' "the exploitation of exploitation", sfruttamento dello sfruttamento, travestito da resistenza allo stesso. Il terrorismo è una mignatta che succhia il sangue al vampiro che a sua volta succhia il sangue dei popoli. "Alla Fie-era dell'Est, per due soldi..."
Gira e rigira, a esser travasato da un'arteria all'altra è solo il sangue dei popoli, o meglio, delle classi oppresse, salassate per tenere in stato di non-morte i vampiri e in vita (parassitaria, ma la si può chiamare vita) le mignatte.
Per farla breve, il terrorismo è parte integrante del capitalismo perché  viene prodotto da esso, si giustifica grazie ad esso fino a diventarne l'immagine speculare.
Sul ring allestito dai media, è lo sparring partner che tiene allenati i picchiatori.

Farla finita col terrorismo, smontare quel ring, richiede, come dice Negri, l'instaurazione di "un ordine internazionale di vera cooperazione". Richiede la giustizia sociale e un rinnovamento "ontologicamente, qui da noi". E' soprattutto "qui da noi" che dobbiamo combattere il capitalismo nella sua forma attuale, l'Impero.
Parafraso un altro scritto di Negri, risalente a trent'anni fa: i compagni cinesi dicono che è in Cina la leva per rovesciare il capitalismo. Certo che lo dicono: stanno in Cina! Noi stiamo qui, e diciamo che la leva e' qui.
Una boutade meravigliosamente zapatista ante litteram. La leva puoi tirarla da qualunque punto.
Mi spingo fin quasi allo zen: la leva è il braccio.

Rispetto alla filastrocca popolare ripresa da Branduardi (ne esiste un corrispettivo anglosassone, "The House That Jack Built", che alcuni ricorderanno per averla letta da piccoli, ne I Quindici), occorre fare il percorso inverso.
Per togliere il cibo alla mignatta, occorre un Van Helsing che pianti il paletto nel cuore del vampiro.
Questo equivale a far finire qualche scheggia di frassino nei cuori di tutti noi, perché il capitalismo siamo noi, l'Impero siamo noi, siamo i giustizieri e  le vittime.
Il mito propulsivo della "società civile" (o della moltitudine) contrapposta all'Impero era appunto solo un mito propulsivo.
Gli sfruttati del "Nord" possono contare davvero solo se pensano a sé stessi come la "società civile dell'Impero".

L'Impero eredita (pur addomesticandoli) anche due secoli di istanze di liberazione, di potere costituente, di costruzione di società dal basso. La retorica risorgimentale sullo stato-nazione, di cui sono intrisi i nostri libri di scuola, e l'antiamericanismo spicciolo delle ultrasinistre europee ci porta ad associare la forma-impero con qualcosa di univocamente negativo. Non è così. Lo stereotipo si dissolve non appena si considerano gli imperi dell'antichità (l'ateniese, il romano...), il Sacro Romano Impero, l'impero britannico etc. La forma-impero non può che porre a se stessa, in maniera radicale, il problema della cittadinanza e della sua estensione. La forma-impero, ben più della forma-stato, pone il problema del rapporto tra cultura del diritto e integrazione delle culture. Spesso i reggenti dell'impero sono costretti dai loro popoli a trovare soluzioni creative, per quanto temporanee. Sono convinto che possiamo trovare un nuovo mito di lotta solo se ci lasciamo suggestionare da queste immagini.
Anche se nell'Impero comandano i vampiri, moderni epigoni di Vlad l'Impalatore, l'Impero siamo anche noi.  
Ho parlato di "schegge di frassino" nei nostri cuori. E' inevitabile. Se vogliamo salvare il mondo, dobbiamo sì spodestare i reggenti ma dobbiamo anche imparare a consumare meno e in modo più critico. Dobbiamo adottare uno stile di vita ecologicamente sostenibile. Dobbiamo ri-indirizzare lo sviluppo tecnologico. Anche questa è una leva.


