NANDROPAUSA # 4bis - Le recensioni dei giapsters - 29 settembre 2003


1. Speciale Il fasciocomunista
[commenti di Manfredi, Valerio, Antonio, Iannozzi, Daniela, Massi, Igino]
2.
Gli ultimi giorni [Antonio]
3. American Nightmare
[Girolamo]
4. La breve estate dei colchici
[TDL]
5. Piccoli delitti del cazzo
[Gabriele]
6. La stanza mnemonica
[T***]

A Edward Said
1935 - 2003

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Antonio Pennacchi, Il fasciocomunista. Vita scriteriata di Accio Benassi, Mondadori 2002, 340 pagine, 17 euro.

Forse le frasi che citerò dal libro non sono esatte, ma non ne ho una copia, il libro è in prestito in biblioteca, vado a memoria: si nun ve va bene menateme. "Dice se nascevo a Marzabotto crescevo comunista , so' nato a Latina ed ero fascista". E' (quasi) tutto qui Il fasciocomunista di Antonio Pennacchi, quell'uso del "dice" così colloquiale e così radicato a Roma e nel Lazio (mi ricorda certi sketch di Proietti o di Montesano), tutta qui la prosa di uno che scrive come parla e parla come magna. E' uno dei romanzi di formazione più belli e autentici che mi sia capitato di leggere: l' infanzia, l' adolescenza, la giovinezza di un figlio di una famiglia povera e numerosa di Latina (la Littoria di fondazione fascista) co' la madre che mena, il fratello al quale è perdonato tutto (e ti becchi le botte per lui) e la sorellina secchiona e comunista (dovrebbe essere Laura Pennacchi, diessina, ex sottosegretaria al Tesoro pupilla di Ciampi) negli anni prima durante e dopo il boom economico. Visto che non è nato a Marzabotto, il protagonista milita nel MSI prima a Littoria poi a Roma, arrivando a scontrarsi anche con Pajetta! La militanza finisce nel 1968 , interpretato come una rivolta giovanile trasversale alla quale partecipano anche i giovani fascisti (l'occupazione di Giurisprudenza alla Sapienza coopera con quella di Lettere dei compagni) fino a quando Almirante e Caradonna con l'assalto a Lettere non riportano tutto nella norma; allora il nostro eroe passa ai maoisti di Brandirali ("adesso è assessore con Formigoni, poi uno dice i casi della vita") ma i suoi ex camerati daranno fuoco alla sede maoista di Latina... Ma non è solo il sigolare percorso politico ad appassionare, c'è anche l' iniziazione sentimentale, c'è l'on the road all'amatriciana, un anno su e giù per l' Italia in autostop per l' autostrada del Sole (viaggiando senza 'na lira, senza magna' e dormi') per andare a trovare la fidanzatina di Milano che alla fine non si concede ( "dice quella c'aveva i suoi problemi, e io? che m'ammazzavo de pippe da diec' anni?") . In uno di questi viaggi c'è lo strappo dato da Pier Paolo Pasolini che ascolta e alla fine molla pure una mancia: scriverà l' articolo sui fascisti rossi ("me deve i diritti, me deve"). Ecco forse per me i viaggi sono la cosa più bella di questo libro: mi ricorda quando da pischello volevo scappare e non andavo mai da nessuna parte, il protagonista ha vendicato le mie fregole di allora.
Pennacchi lo leggo quasi sempre su "Limes" , memorabile dopo il G8 di Genova quando spiegava (anche con disegni) che i cordoni di polizia non si sfondano con lo "spingi spingi " (metodo Casarini ) ma con il cuneo (metodo Pennacchi)
, c'è qualcosa del genere anche nel libro. Adesso su "Limes" racconta i suoi viaggi nelle città fondate dal Duce, è un po' troppo fissato co' 'sta storia che la pianificazione bolscevica si realizza col fascismo italiano: la tesi è discutibile, ma 'sto matto me sta simpatico. Pensate che il libro l'ha fatto presentare a Roma (penso alla Camera) da Assunta Almirante (!) e Massimo D'Alema, che lo ha definito "un romanzo per niente radical-chic , intellettual-proletario senza erre moscia ". Ao', erano anni che nun annavo d' accordo co' Baffino!

Manfredi

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Raramente mi è capitato di divertirmi leggendo un libro in cui la politica è tratto distintivo e narrante, filo conduttore di una biografia.
Il fasciocomunista di Antonio Pennacchi, nella prima parte in cui racconta le avventure del protagonista (il suo esordio in politica nelle file del neofascismo anni'70 tra Latina e Roma) mi ha riportato a film come La marcia su Roma, alle figure esilaranti di Tognazzi e Gassman, o al televisivo Fascisti su Marte di Guzzanti. Un [neo]fascismo certo crudele e sanguinario nei suoi effetti storici, ma spesso bizzarro, surreale e carnascialesco nelle biografie di tanti sottoproletari che vi aderirono, in cerca di riscatto sociale impoliticamente individuale e di un nemico a cui addossare le colpe della propria indigenza. Non meno gustosi sono i diversi passaggi del nostro al "gruppettarismo" di sinistra, inseguendo amori tra retoriche e ideologismi del tempo e gags di vivere quotidiano. Insomma vita vissuta - nel bene e nel male - intensamente, la cui concretezza può essere ripescata tra i ricordi giovanili di coloro che, come il sottoscritto, in quegli anni passavano la vita nel movimento tra cortei e mazzate coi tanti Accio Benassi e con le forze dell'ordine.
Altra nota, infine, sullo stile narrativo usato dall'autore: sostanzialmente un romanesco italianizzato perfettamente confacente al personaggio di Accio e alla sua vita di borgataro. Uno splendido affresco linguistico continuamente punteggiato da termini come "puncicare" e "l'ho imparato" (a lui). Un libro da non perdere.

