Nandropausa #6 - Libri letti e consigliati da Wu Ming - 16 giugno 2004

0. Avvertenze + editoriale
1. Massimo Carlotto, L'oscura immensità della morte [WM1, WM5]
2. Girolamo De Michele, Tre uomini paradossali [WM1, WM4]
3. Emidio Clementi, L'ultimo dio [WM1]
4. Edward Abbey, Fuoco sulla montagna [WM2, WM1, WM5]
5. Cesare Battisti, L'ultimo sparo [WM1]
6. Tommaso Didimo (a cura di), Il re operaio [WM1]
7. Jutta Richter, Quando imparai a addomesticare i ragni [WM4]
8. Johannes Hösle, Prima di tutti i secoli [WM1]
9. Matteo Melchiorre, Requiem per un albero [WM2, WM1]

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Puntuale come sempre, ecco il sesto numero di Nandropausa, l'e-zine semestrale dedicata ai nostri consigli di lettura.
Prima di tutto, le solite avvertenze: questa non è né potrà mai essere una panoramica esaustiva su quanto di interessante è stato pubblicato in Italia negli ultimi mesi. Siamo cinque esseri umani che leggono per diletto quando hanno il tempo e la forza di farlo, e il criterio con cui scegliamo che libro leggere è un non-criterio, dipende dai tiramenti di culo del momento.
Su Nandropausa, salvo alcune eccezioni (sassolini tolti dalle scarpe o perplessità da comunicare), segnaliamo libri che ci sono piaciuti davvero. Non abbiamo debiti da pagare (in ogni caso, non è così che li paghieremmo) né dobbiamo "tenere buono" alcuno.
I libri non sono in ordine di gradimento, questa non è una "classifica", sono tutti ex aequo.
Su Nandropausa recensiamo solo narrativa, al massimo biografie (se hanno un taglio narrativo).
Non siamo critici letterari né intendiamo diventarlo.
Rare eccezioni a parte, su Nandropausa commentiamo solo libri in catalogo e non introvabili.
Come sempre, il prossimo numero (il 6-bis) ospiterà i commenti dei giapster sui libri segnalati qui.

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Le parole "noir" e "genere" sono dappertutto, non si capisce più una madonna. E' un effetto collaterale della rivolta contro quello che Valerio Evangelisti ha definito il "genere carino" e altri hanno definito il "genere ombelicale", cioè quella narrativa emaciata, "d'autore", tipicamente italiota, che opera sul "terreno sicuro del rapporto nonna-nipotina, figlio ingenuo e padre infame, moglie ambiziosa e marito cornuto, giovane indisciplinato e società di merda" (V. Evangelisti, Sotto gli occhi di tutti. Ritorno ad Alphaville, edizioni l'Ancora del Mediterraneo, Napoli 2004). Noi ci aggiungiamo altri tre vis-à-vis ricorrenti: scrittore pieno di dubbi vs. rapace industria editoriale, cinquantenne di sinistra in crisi vs. ideali di un tempo, insegnante ben intenzionato vs. studenti coglioni.
La rivolta contro la dittatura del "carino" e il ritorno di fiamma della letteratura di genere - o paraletteratura, o almeno un'altra decina di definizioni insoddisfacenti - erano e rimangono necessari. Il problema è che, mentre l'Italia che legge era sotto il tallone di ferro degli autori ombelicali, l'editoria italiana (la stessa che con un colpo di genio inventò il libro-rivista da edicola tipo Urania o Il Giallo Mondadori) si è disabituata a trattare la letteratura "bassa" (!?) o che attinge dal "basso", e oggi fa confusione. C'è chi, vedendo che il noir tira appena meno di un pelo di figa, definisce "noir" qualunque libro pubblicato sotto il sole, sovente confondendo il noir con il mystery o con l'hard-boiled; qualcun altro, pur con le migliori intenzioni, finisce per trasformare l'autore in "Autore" e pubblica in hard-cover di lusso romanzi d'avventura che si leggono d'un fiato sull'interregionale da Bologna a Pesaro, e meglio sarebbe pubblicare direttamente in tascabile. Certo, vi sono eccezioni importanti, di editori di varie dimensioni che hanno ben chiare le specificità della letteratura di genere, e sanno come valorizzarla. Spesso sono gli editori i cui libri segnaliamo su Nandro. Tuttavia, l'industria nel suo complesso va avanti un po' alla cazzo, e questo è pericoloso: se i libri vengono presentati per quello che non sono, i lettori si disaffezionano, e c'è sempre il pericolo di un nuovo golpe intimista/gggiovanile, minimalista, alto-autoriale. In una sola parola: spaccamaroni. E sarebbe una sconfitta. Per prevenirla, servono lettori da combattimento, disposti a combattere la guerriglia semiologica per capire cosa c'è tra le due copertine di un romanzo, al di là delle cazzate sparate dai critici, dai recensori a cottimo e purtroppo anche dagli autori medesimi. Per una vigilanza democratica, contro ogni tentativo di restaurazione, tutto il potere ai lettori e alla loro repubblica!

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Massimo Carlotto, L'oscura immensità della morte, e/o, Roma 2004, € 13,00
Carta ecostenibile: NO; Copyleft: NO
http://www.edizionieo.it/; http://www.massimocarlotto.it

[recensione apparsa su Carmilla on line il 14 marzo 2004]:

