Indice di /no/Giap - Un piccolo miracolo laico - 24 luglio 2002


1. 20 luglio 2002: un piccolo miracolo laico - di Wu Ming 1
2. Meno male che c'è Genova - di Wu Ming 3
3. Intervista a Wu Ming 3 e Wu Ming 4 apparsa su Carta prima di Genova



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20 LUGLIO 2002: UN PICCOLO MIRACOLO LAICO
Excursus dal basso Appennino bolognese a Piazza Alimonda, passando per...

di Wu Ming 1

"Si dicono cose solide, quando non si cerca di dirne di straordinarie."
Isidore Ducasse, conte di Lautreamont, Poesie, 1870


Nell'autunno-inverno 1944 le popolazioni dell'Appennino tosco-emiliano subirono molte rappresaglie e stragi nazifasciste. Il fronte era fermo lungo la cosiddetta "linea gotica", le montagne erano il confine naturale tra il territorio occupato dal Reich e quello già liberato dagli Alleati.
Disorientati dall'estendersi della guerriglia partigiana e ormai consapevoli di aver perso la guerra, i nazifascisti si scatenarono nella repressione più selvaggia e brutale. L'eccidio più famoso fu quello di Marzabotto, a ottobre.  

A partire da dicembre e per tutto l'inverno, all'incirca cento partigiani vennero prelevati - di nascosto e a piccoli gruppi - dal carcere bolognese di S. Giovanni in Monte e, viaggiando di notte, portati su un poggio in località Sabbiuno di Paderno, nel punto più alto di un crinale che separa le valli del Reno e del Savena, nove chilometri a Sud del centro di Bologna. E' una zona di fianchi erosi e di calanchi, dove la vegetazione si alterna a fenditure argillose grigio-azzurre e a distese sabbiose e dorate.
Dal poggio, oggi come allora, si gode di una vista a trecentosessanta gradi. Al tramonto tutto diviene luminescente. Nel Pliocene inferiore, lì c'era ancora il mare, e i calanchi erano fondali profondi.
Di notte, dove l'orizzonte si apre ampie brecce, dal poggio di Sabbiuno si vede la distesa di luci di Bologna. Nell'inverno 1944, con la città oscurata per via dei bombardamenti, è probabile che non si vedesse niente.
I partigiani venivano allineati sul ciglio del burrone e fucilati.
I corpi cadevano a valle, perduti nella fanghiglia e nella neve.
Quel prolungato eccidio fu scoperto solo dopo la Liberazione. Solo 53 vittime furono identificate.   

I monumenti ai caduti - ivi compresi i caduti della Resistenza - faticano a commuovere e a comunicare davvero qualcosa a chi è venuto dopo (una vicinanza, una continuità delle lotte, un'appartenenza alla comunità di chi ha lottato e lotta). Molto spesso sono eccessivamente tronfi e retorici, sovra-codificati, chiusi, monologici. Con un monumento non si dialoga. Un monumento non lo si "interroga". Inoltre, i monumenti trasudano burocrazia, in qualche modo ostentano il processo di selezione (sovente inficiato da nepotismi) grazie al quale proprio quel particolare artista ha potuto realizzare la tal cosa.
A onor del vero, capita che il tempo e i cambiamenti del contesto sociale intervengano ad "aprire" un monumento, a renderlo inaspettatamente "dialogico". E' probabile che durante la Guerra Fredda il Memoriale sovietico del Treptower Park, nell'ex-Berlino est, fosse un luogo alienante e opprimente: un chilometro quadro di ridondanza guerresca e realismo socialista, bassorilievi a illustrare il contrattacco russo e la presa di Berlino, la colossale statua di un soldato che tiene in braccio un bimbo e con una spada ha appena frantumato la svastica...
Nel visitarlo in un tardo pomeriggio dell'ottobre 2001, ho trovato il Memoriale molto bello e commovente: quel soldato alto undici metri sembra aver usato la spada per rompere le catene espressive a suo tempo impostegli dalla committenza (il regime stalinista). Oggi il Memoriale non serve più ai secondi e terzi fini che stavano dietro la sua realizzazione, non deve imporre né cementare alcun semi-apatico consenso e finalmente può adempiere il suo compito primario, cioè co-memorare ("ricordare insieme") la lotta contro il nazi-fascismo, non solo in Germania ma in tutta Europa.
A essere celebrata non è più l'ideologia ufficiale di uno stato autoritario, ma il liberatorio processo di mitopoiesi scatenato dalla resistenza di Stalingrado e dalla controffensiva che ne seguì.
A pensarci bene, il Memoriale adempie anche un compito secondario, del tutto nuovo: essere una presenza scomoda e beffarda nel centro dell'Europa del capitale, oggi malferma e in recessione ma fino a ieri fanatica nell'imporre ai miscredenti la fede neo-liberistica.