Valerio

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Uno scrittore di valore si distingue per la sua capacità di fondere in un tutto omogeneo e dinamico le diverse storie che compongono la trama del proprio romanzo. Pennacchi fallisce proprio in questo, nella fusione, perché le tre componenti della vita di Accio Benassi, il protagonista del romanzo, di per sé interessanti sembrano procedere ciascuna per proprio conto.
Accio è destinato alla carriera ecclesiastica ma a dodici anni lascia il seminario. I problemi di relazione con la famiglia paiono spingere il ragazzo nelle fila della gioventù missina. Un'adesione più reattiva che ideologica quindi.
Le esperienze di Accio negli anni della sua militanza di destra paiono casuali, non scelte razionali. Così Accio potrà cambiare bandiera, quando verrà espulso dai giovani missini, con una disinvoltura sconcertante solo perché anche il movimento studentesco riempie i suoi vuoti. Non perché, come pare voler sostenere Pennacchi, estrema destra ed estrema sinistra vogliono le stesse cose: 'sti cazzi, scusate il francesismo.
Confondere le due ideologie è possibile solo da un punto di vista qualunquista; il protagonista vede come unico scopo dei movimenti il riconoscimento dei propri diritti individuali.
E' l'individuo Accio Benassi ad avere cose interessanti da dire, ma su se stesso. E la dice nel modo più ordinario possibile, usando un linguaggio semplice e diretto. L'odio della madre nei suoi confronti, i rapporti conflittuali con fratelli e sorelle, l'infelice storia d'amore con Francesca la milanese, che Accio raggiunge in autostop da Latina. Ma queste storie non si integrano con il suo sviluppo politico, forse perché uno sviluppo non c'è.
Già Gianni Celati, dal quale Pennacchi prende ampio spunto per la scelta stilistica, aveva scritto storie simili nei Parlamenti buffi. Ma queste storie erano primariamente personali; l'ideologia era un portato degli anni in cui furono scritte.
Per fare un romanzo ideologico occorre che l'idea sia attaccata ad un contenuto forte, organico. La fragilità e frammentarietà della storia di Pennacchi ci convincono ancora di più della debolezza dell'idea stessa di fasciocomunismo.