Ho divorato in poco più di due ore l'ultimo romanzo di Massimo Carlotto, L'oscura immensità della morte (E/O, Roma 2004).
Qualche anno fa presentai a Bologna Arrivederci amore ciao, che aveva come protagonista Giorgio Pellegrini, "pentito" della lotta armata il cui percorso di formazione criminale iniziava proprio con la scelta del "pentimento" e terminava nella completa abiezione e disumanità.
In quell'occasione dissi che Arrivederci amore ciao restituiva all'espressione "noir" il suo significato letterale: dopo tanta letteratura beige, marroncina, "fumo di londra" e color cacarella, finalmente un romanzo italiano nerissimo, in cui non vi era redenzione, o meglio: vi era la "riabilitazione" dell'ex-compagno agli occhi della società borghese che aveva "tradito". Dal mio punto di vista, il contrario della redenzione.
Dissi che l'approccio di Carlotto era molto più interessante e utile della reiterazione di clichés come lo sbirro buono e onesto, tanto diffusi nella narrativa di genere dello Stivale. Di recente siamo arrivati alla pornografia pura e semplice, con certi libri scritti da sbirri, dei quali sospetto vengano pubblicati soltanto perché scritti da sbirri (si veda il caso di Michele Giuttari, tanto per non fare nomi).
Dicevo, è molto più interessante un autore che t'infila la merda dritta nelle narici, che ti costringe a identificarti (perché l'io narrante serve a questo) con un personaggio respingente e accompagnarlo nella sua scalata sociale in un ambiente codino e perbenista, attraversando con lui un Nord-Est corrotto e carente d'ossigeno.
L'oscura immensità della morte si spinge addirittura oltre. Sempre sullo sfondo di un Veneto invigliacchito ed esausto di vivere, Carlotto indaga quella che Giorgio Bocca nel suo libro sul 7 Aprile definiva: "la pietosa, comprensibile faziosità delle vittime e dei parenti".
Mi piace considerare questo libro un contributo anticipato al dibattito su memoria, colpa e pena scatenato dalla richiesta di estradizione in Italia di Cesare Battisti. A dire il vero non si tratta di un dibattito, visto che i media ospitano solo le certezze, le ignoranze e le "male fedi" del partito giustizialista e dei pasdaran della "vendetta infinita" ("opinionisti" affini al Presotto che compare nel romanzo), occultando qualunque parere critico.
Il rapinatore Raffaello Beggiato sta scontando l'ergastolo per avere perso la testa e ucciso due ostaggi presi durante una fuga, in seguito a una rapina andata male. Gli ostaggi erano un bambino di otto anni e sua madre.
Dopo quindici anni di prigione, Beggiato non è più la stessa persona, pur restando fedele a ciò che rimane del codice d'onore della malavita. Ignorando le offerte di sconti di pena, non ha rivelato il nome del suo complice mai catturato. E' colpevole di un crimine odioso, ripugnante, eppure ha una sua personale integrità.
Quando a Beggiato viene diagnosticato un cancro, il suo avvocato presenta un'istanza di grazia e - in subordine - una richiesta di sospensione della pena per malattia.
Per la grazia è necessaria l'approvazione dei parenti delle vittime, cosa assai discutibile e reminiscente di un ordinamento giuridico tribale. La vittima, la più lontana dai requisiti di distacco e lucidità necessari a somministrare la giustizia, è chiamata a decidere il destino del suo carnefice di un tempo. In questo modo è costretta a rivangare e rimuginare, e la sorte di una persona dipende dal risultato dei rimuginamenti.
Il parere viene chiesto a Silvano Contin, marito e padre delle due vittime, nel frattempo sprofondato in un pozzo senza fondo di rancore e desiderio di vendetta. Della moglie e del figlio, Contin tiene in casa solo le foto dell'autopsia, perché "il dolore mi [aiuta] a orientarmi nell'oscura immensità della morte".
Parte da qui la catena di eventi che porta la vittima di un tempo a improvvisarsi giustiziere e divenire a sua volta carnefice, e il carnefice di un tempo a divenire prima vittima e poi, con un colpo di scena, redentore che offre all'altro la "seconda possibilità", quella che a lui è stata negata.
In cosa consiste la "seconda possibilità", e in che misura cambierà l'ex-vittima e neo-carnefice? Per saperlo dovete leggere il libro, a cui la mia descrizione scritta a caldo non rende giustizia (oops!).
Si tratta senz'ombra di dubbio di un romanzo "a tesi". Nelle interviste, l'autore non sembra farne mistero. Tuttavia è molto meno didascalico di quanto si possa pensare e, tesi o no, se ne avvertiva la necessità, in un momento di massima strumentalizzazione del dolore dei "parenti delle vittime". Mica di tutte, s'intenda: è presentabile, notiziabile e "spendibile" soltanto il dolore di alcuni e non di altri. I parenti delle vittime del "terrorismo rosso" vanno benissimo; i parenti delle vittime delle stragi di stato sono già meno telegenici; i parenti delle vittime della repressione poliziesca (le centinaia di "morti da Legge Reale"), beh, quelli è meglio lasciarli stare, potrebbero mettersi in testa di sfruttare l'occasione per "fare politica".
Oggi le etichette "noir" e "thriller" vengono appiccicate a due romanzi su tre, gli editori italioti non si preoccupano se il genere s'inflaziona e lo scoppio della bolla è ormai imminente: a loro interessa l'uovo oggi, chi se ne fotte della gallina di domani? Dopodomani, torturati dai crampi della fame, compreranno polli di batteria importati da chissà dove, a rischio d'influenza aviaria. Purtroppo, a differenza degli allevatori giapponesi, nessun editore farà seppuku per la vergogna e il disonore.
Comunque vada, noi ci teniamo ben stretto Carlotto e i suoi romanzi nerissimi. [WM1]

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L'oscura immensità della morte. Il titolo magniloquente non tragga in inganno: proprio nel momento in cui la recente ossessione nostrana per il noir mostra la corda, Massimo Carlotto tira fuori dal cappello a cilindro una storia senza speranza, atroce, contemporanea, coraggiosa, e con questo chiude in modo forse definitivo una stagione. La narrazione è condotta attraverso un grado zero di scrittura che è l'unico capace di rendere lo strazio umano e la natura bieca del protagonista e dei comprimari, e attraverso una struttura sicura, diretta, a prova di stupido. Un umanità senza speranza, del tutto calata nell'abiezione dell'Italia contemporanea. Lettura consigliata, a patto che ci sia sul comodino, a riequilibrare il tutto, qualcosa di molto edificante, tipo un sermone del Dalai Lama. [WM5]

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Girolamo De Michele, Tre uomini paradossali, Einaudi Stile Libero Noir, Torino 2004 € 8,50
Carta ecosostenibile: SI; Copyleft: SI