2. L'ULTIMO CHIODO E' PIANTATO NELLA BARA DEI DS: NON RESTA CHE FARE UN CENNO AL BECCHINO

"Tutta la volontà e tutte le tendenze del nevrotico sono sottoposte alla dittatura della sua politica di prestigio, sempre pronta ad avanzare dei pretesti al fine di non risolvere problemi vitali, dirigendosi automaticamente contro lo sviluppo del sentimento sociale. Ciò che egli dice e ciò che traducono le sue idee non ha significato pratico. La sua rigida attività si traduce unicamente nel suo atteggiamento [...] Il fatto che il gatto insegua e raggiunga il topo e che, senza aver mai visto come si pratica questa caccia, vi si eserciti fin dal primo giorno del suo sviluppo, è almeno tanto stupefacente quanto la nostra constatazione che il nevrotico, in funzione della sua struttura specifica, della sua posizione e dell'opinione che ha di se stesso, si sottrae a ogni costrizione sentita come insopportabile e che, apertamente o in segreto, cerca pretesti per liberarsene, pretesti a cui molto spesso sa egli stesso dar vita. La sua esistenza si svolge in un'eterna esclusione dei rapporti vitali, nella misura in cui li avverte come importuni per la sua ricerca del potere e come prove del suo sentimento d'inferiorità, molto spesso incompreso anche da lui, non formulato ma avvertito come tale." (Alfred Adler, Prassi e teoria della psicologia individuale)

I dirigenti della sinistra istituzionale, in cui a dire il vero resta poco o nulla da dirigere (lo dico con particolare riferimento ai DS) sono in preda a una nevrosi incontrollabile che in nome di una ricerca del potere (ormai priva di ogni legittimità) li porta a creare ogni sorta di pretesto per sottrarsi a  una particolare "costrizione": il rapporto col sentire comune di quello che un tempo si chiamava "popolo di sinistra". Fassino, D'Alema e i loro accoliti, ormai ciechi e sordi, si dirigono automaticamente "contro lo sviluppo del sentimento sociale". Non c'è nemmeno più bisogno di "isolare i Violanti", come dice il fortunato slogan coniato dal compagno Pedrini all'indomani di Genova, e poi ripreso da Bifo. Di Violante ne è rimasto uno solo, e più isolato di così non potrebbe essere.
I "fassisti", avviandosi a vincere una battaglia congressuale a colpi di truppe cammellate e precettazioni di inveterati e attempatissimi yes-men, hanno scambiato i loro brogli per la realtà e credono di avere ancora una "base". Sanno bene che ai congressi di sezione ha votato meno del 15% degli iscritti, ma credono che l'altro 85% sia ancora dentro il partito. Non si rendono conto di essere stati abbandonati, alla chetichella, senza gesti plateali. In parlamento si allineano all'unanimismo guerrafondaio mentre in tutto l'occidente aumentano i dubbi sulla guerra ai civili afghani fatta in nome degli sgoccioli di petrolio e della follia distruttiva. Vanno nelle caserme a salutare gli assassini nel giorno in cui la moltitudine invade le strade per chiedere la fine dei bombardamenti. Se il loro disastro non è ancora definitivo, cioè se ancora non sono sotto due metaforici metri di terra, è perché anche il governo non se la passa granché bene, e lo USA Day è stato un flop. Ma una cosa è certa: sono già dentro le bare.
A meno che non succeda qualcosa di inaudito che sconvolge tutto il quadro (e a meno che mio nonno non rinasca con le ruote), ai prossimi sondaggi i DS saranno sotto il 5%. Il che significa che occorre sfamare con della vera politica le colonne di profughi che premono sul confine tra sinistra ufficiale e movimento.
Non può farlo un sindacato, pena lo snaturamento della sua struttura.
Non può farlo Rifondazione, primo perché chi scappa dai DS non è in cerca di un'identità ma di un mondo e delle armi della critica, non scappa perché i dirigenti non sono più "comunisti", ma perché sono fuori dal consesso civile e dalle lotte, secondo  perché le aperture della segreteria e della federazione giovanile sono purtroppo zavorrate dallo stalinismo di cui il partito non è riuscito a liberarsi, che trova espressione nelle lotte di fazione interburocratiche, nell'inconcludenza di chi invoca il leninismo puro o negli sconci discorsi filo-Milosevic e anti-movimento dei vari Fulvio Grimaldi (da cui nessuno si premura di prendere le distanze e che anzi scrive sull'organo ufficiale del partito). Finché Curzi e Bertinotti non si scrostano questi "dog droppings" dalla suola delle Oxford, hanno poco da fare la morale ai DS.
Insomma, il "cordone umanitario" puo' allestirlo solo il movimento.