Anche a Sabbiuno c'è un monumento, un monumento che non è mai stato chiuso né monologico, che non ha davvero niente di retorico né di burocratico e che al contrario del Memoriale di Treptow è sempre stato laico e inclusivo, mai appesantito dall'ideologia. Un piccolo miracolo.
Nel Dopoguerra, per co-memorare quei cento combattenti antifascisti, sul ciglio del burrone furono posati massi di piccole e medie dimensioni, ciascuno con inciso il nome di un partigiano. Quasi un intervento di "land art", leggero e armonioso, tanto perfettamente inserito nell'ambiente circostante da apparire naturale.
Col tempo, alcuni nomi si sono un po' consumati, e tra i massi sono cresciute piante, alberelli; dal 1974 intorno al monumento c'è un piccolo parco, nulla più che una striscia d'erba lungo l'orlo del baratro, larga forse dieci metri e lunga poco più di cento. All'ingresso c'è una lapide molto sobria, e premendo un tasto su una scatola bianca si può sentire una voce raccontare tutta la storia. In fondo al parco, nel punto più alto del crinale, c'è una scultura/installazione più recente, che "stona" con tutto il resto ma per fortuna è sufficientemente discosta (mitragliette allineate su un muretto di cemento).    
Quei massi parlano, li interroghi e ti danno mille risposte. Su quel calanco, come a Treptow anche se in un modo completamente diverso, ti senti parte di una comunità aperta in lotta, una comunità che sfida il passare del tempo e supera in avanti persino le degenerazioni dei valori che spingono a lottare.

Il discorso fatto per i monumenti vale anche per le cerimonie, per i rituali.
Non si può prescindere dai rituali come non si può prescindere dai miti, poiché entrambi danno forma alla vita, ma ci si deve sforzare perché i rituali e i miti non si svuotino né si autonomizzino.
"Ricordare insieme" non è per forza di cose un atto impoverente, alienato e sclerotizzato (sclerotizzazione di cui è magnifico esponente il presidente Ciampi). La co-memorazione può anche essere testimonianza civile dal basso, azione propositiva nello spazio pubblico, manifestazione di una "eccedenza" simbolica che spiazza continuamente i poteri costituiti.
Un iconoclasma banale, inutile e senza fondamento porta i falliti eredi di certe avanguardie estetiche e/o politiche a demonizzare l'idea stessa di "cerimonia", salvo poi agire essi stessi secondo una ritualità misera e deteriore (vedi il micro-corteo dei "duri" il 20 luglio scorso a Genova).
A costoro ha già risposto fin troppo bene Joseph Campbell, sommo studioso di mitologia; in una conferenza del 1964 sulla "importanza dei riti", Campbell diceva:
"Tutta la vita è struttura. Nella biosfera, più elaborata è la struttura, più elevata è la forma di vita. La struttura di una stella marina è considerevolmente più complessa di quella di un'ameba, e la complessità aumenta risalendo lungo la linea evolutiva, diciamo fino allo scimpanzè. Avviene la stessa cosa nella sfera culturale umana: la grossolana convinzione che l'energia e la forza possano essere rappresentate o interpretate abbandonando o rompendo ogni struttura è confutata da tutto ciò che sappiamo dell'evoluzione e della storia della vita".