Quando iQuindici ci dissero che, fra tutti gli "scrittodattili" (copyright Benni) ricevuti, ce n'era almeno uno che meritava d'esser segnalato a un editore, decidemmo di non leggerlo, perché la nostra ambasceria a Stile Libero fosse la più "neutrale" possibile. Abbiamo tenuto fede a quell'impegno con noi stessi anche quando Severino Cesari ci ha chiamato dicendo che gli era piaciuto e volevano pubblicarlo. Non lo abbiamo letto nemmeno dopo aver conosciuto l'autore. Abbiamo aspettato che il romanzo uscisse, per leggerlo da lettori, al pari di altre migliaia di lettori, anziché da addetti ai lavori.
Credo sia stata una saggia decisione, in primis perché il ricordo del libro è ancora fresco nel cerebro, in secundis perché nel frattempo sono usciti diversi romanzi sui Seventies italiani (alcuni già sedimentati come La banda Bellini) ed è più facile capire la differenza tra questo e quelli.
Tre uomini paradossali (d'ora in poi 3UP) è stato scritto nel 1993, parzialmente riscritto nel 1998, ed è rimasto "nel cassetto" finché De Michele non ha deciso di spedirlo a iQuindici. Il fatto che venga pubblicato solo ora crea strani echi e paradossi: prima che Jean-Claude Izzo pubblicasse la sua "Trilogia di Marsiglia" e Carlotto scrivesse i suoi romanzi dell'Alligatore, De Michele anticipava alcuni vezzi di entrambi. Uscendo adesso, 3UP sembra ispirarsi ai suddetti, ma solo se uno non fa caso all'anno in cui fu scritto.
D'altro canto, nel '93 questo libro sarebbe stato un'anomalia, poco appetibile per un grande editore: all'epoca c'era meno attenzione per il noir e l'hard-boiled, e troppo poco interesse per gli anni Settanta (non abbastanza remoti per un revival) e gli anni Ottanta (ancora troppo vicino il malodore). Sì, perché in realtà 3UP parla degli anni Ottanta, ma andiamo con ordine.
Un'altra cosa: ho letto 3UP due settimane dopo dopo aver consegnato New Thing all'editore. Nel mio romanzo solista, a un certo punto compare una banconota da cinquecento lire con qualcosa scritto sopra (un nome). Anche in 3UP compare una banconota da cinquecento lire con qualcosa scritto sopra (un numero di telefono). Ho segnato la pagina del sopralluogo a casa dello Strabico con un gigantesco punto esclamativo!
Le cose più belle del romanzo:
- la carrellata sugli anni Ottanta del capitolo 1, non credo di esagerare se dico che è uno dei passaggi di letteratura italiana più efficaci degli ultimi anni;
- le continue riflessioni su cosa sia un "fatto" e cosa sia o meno "reale";
- l'abilità con cui veri accadimenti degli anni Settanta vengono incastonati nella trama e re-interpretati: si parla di una sparatoria nel bar di Quarto Oggiaro, e se uno conosce la storia di Prima Linea pensa subito all'insensato massacro di via Adige, 1 dicembre 1978, quando Tagliaferri e Baldassironi uccisero tre avventori di un bar per nessuna ragione precisa.
Una cosa che inquieta: anche qui lo sbirro buono, addirittura ex-settantasettino. Pare capiremo nel sequel perché mai uno così abbia deciso di entrare in pula, ma chi legge non sa del sequel e si chiede: "Quanti settantasettini che non fossero già sbirri infiltrati, sono entrati in polizia iniziata la risacca, rimanendo per giunta amici dei loro ex-compagni?". E' un po' lo stesso problema de "La meglio gioventù": non capisci mai perché il biondo che sclera sempre decida di fare lo sbirro, boh! Solo che, al contrario di quello, il personaggio di Andrea è manifestamente inverosimile, te lo grida quasi in faccia, la sua presenza sulla pagina è conturbante. E' ancor più inverosimile del Fabio Montale di Izzo. E' il verso di un altro Montale, Eugenio, a far capire l'operazione:

...tre uomini paradossali
vestiti di ritagli di giornali
con istrumenti mai veduti.

L'investigatore-io-narrante, Barbara e la sua trasmissione radiofonica, Andrea poliziotto ex-autonomo fanatico di John Wayne, Cristiano detenuto politico esperto di Manzoni, insomma, questi quattro personaggi sono volutamente eccessivi, sono "vestiti di ritagli di giornali" e stanno sulla carta (riciclata) per suonare strumenti mai visti, cioè un approccio inconsueto agli anni Ottanta.
3UP, benché scritto prima, si situa già dopo il rinnovato interesse sugli anni Settanta, e già "fa i conti con gli anni Ottanta", e per far questo la trama deve svolgersi nei Novanta...
Ecco il vero paradosso: qui gli Ottanta si rivelano per quel che sono stati, ossia il negativo del decennio precedente, l'esatto opposto, tutto costruito - soprattutto in Italia - sulla rimozione di quanto si era affermato prima. Basta menzionare una cosa degli anni Settanta, e si vedrà che nel decennio successivo si affermò l'esatto contrario:
Comunità? Individualismo.
Passione politica e impegno civile? Riflusso.
Partecipazione diffusa? Decisionismo dall'alto e "governabilità" come valore in sé.
Ricerca di stili di vita alternativi? Yuppismo e voglia di far soldi.
Radio libere? Canale 5.
Zampe d'elefante? Jeans stretti a metà polpaccio con cerniera per riuscire a infilarli (e calzino bianco, bleah!).
Chitarre acide? Tastiere dappertutto, addirittura tastiere a tracolla (cfr. Sandy Marton).
Gioia d'improvvisare, jam-sessions, rullate e ritmi dispari? Quattro quarti sepolcrali e drum machines cadaveriche.
Nudi al Parco Lambro? Piumino Moncler e Camperos da cinque chili nelle piazzette del coattume.
Vallanzasca? Pietro Maso.
C'è un'unica eccezione: eroina? Eroina. Sì, perché il farsi le pere è il primo segnale del riflusso, i tossici sono l'avanguardia degli Eighties, il tossico non può che "rifluire nel privato", laddove privato è al contempo il participio passato di "privare", l'inferno quotidiano della fattanza e il "privato sociale" dei vari Muccioli (un protagonista degli anni Ottanta se mai ve ne furono).
Certo, questi erano gli anni Ottanta dominanti, quelli dell'arroganza craxiana, dell'affermazione del berlusconismo culturale, dei cervelli all'ammasso nella "Milano da bere", tutti a ridere a crepapelle per battute sgonfie di perfette nullità come Braschi ("mi sparo un paninazzo che mi smeriglia la gargarozza") o Vastano ("Il 18 lo rifiuto!"). [Vabbe' che nei Novanta faceva ridere Pieraccioni, sciapo come minestra condita con acqua, quindi non si è andati tanto più in là... :-P]
Anche negli Eighties c'erano un underground, una resistenza e un'intelligenza diffusa, per fortuna. Un underground che sovente guardava a un passato/altrove (revival dei Sixties, garage, psichedelia) o a un allusivo futuro prossimo (cyberpunk, immaginari post-atomici), e inferiva il presente per contrasto con l'uno e/o con l'altro.
Appunto: gli Ottanta sono un non-decennio, presi in sé hanno ben poco senso, lo acquisiscono solo al confronto coi Settanta e coi Novanta. Quindi, non si possono "fare i conti con gli anni Ottanta" senza farli con ciò che li precede e col nostro presente. Una contraddizione che giudico a dir poco feconda.
"Il fatto è che noi non possiamo non ragionare in termini di causa ed effetto, per non perdere il contatto col poco che abbiamo in pugno. Ma se si sono incrociate storie differenti, c'è qualcosa che fa sballare tutti i calcoli" (3UP, pag. 104).
Un appunto: visto che il libro termina sulla rampa di lancio di un sequel, forse sarebbe stato meglio intitolarlo "Tre uomini paradossali vol. 1", come "Kill Bill".
Un post scriptum: il western "crepuscolare" è il mio sotto-genere cinematografico preferito, Sam Peckinpah è il mio regista preferito e Pat Garrett & Billy The Kid è il mio film preferito, quindi non posso che prendere le distanze dalle critiche espresse in 3UP dai compagni del Nucleo John Wayne.
Al contrario, mi riconosco nella scelta della soundtrack, essendo Happy Trails dei Quicksilver Messenger Service il mio disco rock preferito: durante gli Eighties (appunto!) l'avevo in vinile e lo suonavo e suonavo e suonavo finché dai solchi logori non è uscito più nulla. [WM1]