Antonio

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Il Fasciocomunista è un libro complesso, anche se l'impianto narrativo è volutamente ironico. E' un romanzo che colpisce, una sorta di apoplessia narrativa che non può non far inalberare l'attento lettore, in quanto par quasi che Pennacchi non prenda posizione. La storia esprime un gusto retorico alla maniera di Giorgio Gaber di quando cantava "Qualcuno era comunista" ma anche "Io se fossi Dio", ma non si percepisce rabbia, o furia rushdiana, solo una forte ironia. Il dramma è sempre sdrammatizzato, il dolore è assente o tradotto in beffa del destino, e al destino Pennacchi ha imparato a sorridere senza arrendersi. Questo è un punto di forza. Ma l'ironia sciorinata, intelligente, non dico di no, alla fine mette tutti al muro e li fucila con una risata. La risata non uccide, umilia, schernisce, irride, ma lascia solo ferite nello spirito e non nella carne, in Accio stesso che è anche lui al muro e subisce la sua stessa risata. Manca la rabbia, quella intelligente e profonda, non quella di Gaber che si dimentca presto, manca una rabbia dolorosa poetica e tagliente come lama di rasoio, non fine a se stessa, una rabbia che sia profondamente negra come quella di Leonard Cohen e irriverente alla maniera di Bertolt Brecht. Manca qualcosa, il Vogliamo tutto e Gli invisibili di Nanni Balestrini.
Pennacchi mette una lapide sul passato, sulla storia, cosa che Brecht non avrebbe fatto mai: "Non ho bisogno di una lapide, ma/ Se voi ne avete bisogno di una per me/ Vorrei che ci fosse scritto:/ Ha fatto delle proposte. Noi/ Le abbiamo accettate./ Con una tale incisione saremmo/ Onorati tutti quanti." Sinteticamente è questo il motivo per cui Il Fasciocomunista non convince appieno il lettore, o il critico, più severo. E' comunque un romanzo che fa riflettere, non lo nego, ma avrei preferito che Pennacchi fosse stato capace di provocare in me, nel lettore, almeno una risata rabbiosa che mi ferisse a morte. Se ci fosse riuscito, oggi mi scappellerei e non piangerei sulla lapide che Il fasciocomunista ha piantato nella terra, nella storia, una quasi croce con un Gesù Cristo che ride rivolgendosi a Dio mentre la vita gli scorre via per non tornar mai più nelle vene, in quel "destino ridicolo" che mirabilmente ha cantato e narrato Fabrizio De André in tutta la sua vita.
Il Fasciocomunista assorbe la mente del lettore in una pletora di domande retoriche a cui fanno seguito risposte auto-assolutorie. Ma l'assoluzione, anche quando è esercizio onanista per disegnare la degenerazione antropologica dei giovani Italiani, non dovrebbe essere mai tradotta in fede in se stessi o nel divino, anche se, oggi, la fede compra paradisi e inferni tutti uguali, almeno per chi c'ha il capitale da investire con l'aggancio giusto e un ottimo avvocato del diavolo a guardargli le spalle. L'assoluzione non esiste, in nessuna forma. E per nessuno. Pennacchi/Accio assolve se stesso attraverso la storia, attraverso il ritratto del "fasciocomunista".
Ma Il Fasciocomunista ha anche i suoi punti di forza espressiva, che sono gli stessi dell'autore: Pennacchi, a dispetto del destino che l'avrebbe voluto perdente, non si è arreso, ha lottato contro se stesso per evadere da un mondo di convenienze, di sconfitte sociali e personali. Non ci troviamo di fronte ad una volontà nietzschiana o, all'opposto, evangelica; è più corretto dire che Pennacchi prima di essere Pennacchi è stato Accio Benassi con tutti i pregi e difetti che questa identità comporta. Accio è un ribelle, prima invasato dai residuati ideologici del fascismo, poi da quelli non meno falsi di un comunismo irreale perché frutto di un idealismo al limite, pomposo, così tanto da rasentare il ridicolo ideologico, un ridicolo grave e pericoloso quanto il fascismo ricusato.
L'ironia messa in campo da Accio/Pennacchi ha le sue tare come già evidenziato, ma ha anche il pregio non da poco di tradurre la vita reale in parole narrate che sono testimonianza delle contraddizioni che agitano gli animi negli anni Sessanta. Il seminario, il desiderio arrogante della famiglia che vorrebbe per Accio una vita monastica, il fascismo che vive nella memoria di tanti ritardati mentali-storici, sono il primo passo verso una maturazione sociale che si compromette con le contraddizioni di moda, con la necessità quasi imperante di emergere, di non passare inosservato. Accio è inconsapevole protagonista d'un momento storico difficile definito solo attraverso le incompatibilità della società impegnata a riesumare un passato bastardo ma anche interessata a creare una speranza per un mondo migliore per mezzo dell'idealismo del comunismo. Nella sua ingenuità, Accio si rende conto che né il fascismo né il comunismo sono la soluzione per dare una linea di condotta alla sua vita né per indirizzare la società intera verso un qualsiasi miglioramento. Accio è quasi un anarchico, di quelli che non si possono definire né di destra né di sinistra, ma questa verità non è ancora matura ed è quindi invisibile come ideologia, ma è fortemente visibile e tangibile ironia.
Antonio Pennacchi, quando l'ironia si fa forte, è un po' Heinrich Böll e il suo personaggio, Accio Benassi, è il clown anticonformista Hans Schnier. Se Hans sacrifica se stesso per dar corpo ad una coerenza possibile solo attraverso l'accettazione della sua diversità che lo sprofonda nella totale solitudine, Accio invece non è disposto ad essere clown tout-court. E l'unica via di fuga, o
uscita di sicurezza, è quella di tentare, tentare con l'iscrizione al Msi prima e poi aderendo al Movimento Studentesco maoista. Dopo le cocenti delusioni del Msi, Accio prova quelle del comunismo e dei suoi estremismi non dissimili per arroganza ideologica da quelli del fascismo. Accio Benassi ha già rifiutato la famiglia e il suo bigottismo, ha detto di no al fascismo; ha già fatto il secondo passo verso un tentativo di maturazione personale e sociale.
A differenza di Heinrich Böll, Antonio Pennacchi non promuove accuse, non punta l'indice contro tutti o contro qualcuno, ed è un peccato, perché se l'avesse fatto, utilizzando anche solo le armi dell'ironia intesa come ideologia, Il Fasciocomunista sarebbe stato uno romanzo indimenticabile.

[il Sempre Vigile] Iannozzi

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"Come si fa a parlare bene delle cose che tutti si aspettano che tu ne parli bene?" (p.87)
L'ho letto. Ma non l'ho divorato.
Io leggo con lo stomaco e, per rimanere in metafora, al mio stomaco non è che sia piaciuto da morire (cioè è piaciuto più di un Lucarelli - ops! -ma decisamente meno di Romanzo Criminale).
Al mio stomaco non piacciono i libri di mazzate e qui di mazzate ce ne sono tante, è la trama a fare da sfondo alle mazzate. Se non rischiassi di riaprire il dibattito su femminile e letteratura direi che è un romanzo per "maschietti", e non solo per le risse.
Commenti - quelli seri sono gli stessi di WM1: veramente bella la formula "diceduepuntivirgolette", e strano il riferimento alla partecipazione di Delle Chiaie et similia agli scontri di Valle Giulia (non ricordavo Nandropausa e sono andata anche io a "verificare" su Biennio Rosso [di Scalzone] - Ma che è, una Garzantina?!? :-))
Per il resto, va bene che è un'autobiografia (travestita da romanzo), di Accio so tutto, ho abbastanza informazioni per calcolare il numero esatto di seghe che si è fatto da quando aveva 12 anni, ma cosa so degli altri? Cosa so di Lupo, o delle sorelle (a parte che erano zoccole, e, per inciso, manco questo mi è piaciuto)?
WM2 dice che è un romanzo corale, a me sembra più l'epica di un (anti-)eroe. All'inizio mi è sembrato Vogliamo tutto di Nanni Balestrini in versione fascista, linguaggio simile, simile il background socio-culturale dei due protagonisti. Ma almeno Accio dubita, di tutto, e chi non lo farebbe con le sue frequentazioni!
Quando passa dalla padella (MSI) alla brace (Servire il Popolo) mi sono divertita di più. Sarà che trovo le session di autocritica, con tanto di "Il Presidente Mao dice", più esilaranti delle scazzottate.
La verità è che Accio non mi è diventato simpatico, poverino, sarà il suo destino: antipatico ai fratelli, alla madre, ai vari camerati/compagni! E questo è "colpa" della scrittura (ma forse era voluto).
Last but not least, non ho trovato il linguaggio così geniale e trascinante, sì va bene "i prestiti dialettali", soprattutto sintattici, ma "a pelle" qualcosa mancava , non so cosa, forse il fatto che la costruzione è "dialettale" ma le parole tutte in italiano... neanche un troncamento, giusto per rendere la cadenza... E poi, la parola "background"(*) che compare a pag. 257 ! Meglio un cazzotto in faccia! Ma che c'entra una parola così in un romanzo ambientato negli anni '60?? con un linguaggio da anni '60?? Una lattina di birra in un quadro di Raffaello! (taccio sul telefonino due pagine più avanti, almeno era in contesto).