A Bologna, l'11 marzo di ogni anno si ricorda Francesco Lorusso, ucciso dai carabinieri nel 1977. Francesco fu ammazzato nella fase discendente del grande ciclo di lotte iniziato nel '68. E' vero che i moti del '77 annunciavano nuove soggettività, nuovi comportamenti, nuove pratiche di comunicazione, cionondimeno la fase era terminale, dopo vennero la repressione e il carcere, poi la caduta nella marginalità, l'eroina, il riflusso, la Reaganomics e il craxismo, la desertificazione sociale e per alcuni la resistenza disperatissima nelle nicchie delle città.
Per tutti gli anni Ottanta e Novanta, nonostante la generosità e gli sforzi soggettivi di chi organizzava, tutti gli "11 marzo" si sono svolti sotto un cielo color ematoma.
Il primo anniversario della morte di Carlo Giuliani ha avuto in sorte un cielo diverso, in tutti i sensi. Ne sono fermamente convinto: Carlo è stato ucciso all'inizio di un ciclo. Questa cosa a Genova si respirava a pieni polmoni. In Piazza Alimonda si è svolto un altro piccolo miracolo laico, una commemorazione semplice ma emozionante, poco zavorrata dall'ideologia, commossa ma non sconsolata, incazzata ma non obnubilata dall'odio.
Guardando quei palloncini salire e allontanarsi, partecipando a quell'applauso lungo mezz'ora, ho pensato a Sabbiuno.  Mi sono reso conto che stavo vivendo la stessa esperienza di chi, dopo la Liberazione, si ritrovò su quel ciglio per assistere alla posa di quei massi. Ricordo di aver detto a Luca: - Che bella cosa...
Come a Treptow meno di un anno prima, ho pensato a mio nonno, al lavoro fatto per gli ultimi due libri, a Vitaliano... Poi mi sono venuti in mente tanti nomi, nomi di morti e di vivi, vittime del grilletto facile e del grilletto stronzo: Soriano Ceccanti, Giannino Zibecchi, Anna Maria Mantini, Mara Cagol, Francesco, Giorgiana Masi...
Ormai i palloncini erano più piccoli di granelli di sabbia, e l'applauso continuava, nessuno voleva smettere.
Poi qualcuno ha rotto l'incantesimo, lanciando uno dei soliti slogan, di quelli scontati, che fanno incartapecorire l'aria: "Carlo è vivo e lotta insieme a noi etc." poi "Hasta la victoria siempre", e un terzo che non ricordo. Qualcuno li ha ripetuti, ma l'applauso si è di nuovo insinuato, è ripartito ed è durato ancora qualche minuto.
Mi è venuta in mente la scultura delle mitragliette su a Sabbiuno: superflua, sovra-codificata, proprio come quegli slogan... ciò non toglie che è per interrogare i massi che si continua a salire su quel ciglio. Ed era per partecipare a un piccolo miracolo che siamo tornati a Genova.

Nel grande serpente che era il corteo, sia detto senza offesa, era facile distinguere chi era stato in piazza Alimonda da chi veniva da altre piazze tematiche: noi camminavamo a mezzo metro d'altezza.
Mi dicono che qualche sedicente "duro e puro", imbolsito dal proprio desiderio di sconfitta, si è indignato vedendo un corteo felice: "cosa c'è da festeggiare? è una vergogna!".
A Sabbiuno, costoro non vedrebbero che aride pietre. A Treptow, vedrebbero solo il fantasma di Stalin. A Vallegrande, in Bolivia, vedrebbero solo buchi nel terreno.

Le moltitudini, dal canto loro, sanno interrogare il mondo, e sono ancora in grado di stupirsi delle risposte.