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Tre uomini a zonzo (per Bologna).
Tra le varie angolazioni da cui si può leggere 3UP, scelgo quella "psicogeografica". Mi avvantaggia il fatto di essere bolognese da sempre e questo mi consente di sviscerare qualcosa che magari agli occhi di un lettore extra-cittadino è più difficile da cogliere.
Tre uomini paradossali (titolo emblematico, dichiarazione d'intenti sull'inverosimiglianza, o meglio sulla verosimiglianza "forzata" dei protagonisti) fotografa la città agli inizi degli anni Novanta senza calcare mai la mano, senza stereotipare, senza dilungarsi su cosa è atmosfericamente bolognese oppure no. Tuttavia alcune cose vengono dette, evocate, a chi ha orecchie per intendere, a chi c'era e a chi c'è. De Michele lo fa con la levità dei bravi scrittori: gli scenari urbani, e i sentimenti che ispirano, sono scelti con estrema cura. Si potrebbe dire che il romanzo si sviluppa su zone, punti nevralgici che hanno inevitabilmente un senso anche simbolico.
Ci sono i colli fuori porta, il quartiere dei ricchi e degli arricchiti, dove i vecchi blasoni si mescolano alle targhe di professionisti e faccendieri. Ogni città ha un luogo del genere, circondato dal verde e da cui si gode una meravigliosa vista del centro, contemplato dall'alto, concupito, da quel ceto alto-borghese che appunto "possiede" ma non "risiede", dimora ai margini, in una depandance tutelata e alberata.
Ci sono i vicoli del centro, dedalo medievale che aveva da poco finito di ostruirsi di barricate, dove si consuma un omicidio politico alle soglie degli anni '80 e con cui si apre il romanzo.
C'è il Parco Nord, la grande spianata alla periferia urbana, dove il Luna Park e la Festa de l'Unità si contendono lo spazio e si mescolano senza soluzione di continuità, come fa notare sagacemente il protagonista. Una fotografia della Bologna dei primi anni '90, tronfia, adagiata sugli allori di un passato lontanissimo, di un partito unico talmente sazio di se stesso da non accorgersi della terra che si scava sotto i piedi e del baratro che l'attende alla fine del decennio. Nello stesso spazio, proprio accanto, il primo grande divertimentificio a cielo aperto made in Bologna, emblema di chi è uscito dalla Grande Ribellione lasciandosi tutto alle spalle e mettendosi in buoni affari con gli avversari di prima, magari reinvestendo all'estero i lauti guadagni. Là dove non poteva giungere la lotta armata e dove non è giunta la politica possono arrivare i soldi.
E c'è la Bolognina, la piccola Bologna, cittadina nella città, il quartiere della prima periferia fuori porta, ònfalo urbano che racchiude in sé la storia di un secolo di lotte. Proprio lì dove battagliarono i partigiani della VII Gap, e dove si sarebbe svolto lo storico congresso della Svolta del PCI, si risolve anche il caso dei tre uomini paradossali. Soluzione parziale, che lascia in attesa, con la sensazione che non ci sia stato raccontato tutto, che ancora ci sia da scavare nelle biografie, come nei decenni che abbiamo dietro. Anche in quelli più oscuri, che forse non sono gli anni di piombo, ma gli anni...di merda. Quelli che hanno lasciato un segno talmente brutto da rendere necessaria una rimozione collettiva, da rimanere - per ora - non narrabili, se non con un grande cut-up di immagini sovrapposte, uno zapping televisivo fatto con il primo modello di telecomando.
"Non si esce vivi dagli anni Ottanta", cantano gli Afterhours... [WM4]

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Emidio Clementi, "L'ultimo dio", Fazi, Roma 2004. € 14,50
Carta ecosostenibile: NO; Copyleft: NO.
http://www.fazieditore.it

Negli Acknowledgements finali sono ringraziato per aver "analizzato" il libro. Parole grosse!
In realtà è andata così: nel giugno 2003 Mimì mi ha spedito il testo, ancora molto provvisorio. A metà lettura, gli ho scritto:


"Sono molto colpito da questa confessione di storie di famiglia e di formazione. Ritmo e aneddotica impeccabili, bei personaggi (Zia Marcella, Spinelli, Giancarlo il gelataio, Brunelli affascinato dai martiri...) [...] Immagino che la figura di Carnevali - evocata nella "pretattica" letteraria - entrerà in scena quando nessuno lo aspetterà più, proprio come Spinelli (le cose che dice sul calcio mi sembrano la vera dichiarazione di poetica di questo libro)... Bellissima la descrizione di tuo padre da giovane, e del suo stile. Bello il resoconto del concerto di Johnny Thunders."

Inghiottito da impegni (il lungo rush finale di New Thing), non gli ho mai scritto che ne pensavo della seconda metà. Lo scrivo ora.
Può darsi che La notte del Pratello fosse più "godibile", e certo rimarrà il "libro di Mimì" a cui tutti resteremo affezionati, tuttavia L'ultimo dio è il miglior "libro di Clementi". Senz'altro quello scritto meglio, ma anche il più epico.
"Epico". In che senso? Per quest'aggettivo, lo Zingarelli restituisce come primo significato: "Che canta temi e leggende eroiche". Sulla scia di Joseph Campbell, noi crediamo che fin dall'alba dei tempi quasi ogni storia raccontata (comica o tragica, intima o pubblica) sia leggibile come la storia di un eroe (o eroina) che intraprende un viaggio iniziatico scandito in diverse fasi, superando diverse prove. Il tutto ha un valore allegorico, di espiazione, catarsi, rinascita etc. Lo schema resta valido anche prescindendo dalle fondamenta psicanalitiche su cui Campbell costruì il proprio edificio (il libro è di sessant'anni fa, in tutto e per tutto un prodotto del ventesimo secolo).
Da tempo Wu Ming ha scelto questo schema, tanto per scrivere le proprie storie quanto per leggere quelle altrui. Ogni storia - da La montagna incantata a Kill Bill 2, da La coscienza di Zeno a Il fasciocomunista - mette in scena questo "eroe dai mille volti". La catarsi può anche fallire, l'eroe può rifiutarsi di rispondere alla chiamata iniziale (e diventare quindi "anti-eroe"), l'espiazione può essere peggiore del peccato... Le varianti sono pressoché infinite. Qualche autore salta le tappe, qualcuno ne scompiglia il succedersi, qualcuno (molti) fallisce l'impresa di raccontare la storia, perchè scrive di merda o perché scrive bene ma non ha un cazzo da dire (cioè non sa quale valore attribuire alla storia che narra). A volte un autore "scrive male" ma ha ben chiaro il senso di ciò che racconta, e questo lo salva e rende interessante l'epopea.
La notte del Pratello era epica liofilizzata, bastava aggiungere alle pagine una sola mezza lacrima (di gioia o di tristezza poco importa) e vedevi formarsi interi mondi in cui viaggiare, con tanto di discese nell'Ade (le cantine in cui ravanavano Zaccardi, Mimì e Leo) e ramificazioni di sotto-leggende (es. il santo pazzo Bogart si perde nel labirinto della città esterna e usa il cavo del telefono come filo di Arianna).
L'ultimo dio racconta due viaggi iniziatici, quello dello scrittore Emidio Clementi nell'arco di vent'anni (dall'infanzia ai primi Novanta) e quello dello scrittore Emanuel Carnevali (1897-1942), italiano emigrato negli USA, autore del libro postumo Il primo dio (che aveva già dato il titolo a una canzone dei Massimo Volume).
Mimì, ex-adolescente in fuga dalla provincia marchigiana e peregrinante per l'Europa finché non approda a Bologna, scopre un possibile senso del proprio viaggio quando riceve in dono una copia de Il primo dio. Quella di Carnevali, raccontata per ellissi, allusioni e frammenti di specchi, è l'epopea dell'artista "maudit" e si conclude con un fallimento inappellabile:

"Non capisco il cosmico humor
che lascia vivere sciocche impossibilità, come me".

L'ultima tappa del viaggio è il dimenticatoio.
Con un movimento contraddittorio (quella contraddizione che "muove tutto" e fa sì che "niente resti uguale a sé stesso"), un po' per imitazione un po' per contrasto, Mimì scopre l'intelligente possibilità della scrittura, in barba a qualunque sghignazzata provenga dall'universo intorno.
Detta così, può sembrare la solita solfa generazional-ombelicale, lo scrivere-a-proposito-dello-scrivere, anzi, lo scrivere-a-proposito-dello-status-acquisito-scrivendo, e magari strizzando-l'occhiolino-per-far-vedere-che-non-ci-credi, come certi italici Autori trenta-quarantenni che non valgono un cazzo, ma non è così. Clementi è uno dei pochi che può scrivere di sé stesso senza annoiare il prossimo. Per dire, Nori è da mo' che non ci riesce più. Monina non c'è mai riuscito. Qui non ci sono pose affettate, non c'è alcuna disonestà nei confronti dei lettori, c'è passione, c'è epopea nel senso di "serie di azioni memorabili". Prova ne sia che a distanza di un anno dalla prima lettura e a distanza di due mesi dalla seconda, di questo libro ricordo ancora quasi tutto, episodi e dialoghi. Un unico appunto: la copertina fa cagare. [WM1]

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Edward Abbey, Fuoco sulla montagna, Meridiano Zero, Padova 2004, € 12
Traduzione di Stefano Viviani
Carta ecosostenibile: NO; Copyleft: NO.
http://www.meridianozero.it

Edward Abbey è l'autore di The Monkey Wrench Gang, tradotto in Italia da Meridiano Zero col titolo I sabotatori (già segnalato su Nandropausa). Fuoco sulla montagnaè stato scritto prima, quindi si può benissimo leggere anche senza conoscere la "gang della chiave inglese". Tuttavia, ascoltate un cretino: se non avete ancora letto I sabotatori, lasciate perdere questa recensione. Procuratevelo in qualsiasi modo e fate il vostro dovere. Poi, con la coscienza a posto, tornate pure a leggere quel che vi pare. Magari proprio Fuoco sulla montagna, dove la vena anarco-ecologista dell'autore si dispiega già in modo molto consapevole ed efficace, col solo difetto di indugiare a volte in maniera troppo compiaciuta nelle descrizioni di nuvole, cieli e arbusti del New Mexico. Il risultato è che la narrazione ci mette un po' a partire, giusto qualche pagina di troppo, qualche lieve caduta di ritmo, per poi prendere il volo e atterrare soltanto sulla parola fine.
La storia è semplice come un western: il governo degli Stati Impuniti d'America (nell'originale: Benighted States, cioè Stati Ottenebrati) deve costruire una base aeronautica e per farlo ha bisogno di confiscare il ranch al vecchio John. Ovvio che il proprietario non voglia nemmeno sentirne parlare, deciso a morire nelle terre che la sua famiglia possiede da quasi un secolo (dopo averle sottratte agli indiani con l'inganno, gli fa notare qualcuno). Accanto a lui, il nipote di dieci anni, che trascorre tutte le estati al ranch, vorrebbe essergli al fianco fino alla battaglia finale, mentre l'amico Lee, anche lui innamorato di quelle terre, cerca di far ragionare il vecchio, nonostante tutto, in nome del bene comune (cioé la sicurezza nazionale, che come bene comune fa effettivamente acqua da tutte le parti).
Quando ho letto questo romanzo avevo appena consegnato all'editore Guerra agli Umani. Mi sono stupito a ritrovare intrecciati molti temi tipici del supereroe troglodita. Evidentemente c'è un unico filo invisibile che tiene tutto assieme. Anche qui ci sono l'uomo e la Natura, il Selvatico e la Civiltà, mescolati con una riflessione sul valore, non solo strategico, dell'assedio, sulle radici e sull'identità, sull'individualismo e sul senso della lotta. Poco importa che la posizione di Abbey, per tutta la durata del romanzo, sia spesso difficile da condividere. Importa che ci faccia riflettere, mettendo continuamente in corto circuito cuore e cervello. Per poi sorprenderci con un finale epico e struggente, che restituisce dignità anche alle affermazioni più indigeribili, e con un filo di rassegnazione di troppo, ci consegna suggestioni destinate a interrogarci anche oltre l'ultima pagina. [WM2]