3. L'INFORTUNIO DELLA FALSA "DEFEZIONE" DI WU MING

"Un monaco chiese a Ma-Tsu di spiegargli l'idea che aveva il Bodhidharma quando era venuto in Cina dall'ovest. Il maestro colpì il monaco, dicendo: 'Se non ti colpisco, tutti i maestri rideranno di me."
D.T. Suzuki, La dottrina zen del vuoto mentale

Questa storiella mi viene in mente ogni volta che vengo intervistato.
Già, perché qualcosa di fetido e attaccaticcio è rimasto anche sotto le scarpe di Wu Ming. Non riassumo la vicenda dell'articolo del Venerdì, che potete trovare qui:
< http://www.wumingfoundation.com/italiano/Giap/presadidistanze.html >
I dubbi che intendevamo esprimere sul corteo del 10 si fondavano e si fondano su tutte le considerazioni di cui sopra, anche se nelle nostre teste erano ancora vaghe e solo le centomila persone di ieri le hanno fatte emergere dalle acque nere. Se tali dubbi sono stati intesi come un "abbandono" è per un limite nostro e per l'intromissione del sensazionalismo giornalistico. Noi ci siamo. Critici, perplessi, ma ci siamo.
L'articolo danneggia soprattutto me, e anche se Wu Ming pensa che "non bisogna cercare di avere tutto sotto controllo", io non sono persona che si "lascia dire" (e mostrare) in questo modo. Soprattutto l'accostamento tra titolo arbitrario ("Ma l'ideologo dei no-global boccia la contromarcia") e fotografia ha prodotto un effetto sgradevole. Anche se il virgolettato rispettava i paletti che avevo messo, l'effetto che poteva prodursi nel movimento era: ecco l'intellettuale che se la tira, che stava nel movimento finché era solare e variopinto e appena c'è una crisi comincia a defilarsi in modo arrogante dicendo "se non era per me chissà che cazzo combinavate, il pallone è mio e me lo porto a casa, cambiate sport". Se non rettificavo, ci facevo la più devastante figura da idiota della mia vita.
 E' notorio che sinora non ci siamo lasciati fotografare. Non per paranoia, ma proprio perché temiamo una cosa come quella di venerdi'.

L'agenzia fotografica Eikon di Bologna è l'unica che abbia scattato qualche nostra foto, ed è quella presso cui si serve Repubblica. Loro sanno che non desideriamo apparire e quindi quando il giornale chiede nostre foto (e accade sovente) loro rispondono di no. Addirittura, ci hanno venduto negativi e diritti dell'unica nostra fotografia "posata", quella che Repubblica pubblicò all'uscita di Q. Su quell'immagine abbiamo il controllo totale. Ma la fotografia di venerdì è il risultato di un sotterfugio: la si è ricavata dal grandangolo di una manifestazione già posseduta dal giornale, isolando il particolare della mia faccia. Qualche informatore mi ha riconosciuto, ha puntato il dito e ha detto: "Eccolo, Bui è questo qui!". Su una cosa del genere non possiamo avere alcun controllo e saremmo dei megalomani se cercassimo di averlo. Non possiamo girare con le parrucche e i nasi finti!
Quest'episodio servirà da spunto per riflettere su come gestire la nostra non-immagine pubblica e tutelare la nostra privacy senza cadere nella psicosi.

Concludo con una specie di considerazione sulla "militanza":

All'arrivo di Bodhidharma l'imperatore Vu, devotissimo buddista, cominciò a vantare la bontà delle sue opere. "Ho costruito molti templi e molti monasteri," egli disse, "ho copiato molti scritti sacri del Buddha. Ho convertito uomini e donne. Ora che merito ne ho?"
Al che Bodhidharma rispose: "Nessuno, maestà."
L'imperatore, mortificato dalla brusca risposta, provo' ancora: "Qual è il primo principio del Dharma?".
"Il vuoto sconfinato, al cui interno non vi è niente di sacro." rispose Bodhidharma.
"Ma allora chi è colui che mi sta davanti?" chiese l'imperatore.
"Non ne ho la minima idea", rispose Bodhidharma.

- Ma che cazzo c'entra con la militanza?
- Se non ti colpisco, tutti i maestri rideranno di me.