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MENO MALE CHE C'è GENOVA

di Wu Ming 3


Meno male che c'è Genova. Da un anno all'altro continua a incidere un segno nella nostra anima, ci costringe a saper essere molti, ci parla e parla al mondo intero.
Meno male che si può girare, un anno dopo, Genova, senza grate e container, bella, nonostante i plotoni, semideserta la mattina, ma si sente che tutti hanno capito, anche stavolta, non importano i negozi chiusi, uno sciamare di corpi viandanti in attesa, e i genovesi ci saranno, eccome.
Meno male che una folla enorme, che attraversa generazioni e culture, riesce a comporre, spontanea e misurata, il suo epicentro emotivo dentro una piccola piazza, a istruire un rito laico, semplice e toccante, che crea legame, comunità, amore per la specie.
Meno male che il movimento ci ricorda, nel modo più dolce, che è nel suo corpo globale che risiede l'intelligenza e non nelle sue componenti in affannosa rincorsa di definizione. Tutte, insieme ai loro portavoce e rappresentanti, devono capire che, in qualsiasi istante, il movimento può fare a meno di loro, ma non viceversa.
Meno male che Genova ci ricorda come valga la pena di esserci, comunque, nonostante ciò che intorno a noi si ostina a non cambiare. Le nostre ragioni sono più forti di un anno fa, più forti che mai, ma la sfida inaudita che queste stesse ragioni contengono ci impone di mutare noi stessi, radicalmente, dentro, e poi tutto il resto.
Meno male che i "militanti di base", o i cani sciolti, sono più lucidi e lungimiranti dei nostri portavoce.
Cresceremo ancora. L'onda travolgente che proviamo a contrastare scuote dalle fondamenta l'intero pianeta: milioni, forse centinaia di milioni, di umani sono in ascolto, vigili sebbene impauriti dal disastro che avanza, insieme alla carestia e alla miseria. Ci chiedono denuncia e lotta all'ingiustizia, certo, ma anche, soprattutto, soluzioni, vittorie parziali da additare e riprodurre, sperimentazioni concrete di un altro modo di gestire la vita e le risorse disponibili. è tempo di agire, sorprendendo se stessi per determinazione e capacità di imparare tutto daccapo.
Genova ci riaffaccia su una nuova stagione, non meno torbida e sconvolgente di quella appena trascorsa, ma che possiamo affrontare sollevando l'onda, lenta e possente, delle moltitudini in marcia da Genova contro l'Impero e verso la semplice intransigenza dei diritti universali: terra, acqua, dignità, reddito vitale per ogni abitante della Terra.
La cerimonia laica di piazza Alimonda, "Piazza Carlo Giuliani", ha un valore fondativo, costituente, che nessun "documento politico" può ottenere e nessun "carismatico leader" può infondere. Coloro che dimostreranno di non aver capito, di nuovo, la lezione di Genova, riceveranno una sanzione inesorabile, scivolando nelle retrovie della storia.
Ai meravigliosi genitori di nostro fratello Carlo, va il merito di averci impartito, tutti i giorni, da un anno, con infinita dolcezza, questa lezione di amore e determinazione, di lotta e dignità i compostezza, dolore e gioia di sentire la vita. Meno male che esistono.
Uno dei miei amici più cari mi ha detto: - Se proprio devo avere un capo, voglio Heidi Giuliani.
Esatto.


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da Carta, anno IV, n.28, 18/24 luglio 2002, pagg.37-39:

MIGLIAIA DI CANTASTORIE RACCONTANO IL G8.
E LA MOLTITUDINE CI CHIEDE DI CAMBIARE.

Intervista a Wu Ming raccolta da Marco Trotta

D: Qualche mese prima di Genova, Wu Ming 1 andò a Quebec, in Canada, per le contestazioni contro l'Accordo sul Libero commercio nelle Americhe (Alca). L'Italia si stava preparando al G8 e qualcuno, perfino allora, agitava lo spettro di "crisi demografiche" del movimento, ma da quel viaggio vennero altre indicazioni.
Quali suggestioni ne avete ricavato.

R: Quebec fu un'esperienza esaltante, fondativa. Al reportage di WM1 dedicammo un intero numero (doppio, il 38-39) della nostra newsletter Giap. Le indicazioni che ne trassero i pochi italiani presenti fu che a Genova occorreva "fare come a Quebec", con una "cornice" elastica al cui interno ciascuna realtà potesse agire e comunicare col proprio stile e le proprie tattiche, dal Black Bloc alle vecchiette, dai cattolici ai sindacati ufficiali, dalle tute bianche ai premi Nobel. A differenza che a Genova, il Black Bloc si comportò in maniera per nulla ambigua, rispettò la cornice, cercò e ottenne il consenso. In generale, tutte le realtà si muovevano in "territorio amico", e ne erano ben coscienti.
Come a Quebec, anche a Genova la "cornice" avrebbe dovuto definire un bersaglio comune (i muri della vergogna), un'allegoria condivisa (l'assedio) e magari una vittoria simbolica sul cui conseguimento tutti fossero d'accordo (l'accesso nella zona rossa). Purtroppo chi era stato a Quebec non riuscì a comunicare fino in fondo quanto nelle manifestazioni contro l'Alca fossero state superate le idiote divisioni tra gruppi e tra linguaggi, superate radicalmente, nella prassi.
Va comunque detto che la polizia canadese represse in maniera dura, scandalizzando l'opinione pubblica, ma se la confrontiamo con le nostre forze dell'ordine, notiamo un certo fair play che contrasta con la bestialità e il sadismo visti a Genova. La "cornice" saltò per carenze nostre, ma anche a causa di un'indicibile pressione esterna.

D: Subito dopo si entrò nel clima caldo delle giornate di Genova.
 