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Edward Abbey (1927-1989), dolente cantore della resistenza (il più delle volte individuale e individualistica) all'ecodevastazione, ambienta le sue storie nei vasti spazi della Frontiera americana, in una sorta di "Thoreau meets Peckinpah" che miscela western crepuscolare, nostalgia della wilderness e difesa della piccola proprietà minacciata dall'invadenza del governo federale. Quest'ultimo punto è certo il più ambiguo politicamente, il meno facilmente digeribile, almeno da un punto di vista europeo e di sinistra: viene facile accostare certi umori e comportamenti a quelli dell'anarco-capitalismo alla Ayn Rand, o addirittura delle "milizie" di ultradestra che prosperano nell'America profonda. In realtà, si tratta di pulsioni da sempre presenti nella storia dei movimenti radicali americani, non necessariamente coniugati in modo reazionario, né riconducibili a categorie politico-economiche nate in Europa.
La Frontiera era un ambiente peculiarissimo, e il New Mexico in cui si svolge Fuoco sulla montagna è stato per lungo tempo una grande anomalia: la più antica "zona di contatto" tra europei e autoctoni (Coronado vi giunse da ovest nel 1540), terra per lungo tempo prevalentemente ispanofona e teatro di dure lotte anticapitalistiche, ritenuta tanto poco "americanizzata" da divenire stato dell'Unione soltanto nel 1912. L'argomento è complicato, per cui mi limito a rimandare agli studi di Bruno Cartosio (di cui consiglio l'ultimo saggio pubblicato dalla ShaKe, Operai e contadini in rivolta. Le Gorras blancas in New Mexico).
Fuoco sulla montagna, scritto nel 1962, racconta la resistenza armata del vecchio John Vogelin contro l'esercito degli Stati Uniti, che vuole espropriare il terreno della sua fattoria per costruirci sopra una base missilistica. Siamo nell'anno della "crisi dei missili" a Cuba, nel pieno della guerra fredda, ma Vogelin se ne fotte: lui non si ritiene un cittadino dei Benighted States. Lui appartiene a quella terra, la terra su cui morirà e dove intende essere sepolto.
L'unico ad aiutarlo nell'impresa disperata è suo nipote Billy, che come ogni anno trascorre l'estate nel ranch. Tutta la storia è vista con gli occhi di Billy, e suo è il percorso iniziatico che il libro racconta.
Un romanzo commovente e attualissimo, utile a tutti i disertori dello "scontro tra civiltà".
"Ti appartiene davvero, questa terra? E' davvero tua? Cent'anni fa l'avevano gli Apaches, era tutta loro. Gliela rubarono tuo padre e altri come lui. La ferrovia e i grandi allevatori hanno cercato di rubarla a tuo padre, e poi a te. Ora te la ruberà il governo. Questa terra è sempre stata brulicante di ladri... Fra cent'anni, quando saremo tutti morti e sepolti e dimenticati, la terra sarà ancora qui, e sarà ancora la stessa inutile distesa riarsa di sabbia e cactus, e qualche altro ladro senza cervello la recinterà e strillerà che è sua, che gli appartiene, e dirà agli altri di stare alla larga". [WM1]

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Visto che leggerete nello stesso numero di Nandropausa altre recensioni di questo libro, andrò direttamente al centro della questione senza perdere tempo con riassunti, delimitazioni di campo eccetera. Questo è un libro che certamente presta il fianco a critiche di ordine, si diceva un tempo, ideologico. Se si rimane alla superficie, cioè se si vede la vicenda con gli occhi fanciulleschi dell'Io narrante, è tutta una questione di indipendenza, irriducibilità, individualismo, ben narrata, avvincente e carica di suggestioni romantiche e politicamente preoccupanti. Certo, la vicenda del vecchio in lotta contro gli Stati Impuniti suscita simpatia, ma nulla più, forse.
Eppure esiste un altro piano di lettura, mi pare, molto più esistenziale e decisivo. Questa non è la storia di un irriducibile individualista. Questa è una storia metaforica sul diventare vecchi. Un'analisi sulle reazioni possibili alla senilità. Un modo per sottolineare che adeguarsi o meno ai tempi può essere una necessità, ma è soprattutto una scelta. Che il proprio tempo interiore non si vende. E' la parte più preziosa di ognuno. Il vecchio vuole continuare a vivere nell'unico modo che ritiene degno. Da qui il suo eroismo, stupido e tenero. [WM5]


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Cesare Battisti, L'ultimo sparo, Derive Approdi, Roma 2004, € 13,00
Carta ecosostenibile: NO; Copyleft: NO.
www.deriveapprodi.org

"Le sfumature politiche le scoprii in seguito, come quella del fine che non giustifica i mezzi. Ma era già troppo tardi".

Ritorna L'ultimo sparo, coraggiosamente riedito da Derive Approdi sei anni dopo la sua prima comparsa nelle librerie italiane. Nei giorni della demonizzazione di massa di Battisti, questo libro è stato nominato sovente, sempre a sproposito. Diversi pennivendoli l'hanno stroncato senza averlo letto, e/o descritto come un'autobiografia tout court, con tanto di apologia irriducibilista della lotta armata e (addirittura!) rivendicazione degli omicidi per cui Battisti fu condannato.
Nulla di più falso, primo perché un romanzo dal risvolto autobiografico non è necessariamente un'autobiografia, e infatti l'io narrante de L'ultimo sparo NON è Battisti (o meglio, è Battisti, ma nel senso dell'affermazione di Flaubert: "Madame Bovary, c'est moi"); secondo, perché nel romanzo domina un'autoironia amara come quelle gocce di Argotone che ti prescrivevano quand'eri cinno, te le spruzzavi nel naso e finivano in gola.
Nella durissima seconda parte, la descrizione grottesca della vita da clandestini (con tutta l'immaginabile miseria dei rapporti, anche sessuali, e "c'è poco da ridere se un compagno ti fissa un appuntamento dalle 3 e 48 alle 4 e 03") lascia spazio a insostenibili rintocchi di campane a morto. L'utopia tira le cuoia, e con ben poca dignità. E' il momento in cui tutti tradiscono tutti e il protagonista rimane schiacciato tra "continuisti" e "pentiti".
Eppure L'ultimo sparo è anche un libro scanzonato, con momenti molto comici, e forse è proprio questo che fa incazzare i commentatori di regime. Come osa questo terrorista ridere di quel passato, e addirittura far ridere? Da uno così è lecito attendersi solo il silenzio o al massimo piagnucolii, atti di contrizione, anzi, autos da fé. Gli "Anni di Piombo" non possono assolutamente essere descritti come li mette sulla pagina 'sto spudorato, che nel bel mezzo di una presa per il culo del linguaggio brigatista cita noncurante lo Zampanò di Fellini. Eh no, cazzo, non si possono mescolare la merda e la cioccolata, il sangue vilmente versato e la Cultura alta!
Già, la cultura... "In quel pomeriggio lungo come un curriculum vitae, scoprii che il jazz è rivoluzionario, i libri si rubano perché la cultura appartiene al popolo, le sculture si fanno scaraventando delle palle di creta contro il muro..." [WM1]


Leggi anche l'introduzione a L'ultimo sparo scritta da Valerio Evangelisti
Leggi anche la recensione di Emanuele Trevi

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Tommaso Didimo (a cura di), Il re operaio. Il potere come genere letterario, La Scimmia edizioni, Roma 2003
Carta ecosostenibile: NO; Copyleft: SI.
http://www.lascimmiaedizioni.org