Daniela

(*) lungi da me criticare l'uso di parole straniere nell'italiano.

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Il fasciocomunista. Vita scriteriata di Accio Benassi, è una storia torrenziale a metà tra avventura picaresca e romanzo di formazione. Adolescente missino in una famiglia plebea e numerosa, con la sorella e il fratello Manrico orientati a sinistra. Fuori da ogni ritualità, emerge un ritratto indimenticabile delle sezioni di provincia del MSI e della lunga traversata di Accio negli anni ’60 e ’70: da missino fino ad arrivare nell’unione m-l di Brambillari alias Brandirali. Lo fa in un modo politicamente scorretto, lontano da ogni agiografia ufficiale o di movimento. Assistiamo, così, a una rilettura degli scontri di Valle Giulia in cui sono i giovani dell’estrema destra a lanciare la controcarica alla polizia. Ci racconta anche una prima fase del ’68, in cui il discrimine fascismo-antifascismo non è ancora un fossato che porta alla guerra civile. Sarà l’intervento in università del fascismo in doppiopetto e manganello, quello di Almirante e Michelini, sconfitto militarmente ma vincente politicamente, a portare alla polarizzazione fascismo-antifascismo e a confinare nuovamente i giovani di destra nel ruolo di "guardie bianche del capitale".
Il libro è straordinario, non solo perché offre una rilettura del periodo distante da ogni atteggiamento nostalgico alla "formidabili quegli anni", o intimista o, peggio ancora, pentitista, ma soprattutto per una scrittura vitale, perfettamente in grado di raccontare, insieme gli amori di Accio Benassi, gli scontri tra polizia e manifestanti, tra compagni e fascisti, in un modo così coinvolgente che ha un equivalente solo ne La banda Bellini di Marco Philopat.
Particolarmente felice è l’uso del registro grottesco: l’ironia sull’esperienza dei "gruppi", numerosi come "manco le isole dell’Oceania", sulla vita interna di "Servire il popolo", il sarcasmo sul Brambillari-Brandirali, apprezzato in Cina per il rigore della scientificità delle sue analisi marxiste, e sul bigotto stalinismo sessuale che vigila sulla correttezza degli accoppiamenti. In fondo, il passaggio a "comunione e liberazione " del gruppo dirigente di questa organizzazione segue una traiettoria abbastanza lineare. Memorabile la scena di autostop in cui Accio litiga con Pier Paolo Pisolini. Successivamente, quando leggerà il famoso articolo dello scrittore sui "fascisti rossi ", che sembra riprendere la loro discussione, si convincerà che i soldi che gli ha dato PPP quella sera sono perché "m’ha pagato l’idea".
Il libro è un ritratto convincente dell’Italia di quegli anni, raccontata con grande concretezza, dalla provinciale Latina a Milano. Un romanzo capace di essere esilarante e subito dopo drammatico. Lo sguardo di Pennacchi ha una forza viscerale e istintiva, non è mai ideologico. Nonostante questo, o probabilmente proprio per questo, è uno dei libri migliori che abbia mai letto sul lungo ’68 italiano. Accio Benassi è un personaggio incredibile, che resta impresso per le scene strambe. Irresistibilmente comico, ad esempio, l’equivoco da lettore dei romanzi dell’Urania, quando di fronte a una ragazza che si definisce marxiana pensa a una partigiana dei marziani invece che a Marx. Un libro importante, per la ferocia vitale con cui riesce ad attraversare intere aree politiche e a rappresentare grandi drammi collettivi, dal terrorismo alle "prime pere ". Tutto questo senza farci smettere di ridere ed emozionarci.