R: Sapevamo che sarebbe stato un momento di "verifica di massa" molto importante per la crescita del movimento soprattutto europeo e che, comunque fossero andate le cose, avrebbe sancito un passaggio di fase.
Eravamo convinti che il movimento avesse bisogno di narrazioni unificanti. Dopo Seattle, per due anni, si erano prodotte nuove forme di partecipazione nel concetto di "moltitudine", forme caratterizzate dalle estreme eterogeneità culturali, identitarie (intesa anche come esplicita non appartenenza o pluri appartenenza) prima che politiche. Occorreva una sintesi mitologica, prima che programmatica. Crediamo che la comunicazione, prima che informazione, produca mitologie, soggetti e concetti che prendono forma e si alimentano nell'immaginario collettivo in forma di narrazione.
Da qui nasce il proclama "Dalle moltitudini d'Europa in marcia contro l'Impero e verso Genova", concepito dentro questa dimensione del movimento, tanto da averlo voluto rendere di tutti scegliendo di non firmarlo. Si è usato un immaginario medioevale, a rappresentare il paradosso di una pretesa "modernità" che annulla, però, ogni altro diritto individuale e collettivo per renderci tutti succubi delle scelte dei "nuovi signori", siano esse il disconoscimento del trattato di Kyoto o gli scudi stellari.
Nella preparazione di Genova ci sembrava metaforicamente illuminante l'idea che i nuovi "paria", i nuovi "spossessati", si preparassero ad assediare le mura di un nuovo "castello": la zona rossa. Pensiamo che queste narrazioni abbiano un significato sociale almeno pari a quello di analisi scientifiche che hanno assunto "moltitudini" e "Impero" come concetti chiave. Inoltre, questo è un movimento che crea comunità in senso generalizzato, comunità aperte, fatte di diversità, e non può esistere comunità senza storie, senza la capacità di "raccontarsi", di sentirsi coesi esprimendo nuove parole, elaborando nuove culture e identità. D'altra parte l'espropriazione della propria storia individuale o collettiva, per essere gettati nella schiera degli invisibili o per subirne altre imposte, è una caratteristica del modello di società che questo movimento contesta.

D: E cosa è successo dopo?

R: Innanzitutto dovremmo riconoscere che Genova, pur essendo stato a tratti un evento anche tragico, è diventata un momento epico dell'immaginario del movimento. Ha prodotto video, films, libri, racconti, che veicolano all'interno di una comunità globale delle storie. è un po' come avere la versione moderna e tecnologica di centinaia di migliaia di cantastorie in giro per il mondo, che ne diffondono la memoria e la morale e che per questo hanno saputo anche sperimentare forme innovative e competenti di utilizzo di media dal basso. Infatti, a un anno di distanza, e per ancora chissà quanto tempo, assoceremo la città all'evento, diremo ancora "eri a Genova" non "eri al G8".
Del resto era un movimento che dava fastidio, per la sua vastità e capacità d'attrazione, e che, per questo, ha attirato su di sè una repressione istituzionale per la maggior parte sventata proprio grazie alla partecipazione numerosa e alla presa di coscienza che aveva determinato come si è visto nella giornata di sabato 21.
Probabilmente dopo Genova comunque si sarebbe cambiato strategia ma questo dimostrava che quello che era stato fatto era importante. Il dopo Genova ha rappresentato la fine di una prima fase di espansione del movimento globale che ci ha posto di fronte a nuove esigenze anche in termini di comunicazione. Lo stile che avevamo usato fin lì non era più adeguato per descrivere ancora un movimento che aveva dimostrato di poter dettare l'agenda degli impegni politici ai potenti della terra e che, comunque, quand'anche non ci fosse stata quella feroce repressione poliziesca (che ha messo in crisi le forme della contestazione fisica di piazza), avrebbe dovuto fare i conti con questa nuova dimensione acquisita organizzandosi di conseguenza. Una dimensione della costruzione per entrare nei territori a dare risposte, nuove ipotesi e prospettive per affrontare il quotidiano. Una sfida ancora aperta anche perché nel frattempo si è dovuta confrontare con una nuova logica emergenziale.

D: Infatti, ne frattempo, mentre ci si stava rendendo conto di questo è arrivato l'11 Settembre. Ma anche le  mobilitazioni contro la guerra, fino a Porto Alegre