Prima di tutto, chi è Tommaso Didimo? Medico psichiatra, fratello di latte del figlio dell'ultima amante di Wilhelm Reich, ideatore del concetto di "viaggio cosciente immaginale", attualmente vive sull'Isola di Malpelo, al largo della Colombia. Tommaso Didimo è una sorta di multiple name utilizzato da tre scrittori: Massimiliano Di Mino, Pier Paolo Di Mino e Marco Saura. Da diversi anni Didimo scrive sulla rivista andergraund R! Almanacco di cultura preventiva. Il collettivo redazionale di R! coincide, nome più nome meno, col gruppo di persone che anima la piccola casa editrice La Scimmia. Consiglio entrambe, rivista e casa editrice. Di R! sono usciti ben quindici numeri, all'insegna di pedagogia deviante e visionaria, mistica degli allucinogeni, racconti beffardi, fumetti scrausi (absit iniuria), bestiari illustrati e brevi "saggi romanzati" di ispirazione borgesiana.
Tempo fa la Scimmia ha pubblicato un libro di Didimo interamente dedicato alle allucinazioni (anzi, ai "viaggi coscienti immaginali") protese al (o provocate dal) tentativo di prendere il potere.
D'Annunzio che in preda al delirio occupa Fiume. Orélie de Tounens che diventa imperatore degli indios Mapuche. I protagonisti di The Man Who Would Be King, romanzo breve di Kipling (nel '75 John Huston ne trasse un gran bel film con Sean Connery e Michael Caine). Gli anabattisti che volevano fare di Münster la Nuova Gerusalemme. La presa del potere da parte di tali allucinati performers è inevitabilmente temporanea, destinata a finire in tragedia o in farsa, o in entrambe.
Più spesso, la presa del potere è del tutto immaginaria, come nel caso delle "micronazioni".
Cosa sono le micronazioni? Ne trovate una a quest'indirizzo: http://www.magnaromagna.it/impero/. La Magna Romagna è stata fondata da Pierino Brunelli (reincarnazione di Benito Mussolini), che se n'è proclamato Imperatore.
La presa del potere è fantasticheria che si fa concreta, o impresa concreta che scivola nel fantastico. Secondo Didimo, non soltanto la cronaca di queste folli imprese è un genere letterario, ma lo sono le imprese stesse. Meglio ancora: è il potere "il genere dei generi". Il genere della "presa del potere" racchiude in sé tutti gli altri generi: il fantastico, il tragico, il comico, utopia, distopia etc. Siamo troppo abituati a far coincidere letteratura e scrittura. "E' difficile per noi immaginare che Omero somigliasse più ai Beatles che a Leopardi in gobba e basette", scrive Didimo. Ma se ci liberiamo di questa falsa concezione, ecco che le tragiche performances dei vicerè di Ouidah e le demenziali messinscene dei micronazionalismi ci appaiono in tutto il loro valore letterario.
Con questo libro, Di Mino, Di Mino & Saura ci mettono in guardia: alla fine della fiera, certo micronazionalismo è comunque un nazionalismo, suscettibile di degenerare in micronazismo. Avventure fantasticoncrete come quelle quivi narrate, che siano pacifiche o si concludano in bagni di sangue, fanno sempre delle vittime. L'Italia governata dall'Egoarca (copyright passispietati.splinder.it) è in fondo una micronazione, un'allucinazione consensuale, una farsa, al pari dell'Absurdistan, di Rocksylvania, della Monarchia Anarchica Unita di Newfiveland. Sotto la maschera di un Pierino Brunelli trovi un piccolo Berlusconi, ma soprattutto, sotto la maschera di un Berlusconi trovi un Pierino Brunelli. Questo a prescindere dai discorsi sulla reincarnazione, che sarebbe troppo complesso affrontare in questa sede.
Un appunto: nell'elenco finale di micronazioni, manca quella dei nostri amici di Mapsulon, che sorge in quel di Maresca, appennino pistoiese. Una micronazione del tutto priva di micronazionalismo, poiché non vi esiste più il denaro, lo Stato (cessata la sua funzione di arbitro - corrotto -nello scontro sfruttati-sfruttatori) si è estinto, e il Popolo si nega pure al telefono. Per colmare la lacuna: http://www.mapsulonnaise.net/ [WM1]


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Jutta Richter, Quando imparai a addomesticare i ragni, Salani Editore 200, € 8,00
Carta ecosostenibile: NO; Copyleft: NO.
http://www.salani.it/

Peccato per la "d" eufonica di meno, in conto a Salani, ma questo breve romanzo di Jutta Richter è un gioiello da tutti i punti di vista e vorrei parlarne anche se è uscito l'anno scorso. Una premessa: un ignorante che pensasse alla letteratura per ragazzi come a una letteratura di serie B non avrebbe niente da invidiare a chi considera Ellroy uno scribacchino. Non devo spiegarlo io questo, per fortuna, ma mi andava di dirlo, perché Quando imparai a addomesticare i ragni può trarre in inganno. All'apparenza è una storia molto semplice: racconta un breve momento nella vita di una bambina e di una banda di cortile, di quelle che oggi nelle città europee è più difficile trovare, perché i bambini sono chiusi in casa, hanno la playstation e il videoregistratore e dei genitori paranoici esauriti, e là fuori ci sono le automobili, i pedofili, i satanisti, la jihad islamica e tutti i vari cetera. In realtà l'autrice ci racconta, dal punto di vista di una ragazzina di otto anni, una storia di violenza psicologica esemplare. Violenza infantile, ovvio, ma che allude già a quanto di “infantile” ci sarà e c'è nel mondo degli adulti. Di quanto di pessimo possiamo trascinarci dietro culturalmente, da una generazione all'altra, di genitore in figlio. I bambini non sono soltanto vittime dei grandi, ma anche pavidi complici dei medesimi nel perpetuare l'esclusione, il pregiudizio, l'istinto di branco. I bambini sono maestri del ricatto, della meschinità e della paraculaggine. I bambini sono già degli abili politici, e volenterosi giudici, almeno quanto sono fenomenali e disarmanti nell'immediatezza e genuinità delle proprie sensazioni. Qui non c'è traccia dell'infanzia vittimizzata di Io non ho paura, dell'infanzia alleata contro l'adultità corrotta, qui le alleanze e le amicizie non reggono all'impatto e i bambini ricordano piuttosto quelli di Goldsmith, ma in una salsa piccolo-borghese e urbana, molto più soft, blanda, banalmente maligna. Questa storia semplice non ha un lieto fine. E giuro che ci si rimane davvero di merda, un po' tramortiti, perché per tutta la vicenda ci si aspetta dell'altro. Non è una storia edificante, e quindi non è nemmeno un romanzo morale, ovvero forse lo è proprio per questo. E' un romanzo sull'amicizia e su come si emarginano i "mangiacaccole"; su come vede il mondo un bambino e sul potere del senso d'appartenenza; su quanto un adulto può essere stronzo e su quanto si può esserlo già prima di crescere.
E poi è un romanzo su come si addomesticano i ragni. Che non è poco. [WM4]