Massi

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La narrativa italiana non ha ancora affrontato il Sessantotto nella chiave storica e mitopoietica necessaria. Il nodo di una letteratura civile, al di là degli stereotipi realisti e delle ricostruzioni storicistiche, può essere sciolto solo se si affronta l’esperienza caleidoscopica di pensiero e di lotta che si realizzò per un arco di almeno quindici anni nel nostro paese. L’immaginario scatenato dal Sessantotto fu vastissimo e costituisce tuttora la nebulosa caotica, la matrice libidinale, l’amnio psichedelico nel quale siamo ancora intrappolati. Nel contesto di questa macroscopica rimozione culturale si sono aperte delle falle, dei degnali di sgretolamento dell’immagine convenzionale del nostro passato recente si sono irrevocabilmente manifestati. Nel cinema, soprattutto. I chiacchierati film di Giordana e Bellocchio ne sono l’esempio. Viene violato il tabù per cui il Sessantotto non può essere elaborato miticamente. E si capisce anche perché si è trattato di un tabù. In effetti è proprio l’uso mitico di quell’esperienza ciò che si ricollega al nucleo incandescente e sovversivo di quella pratica desiderante di massa.
Il fasciocomunista
di Pennacchi è un esempio interessante di come il racconto possa far breccia nel muro che editorialisti, leader politici e altri professionisti dell’opinione hanno costruito. Si tratta di demistificare il percorso luttuoso che viene associato all’idea rivoluzionaria sesssantottina e alla interpretazione politologica. Cito di sfuggita il campionario di chiacchiere che la sinistra perbenista - convinta di legittimarsi attraverso la criminalizzazione del proprio passato - ha recitato in un puntata recente de L’infedele di Gad Lerner.
Alla farsa mediatica si può contrapporre l’humour devastante de Il fasciocomunista. Pennacchi ripercorre con un linguaggio picaresco il percorso avventuroso e autobiografico di quegli anni. Le migrazioni ideologiche e fisiche a cui è sottoposto il suo alter ego Accio Benassi (un fantastico nomignolo criptofasscistoide!) sono trattate con una gran felicità di racconto. Il modo spiazzante, umoristico, talvolta disturbante di raccontare i fatti politici di quell’epoca mi sembra sia utile per addentrarci anche nella congerie psichica e pulsionale che scorre dentro la storia. Beninteso: nessun psicologismo, al contrario le pulsioni sono qui elemento materiale e forza sociale e collettiva di trasformazione.
Pennacchi usa strutture narrative desuete, convenzionali e inattuali. La pasta grossa della sua scrittura è davvero paradossale. Questo libro mi è sembrato essere anche nell’espediente linguistico una formulazione riuscita, al contrario di certo sperimentalismo neoavanguardistico che è stato utilizzato per raccontare la cronaca sessantottina. Insomma questo è un libro politico sul serio, che ci sfida a raccontare e a ricordare con rabbia e disperata vitalità. Una letteratura che per essere capace di interrogare la coscienza storica dovrà affondare nel mito, per portare alla luce la carica eversiva che giace sul fondo. Pennacchi in modo irriverente, per un mto spontaneo e anarcoide di ribellione, fa a pezzi i retaggi sessantottofobici della narrativa italiana.

Igino

2------------------------------------

Andrew Masterson, Gli ultimi giorni: l'apocrifo di Joe Panther
Marsilio Black, Venezia 2002, 406 pagine, 16 euro.
Traduzione di Vittorio Curtoni

Se non avete letto Il gene egoista e ritenete che Saramago sia un autore interessante ma sinceramente troppo difficile, con l'apocrifo di Joe Panther, il sottotitolo di questo libro, avrete colmato le vostre lacune.
Infatti Joe Panther è Gesù. Un Gesù che è rimasto a vagare per 2000 anni sulla terra dopo risorto. Facile giustificare una persona che, vedendo duemila anni di storia dell'uomo, non abbia un'opinione troppo positiva delle umane genti. E Joe non l'ha. Spaccia e delinque come chiunque sia costretto a vivere ai margini. E lui, a maggior ragione, ai margini ci deve vivere. E' uno dei problemi che si porta appresso chi ha costantemente 33 anni.
E' amico, si fa per dire, del prete nella cui chiesa viene trovato il corpo decapitato di una ragazza. Parte così il caso. E Joe vi è coinvolto.
Dato che Joe è, in pratica, immortale, la fine è prevedibile. Gli elementi della trama sono, tutto sommato banali, con i cattivi, dalla parte dei poteri economici, coinvolti in una macabra vicenda di snuff movies. I poliziotti ci fanno come sempre la figura degli idioti e non manca il prete uscito temporaneamente dalla retta via, ma ora rinsavito ed ingiustamente accusato. Gesù non compie miracoli ma il suo salvataggio finale sa un po' di colpo di scena alla Indiana Jones.
Il tutto però si salva perché questi elementi sono intrecciati in maniera tanto fitta da renderne affascinante lo svolgimento; inoltre, c'è una scrittura più che degna, scorrevole, anche se i riferimenti colti l'appesantiscono talvolta oltre misura. Gli accenni di Sophia, il sociopatico agente dei servizi segreti che vuole impedire la rinascita dei movimenti cristiani radicali, ai memi di Dawkins si innestano a fatica in un thriller.
Un buon libro che potrebbe fare la gioia dei superstiti nestoriani.
L'unica difficoltà sarà spiegare in che modo la natura divina possa congiungersi alla carnalità disincantata di questo Gesù veramente umano, troppo umano.