R: I percorsi intrapresi dal movimento fino a quel momento, contestando organismi non eletti come FMI, BM, erano stati prodotti da una serie complesse di relazioni tra nord e sud del mondo, di prese di coscienza tra comunità estese su tutto il pianeta. Un evento drammatico come questo, comunque, ha dimostrato di come certe analisi rientrassero in un quadro assolutamente più vasto e coerente. Del resto, ad un certo punto, tutti quanti abbiamo detto che c'era solo il movimento tra le bombe sui civili da una parte ed i kamikaze dall'altra ed è stata una responsabilizzazione assolutamente inaspettata.
D'altra parte, in quel momento cambiava l'agenda politica mondiale con il potere che svelava la sua vera natura "no global", un sistema economico in crisi che si è cercato di rianimare con un keynesrismo militare ed un movimento costretto a rifluire nel "locale" contro quella che è sembrata subito una guerra permanente globale al tempo stesso militare, sociale ed economica. In Italia ha significato una difficoltà in più con il movimento che ha rischiato e sta rischiando di relegare le sue energie solo nella contrapposizione del governo Berlusoni in quanto tale perdendo di vista il resto la propria agenda globale e interagendo su un terreno scomodo soprattutto dal punto di vista della comunicazione non avendo ancora capito come costruire un proprio immaginario.in questo contesto.

D: D'altra parte si trattava di affrontare anche scenari davvero cruenti come quelli in Palestina. Wu Ming 4 ha provato anche ad andarci. Come cambiava il ruolo della "disobbedienza" in questo contesto? Si può ancora parlare di "società civile"?

R: Tutto sembra più grande di noi e questa sembra un detterente al "fare", ma la stessa crisi di tutta l'impostura neoliberista che ci hanno venduto in questi anni, dimostra che si può e bisogna trovare un nuovo spazio dell'azione. Dove vengano meno i concetti di un "pacifismo" o "ribellismo" come tradizionalmente li abbiamo conosciuti, come tutto ciò che è scontato perché comunque si deve confrontare con uno scenario inedito, e ci si ponga il bisogno di conseguire delle vittorie, dei piccoli passi di avvicinamento tangibili a quell'alto mondo possibile ipotizzato a Porto Alegre.
Un esempio? In Argentina, paese in crisi dopo essere stato fiore all'occhiello dell'FMI, in una metropoli "difficile" come Buenos Aires in certi quartieri si sono creati consigli di barrios, sperimentazioni autogoverno dal basso e perfino nuove forme di comunicazione e contestazione come il cacerolazo che oggi sono entrati nel patrimonio collettivo del movimento, stabilendo collegamenti tra mondi apparentemente lontani ed anche questo è mitopoiesi.

D: C'è stato, però, un coro di mass media che ha cercato segnali ai primi cortei meno numerosi del movimento

R: In Italia c'è stata una manifestazione sindacale di 3 milioni di persone. Stavamo parlando di moltitudini o no? è un problema di "patenti" per chi non vuole riconoscere che il partecipante tipo al movimento dei movimenti non fa parte di una specifica organizzazione o forse di nessuna. Anzi, questo movimento ha iniziato da solo facendo l'unica opposizione vera per sette mesi in questo paese, dopo di ché è sceso in campo il sindacato ed oggi nessuno può negare che l'intero paese è in fermento. è probabilmente più vero che i mass media, non senza una certa mala fede come quando si è voluto contrapporre il movimento sindacale a tutto resto e usando riferimenti mediatizzabili in termini di dirigenze e portavoci, hanno rilanciato un'idea di crisi rispecchiandola nei limiti e negli errori che hanno dimostrato le strutture organizzate all'interno del movimento, nello sforzo di organizzare manifestazioni sempre e comunque partecipate per mesi e mesi.  Una considerazione che non consideriamo polemica e speriamo serve a superare questo specifico problema per il futuro nel rendere coscienti, nei fatti, che questa situazione ci chiede un grande cambiamento ad esempio nei gruppi che per anni hanno portato avanti battaglie d'avanguardia e magari pensano che questo oggi sia una credenziale per mettersi alla testa di qualcosa.
La sfida da accettare è così ampia e globale che relativizza i ruoli di tutti ed è fisiologico, forse, non essere ancora adeguati. Dopo averla evocata ora questa moltitudine ha preso coscienza e bisogna evitare l'errore di posizionarsi all'interno e mettere da parte quella dimensione che ti porta costantemente fuori per non cedere all'interesse singolo e guadagnare tutta la partita

D: E quindi, a Genova un anno dopo, con che prospettiva?

R: Siamo sicuri che a Genova ci saranno tantissime persone che ci saranno comunque anche se nessuno li invitasse. A Genova non per avere un nuovo luogo di commemorazione, che pur è importante, ma per riprendere i fili lasciati un anno fa e continuare a intessere la trama di quella narrazione collettiva, che è stato un momento epico e ha prodotto migliaia di altri eventi e narrazioni collettive per tornare ad essere protagonisti.



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