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Johannes Hösle, Prima di tutti i secoli, Meridiano zero, Padova 2004, € 12,00
Traduzione di Adriana e Antonello Borra
Carta ecosostenibile: NO; Copyleft: NO.
http://www.meridianozero.it

Questo racconto autobiografico andrebbe letto in parallelo con La presa di Macallè di Camilleri (Cfr. Nandropausa #5). Entrambe le storie, quella di Hans e quella di Michilino, si svolgono negli anni Trenta sotto una dittatura fascista, l'una nella provincia cattolica sveva, l'altra nella provincia cattolica sicula. Hans e Michilino sono due bambini alle prese coi misteri della religione, dei cui rituali danno interpretazioni personali. L'uno e l'altro si arrovellano pensando alle tantissime incongruenze del catechismo, della dottrina, del cristianesimo stesso. Le analogie finiscono qui: mentre nella Vigata de La presa di Macallè chiesa e regime sono praticamente la stessa cosa, nell'Erolzheim di Prima di tutti i secoli la religione cattolica è fonte di resistenza culturale al regime hitleriano. Non va dimenticato che l'imbianchino di Braunau andò al potere nel 1933. In Italia, il mascelluto di Predappio sbruffoneggiava ormai da undici anni. La presa di Macallè descrive un regime pienamente affermato, egemone, onnipresente, che ha effetti distruttivi sulla famiglia del protagonista (famiglia fascistissima, essendo il padre dirigente locale del PNF). All'inverso, il libro di Hösle evoca un regime ancora lontano, estraneo alla vita quotidiana nel villaggio. Un regime profondamente disprezzato dal padre ciabattino, e i cui rituali non arrivano mai a sostituire quelli della chiesa. Un'altra differenza tra i due libri è l'esperienza della multireligiosità, del tutto assente nella Sicilia dell'epoca: per tutto il libro, Hans si chiede chi mai siano questi evangelici: avranno un'anima anche loro? Come faranno ad andare in paradiso se non si confessano mai?
Johannes Hösle (studioso di letteratura tedesca e italiana, docente universitario, ex-direttore del Goethe Institut di Milano) scrive in istato di grazia, con rara levità e capacità di esilarare il lettore. Il sottoscritto e WM2 ne sono rimasti molto colpiti. I dubbi teologici sono il punto di forza: se un missionario viene mangiato e digerito da un leone, come farà la sua carne a riformarsi nel Giorno del Giudizio? In effetti, non è domanda peregrina.
Ci par di capire che questo è il primo volume di un'autobiografia a puntate. A questo punto siamo curiosi. Non sappiamo come sia andato Prima di tutti i secoli, né ricordiamo d'aver letto recensioni. Nel caso fosse andato male, esortiamo: 1) L'editore a non scoraggiarsi; 2) Chi legge questa recensione a comprarlo (in libreria o, meglio ancora, direttamente dal sito di Meridiano Zero); 3) I traduttori a mettersi al lavoro sul seguito, nel caso fosse già scritto. [WM1]


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11 -Matteo Melchiorre, Requiem per un albero. Resoconto dal Nord Est, Ed. Spartaco, Santa Maria Capua Vetere 2004
Carta ecosostenibile: NO; Copyleft: NO.
http://www.edizionispartaco.it/

Ho letto questo libro in un fiato, sul Neurostar che mi riportava a Bologna dopo una presentazione in quel di Lecce. Ho letto e sono rimasto a bocca aperta: partendo da una vicenda minuscola (il crollo di un vecchio albero centenario in un paesino sulle alture attorno a Feltre), l'autore riesce a costruire un testo che unisce riflessioni saggistiche, aneddoti da cantastorie contemporaneo stile Ascanio Celestini, personaggi da romanzo, atmosfere da fiaba, reportage psicogeografico alla Paolo Rumiz...Un libro per chi pensa che un certo modo di rapportarsi al territorio sia ormai appannaggio solo delle culture primitive,come quella degli aborigeni australiani. Tutt'altro: a Tomo, subito sopra Feltre, c'era un albero totemico nel vero senso della parola, niente da invidiare al sogno delle formiche verdi, e Vie dei Canti chiamate rogazioni, e continui walkabout su e giù per le pendici del Monte Tomatico. Da segnalare, in modo particolare, la detection dell'autore per determinare l'età dell'albero caduto, prima consultando la memoria degli abitanti e il modo in cui questa viene influenzata dalla leggenda dell'Alberón, poi andando a misurare i cerchi e il tronco con un esperto dendrologo...Inutile dire che il finale è a sorpresa, come per ogni detection che si rispetti.
Di solito, di fronte a un libro così, si tira fuori con simpatia il termine "gioiellino". A me pare molto di più.
Mi pare un libro da leggere, anche a costo di doverlo ordinare all'editore. [WM2]

"Vale la chiacchiera non il documento. Una ciàcola che va di bocca in bocca, di cucina in cucina, di cortìvo in cortìvo. Il vero è la notizia che circola. Essa, propagandandosi, subisce censure, inchieste, travisamenti. Alla fine circola la notizia che è stata decisa per vera: falsa o autentica che sia. Allora lì c'era il castello, là pregava il Beato, lì Attila legava il suo cavallo, il tale cantone di una casa è romano e l'avevano tirato su giù da Tizio mentre Caio piantava le viti..."
WM2 ha ragione, Requiem per un albero è stato una sorpresa, uno di quei libri che continui a sfogliare per un'ora dopo che l'hai finito. Certo, le rogazioni del tempo che fu, nel momento in cui l'autore le ripercorre con la dobermanessa Atena al guinzaglio, diventano vere e proprie "songlines" all'australiana.
Il Nord Est, e la montagna veneta in particolare, è un ambiente peculiare, ma questo metodo di indagine letteraria - esplorazione a spirale e all'indietro che parte da "su all'Alberón" e inanella dapprima storielle, poi storie, poi Storia, infine mito, e carica del mito torna alle storielle - può essere esteso e dare risultati proficui. Oltre al fatto che l'approccio è puramente dialettico: "Così, alla fine, incanto e disincanto si combattono. Sarà un'incoerenza... Ma: senza l'incanto, sarei mai stato ore e ore intorno a un albero crollato? E, senza il disincanto, avrei mai contato gli anni/anelli del tronco?". E che dire della controinformazione sulle nefandezze del Beato, ovverossìa Bernardino da Feltre? E della struggente ricostruzione della Tomo anni Sessanta?
Matteo Melchiorre ha ventitre anni. Per ora, non aggiungo altro. [WM1]


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Se avete letto uno o più di questi libri, potete già spedirci il vostro commento. Nandropausa #6-bis verrà spedito a settembre.
Alle ore 4.18 am del 16 giugno 2004, Giap e Nandropausa hanno 5766 iscritt*

 

 



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