Antonio

3------------------------------------

Sbancor, American Nightmare
Nuovi Mondi Media, Bologna, 2003, 176 pagine, 12 euro.
Prefazione di Valerio Evangelisti

Un libro prezioso, una miniera di informazioni, come lo sono i libri di Giulietto Chiesa. Uno squarcio sull'America che allarga la visione aperta da Ellroy con i primi due libri della trilogia americana (a quando l'atteso terzo su Nixon, James?). Ed anzi, sarebbe utilissima una tavola di corrispondenze tra i personaggi di American tabloid e Tre pezzi da mille con le note foto-biografiche finali. Così come sarebbe stato utile un apparato di note migliore, con un più alto tasso di reperibilità (come invece accade con La guerra infinita di Chiesa): sarà banale, Sbancor, ma pensa a chi, come me, lavora in una scuola, e senza una dimostrabile pezza d'appoggio certe cose proprio non le può dire! Ciò premesso, un'osservazione sulla forma scelta da Sbancor. La forma romanzesca (piuttosto che, ad esempio, la forma-epistolario à la Jack Folla) rende difficile controllare il bisogno di un plot coerente, che connetta e spieghi tutti i fili, laddove Sbancor vorrebbe lasciarci su molti punti, giustamente e coerentemente, in sospeso.
Ma ho l'impressione che il plot abbia preso la mano a Sbancor, sino a dare l'impressione che il complotto dei protagonisti della "sporca guerra" sia una sorta di Grande Vecchio della politica mondiale (non certo il Vecchio di Romanzo criminale, per intenderci): insomma, che lo "stalinista" Parvus prevalga sull' "anarchico" Sbancor. E qui il problema si fa politico, a dimostrazione di come la forma dell'espressione diventi forma del contenuto.
Negli ultimi tempi stiamo assistendo a una torsione dell'ipotesi-Impero in chiave "imperialistica", ad un progressivo appiattimento della multilateralità e della complessità dell'ipotesi iniziale su una lettura che mette al "centro" l'aspetto monarchico-militare (il cosiddetto "Impero 2"): da qui ipotesi come quella del "Golpe nell'Impero", della sovradeterminazione militare sulla pluralità oligarchica macro-economica, ecc. Non si tratta solo di un problema di analisi economico-politica (che è comunque della massima importanza): se questa lettura è fondata, allora è coerente, da parte antagonista, privilegiare certi aspetti piuttosto che altri nell'opposizione all¹Impero; allora la centralità del lavoro migrante nell'ordine economico mondiale passa in second'ordine rispetto alle opzioni militari, allora è coerente accusare di profetismo senza nome chi dice che "Bush perderà la guerra" (Casarini Vs. Wu Ming-Carta), allora - ci siamo, finalmente! ­ è giusto che il movimento dei movimenti si dia una struttura organizzata e si trasformi in un soggetto politico "forte"... insomma, un'aria da "Lenin oltre Lenin" che poco mi piace, e che purtuttavia circola da un anno a questa parte. Chiaro che Sbancor con tutto questo non c'entra - ma mi piacerebbe che, tirato in ballo da un senso secondo che gli scappa via dal romanzo, si esprimesse su questo.
Un'ultima considerazione, sul tema antiislamismo-Fallaci. Sbancor senbra avercela con gli arabi in quanto tali, e questo dà fastidio anche a me. E sembra rivalutare la Fallaci, quantomeno dandoci una interpretazione che fa pensare (e credo che sia anche giusta): la Fallaci ha reagito da borghese liberale, e va ascoltata per capire cosa pensa la borghesia liberale.
Aggiungo: per capire quanto di ferocemente intollerante e antilibertario c'è nella borghesia liberale. Problema: perché la Fallaci appiattisce un miliardo e mezzo di esseri umani su 20 terroristi? Perché, come è già stato notato, vive richiusa in un appartamento dal quale non esce quasi mai: in altri termini, vive in un burqa di cemento, e la televisione americana è la sua unica finestrella nel velo. La Fallaci va letta (ci vuole stomaco, ma s'è visto di peggio: almeno lei scrive in un buon italiano) per capire che il burqa è soprattutto una dimensione mentale creata dalle condizioni materiali di esistenza. Il problema allora diventa capire quali condizioni di limitazione del proprio essere producano quel viluppo di passioni tristi che governano i sentimenti anti-occidentali delle cosiddette "masse arabe" (con buona pace dei neo-stalinisti delle già vecchie-nuove br), e capire che tali sentimenti sono specularmente presenti in un'ampia parte dell'opinione pubblica occidentale. Nelle mobilitazioni contro la guerra abbiamo verificato che questa parte, forse, non è maggioritaria: più che inveire contro gli "arabi" in quanto tali (a partire da quando? Dal sacrificio di Isacco?), si tratta di pensare e praticare la possibilità di un lavoro politico analogo a quello che si è prodotto tra Europa e Sud America negli ultimi anni.

Girolamo

4------------------------------------

Serge Quadruppani, La breve estate dei Colchici
Il Giallo Mondadori n.2822, 8/5/2003, euro 3,55
Traduzione di Maruzza Loria

Di giallo, La breve estate dei colchici ha soltanto la copertina e il nome della collana di pubblicazione: Giallo Mondadori per l'appunto. Peccato, perché questo romanzo di Serge Quadruppani è un esempio perfettamente riuscito di noir, tradotto mentre il black style veste, con la sua linea, un numero eccessivo di scelte editoriali.
Ha fatto bene Wu Ming 1 a inserirlo nella selezione dell'ultimo Nandropausa. Colchiques dans les Prés - così nell'originale francese - merita, infatti, una celere ristampa che gli garantisca visibilità negli scaffali delle librerie, ben oltre i ripiani delle edicole cui lo condanna l'uscita in una collana periodica. Nella vertiginosa centrifuga narrativa di queste 200 pagine, la slabbrata categoria di nero ritrova i suoi antichi contorni. Dopo la lettura, la notte fonda del genere, in cui tutti i libri sono bigi, si rischiara.
Dalle prime pagine non si direbbe. L'incipit alla maniera di Izzo sembra alludere all'ennesima storia di amore e amicizia, gonfia di senso morale, alla fine della quale i princìpi vinceranno comunque sulla bassezza del torto commesso e costato al protagonista, Simon Lambrini, diciassette anni di galera. Michel, Bruno, Simon e Marie: tre amici e una donna, come in Casino Totale, ancora un ambiguo quadrilatero di passione, sogni e desideri. Ma altre somiglianze scalzano queste analogie e Lambrini finisce per indossare i panni di un redivivo Edmond Dantés, che riemerge come uno spettro dalla bruma del passato. Certo, le celle della prigione di Aix-en-Provence non sono le segrete dello Chateau d'If; a Marie non interessa la composta e dolorosa dignità della Mercedes di Alexandre Dumas; Roger il filosofo, compagno di cella di Simon, non ha la saggezza maieutica dell'abate Faria; e lo stesso Lambrini manca del fascino ricercato del conte di Montecristo, ma, come il suo avo da feuilleton, persegue un solo obiettivo: diventare la nemesi di coloro che l'hanno ingannato. L'idea di Quadruppani è di interesse notevole, offrire una versione "sporca" e disperata di un capolavoro della letteratura d'avventura vale quanto un suggerimento brillante. C'è da augurarsi che altri romanzieri lo recepiscano e provino a svilupparlo. Si tratta dell'ennesima conferma - se ce ne fosse ancora bisogno - che l'universo delle storie si regge su grandi archetipi declinati nei modi più imprevedibili.
Tuttavia, gli stilemi non pesano, non sottraggono freschezza alla narrazione e si consumano in fretta, poco prima che spietatezza, volgarità, frustrazione, rancore, isteria e paranoia gonfino il bubbone della cattiveria umana fino a farlo scoppiare. D'altronde, La vita è uno schifo recita il titolo dell'opera di Léo Malet, unanimemente considerata la pietra miliare del genere, e Quadruppani la lezione sembra averla seguita alla lettera. Sono piene di uno schifo sublime le esistenze dei suoi personaggi, fa orrore vedere con quale noncuranza siano rinnegati i valori di un tempo, produce ribrezzo la sordida bramosia sessuale che cova sullo sfondo della provincia francese, disgusta quel misto di lussuria, ricatto e violenza che ti cola addosso e finisce per entrarti inesorabilmente nelle ossa.
Nel retroscena, l'autore dipinge l'affresco di un mondo divorato dal male, popolato da sbirri corrotti e sadici, da magistrati che applicano la legge senza conoscere la giustizia e da depravati che si consumano in fantasie ignobili. I confini dell'equità sono approdi irraggiungibili, costantemente allontanati dall'assenza di una qualsiasi forma di rettitudine. La ragione e l'integrità vengono impietosamente sottoposte ad autopsia e il referto è quello di morte violenta. Qualcuno potrebbe chiedersi che senso ha descrivere la realtà in questo modo. Costui cambi letture, perché il genere nero non lascia scampo.
Se è vero che nel noir l'ordine disintegrato dall'evento iniziale non trova mai una ricomposizione, La breve estate dei colchici è assolutamente fedele alle regole della "grammatica nera", cancellando qualunque ipotesi di riassestamento e procedendo alla sepoltura del concetto di salvezza. Nessuno può redimersi. Così, il tema di Lacenaire («Da quel momento la mia vita divenne un lungo suicidio») trova un'interpretazione magistrale che culmina nel pazzesco assolo delle ultime tre pagine, di cui poco è consentito dire affinché la sorpresa non sia rovinata. Il colpo di scena arriva come un'impietosa raffica di diretti e, per evitare il sicuro ko, conviene mettersi in testa, una volta per tutte, che, nel noir autentico, il lieto fine non è contemplato. Pèrdono tutti, lettore compreso.

TDL

5------------------------------------

Jason Starr, Piccoli delitti del cazzo, Meridiano Zero, Padova 2003, 224 pagine, 12,50 euro.
Traduzione di Federica Alba

Ho letto il libro di Jason Starr Piccoli delitti del cazzo, sinceramente, perché me l'hanno regalato. Con questo titolo non ero molto attratto, mi sembrava un libro del cazzo: se cercavano di attirare lettori facendo leva sul titolo forse dietro non c'era molto di valido. Il titolo originale, Fake J.D., tradotto dovrebbe suonare più sobriamente "Carte false". Devo pure segnalare diversi errori di battitura che se danno fastidio nei quotidiani nei libri diventano insopportabili - una piccola casa editrice dovrebbe caratterizzarsi anche per la qualità del prodotto.
E invece è stata una bella scoperta: un libro sul mondo dei cavallari e i loro sogni, e qual è il più grande sogno di un cavallaro? Non certo vincere alle corse ma comprarsi un cavallo da corsa! Inizia un po' alla Febbre da cavallo versione americana e piano piano sempre con leggerezza vira prima su tonalità Dostoevskijane - il riferimento d'obbligo è a Il giocatore - per poi tingersi decisamente di nero.
Molto interessante lo stile del racconto in prima persona del protagonista, che sembra che stia parlando di qualcun altro; di più non posso dire se non che si legge in due giorni da pendolare (occhio a non perdere la fermata). Adesso non vedo l'ora di leggere l'altro romanzo di
Jason Starr Chiamate a freddo un noir nel mondo dei call center (Chi è che lavora nei call center e non ha sognato di uccidere il capo?).

Gabriele

6------------------------------------

IL RIPESCAGGIO

Oscar Marchisio, La stanza mnemonica, Synergon, Bologna 1995

«Sono trecento chilometri per il confine. Abbiamo il serbatoio pieno, due pacchi di sigarette, è estate e nessuno di noi quattro è capace di raccontare la trama de La stanza mnemonica», così aveva detto il Calabrese mentre imboccavamo la corsia di accelerazione dell’autostrada. Avevo incrociato il suo sguardo nello specchietto retrovisore, un attimo di silenzio, e poi, perfettamente calato nella parte, avevo risposto: «E vai!», mentre mi mettevo nella scia di una grossa BMW.
Al posto del passeggero, impassibile Primo frugava nel suo zaino nero. «Eccolo», esclamò con aria seria. Aveva estratto un libro dalla copertina lilla. Dietro di lui, Quinto si fregava le mani in silenzio. Potevo capirlo: lo scrittore di fantascienza era al cospetto di un testo unico nella storia della science fiction italiana. Il pulsare adrenalinico delle sue vene sembrava una grancassa.
Conoscevo a memoria gli estremi bibliografici di quell’opera e potevo citarne ampi stralci senza averla mai letta. Il mantra dell’ultimo mese di trasferte letterarie aveva il ritmo sincopato della prosa di Oscar Marchisio. Quando le porte di quel mondo di devices si erano aperte innanzi ai miei occhi miopi, non avevo potuto fare a meno di affezionarmi alla popolazione che lo abitava, agli indimenticabili personaggi partoriti da quella fantasia visionaria: Jurgens, Diego, Beppe Carvalho, Talzolari e, su tutti, LUI, Frank, geniale Frank, “duro Frank”, inimitabile Frank. Frank, per cui stavamo perdendo la vita tre settimane addietro, quando avevo lasciato lo sterzo per piegarmi sulla pancia in un tributo alla genialità del Maestro.
«E’ tempo di capire la trama di questo romanzo. T*** guida, io non leggo in macchina. Tocca a voi», aveva sentenziato Primo e il libro era passato sui sedili posteriori. «Dalla prima pagina. Questa volta si comincia dall’inizio», mi ero raccomandato col Calabrese. Colpo di tosse, voce schiarita e poi musica per le orecchie. Long Island, Cape Town, Barcellona, Genova, Bologna, la campagna emiliana. L’abitacolo saturo di luoghi. Per quanto incalzati dai 150 km/h, i cartelli dell’autostrada scorrevano più lentamente delle ambientazioni de La stanza mnemonica. «A che pagina siamo?», chiedeva Quinto angosciato e intanto il giardino della villetta di Long Island era sfumato nella calca di Manhattan che era sparita nelle ombre della casa di Cape Town che si era dissolta nell’aria fumosa di una taverna catalana che era già confusa nella nebbia della stazione di Bologna che era stemperata nella bruma della campagna d’Emilia, dove Frank ricordava – tanto per cambiare – l’impareggiabile sapore degli ortaggi cucinati da sua nonna. Sapore intenso e del tutto simile a quello di un “cd-rom di verdure belle fresche”. Reminiscenze alla Proust. Cyber-sinestesie. Fanta-metafore.
Guardavo di traverso Primo, che ricambiava l’occhiata e scuoteva la testa. Irraggiungibile, una prosa irraggiungibile, pensavamo, e il flusso delle nostre coscienze era unito come in un gigantesco device neurotico. «A che pagina siamo?», ansioso Quinto. Freddo il Calabrese: «Pagina dieci». «Come fa? Come fa?», chiedeva Quinto più a se stesso che a noi altri.
Ricordo ancora l’odore intenso di quel viaggio, l’olezzo della Padania, quel fetore del tutto simile a un floppy di merda di maiale. «Sì, lo so, le porcilaie», commentava Primo per rincuorarmi. Un personaggio a ogni facciata, un luogo a ogni pagina e a ogni chilometro, la trama si rifrangeva in mille rivoli. Nessuno riusciva a ricordare cos’era accaduto venti righe prima. Stavamo perdendo ancora. Primo si ribellò: «No, non possiamo, non possiamo non ricordare». Prese il telefono con un movimento brusco.

Terzo sfoglia il giornale distratto e si accende una sigaretta. Lo squillo del telefono lo distoglie dalla sua occupazione.
«Pronto?».
Una voce disperata: «Allora, ascolta e ricorda. Ricorda! La stanza mnemonica è la stanza degli attrezzi della villetta di Frank a Long Island. Lì c’è il device e Frank si collega nell’iperspazio dove conversa con Diego e rammenta la mattina a Manhattan, poi gli viene in mente la taverna di Barcellona, dove incontra Beppe Carvalho che gli molla un cartone…».
«Perché gli molla un cartone?», lucido Terzo.
«Non lo so, non interrompermi. Gli molla un cartone, dicevo, e Frank sviene, quando perde conoscenza ricorda la stazione di Bologna e ricorda di ricordare la campagna dei suoi nonni. Con gli ortaggi, con gli ortaggi che sanno… che sanno di un cd-rom di verdure belle fresche… Pronto? Pronto?».
Avevamo trasmesso, ma non avevamo ricevuto segnale.

Che succede ne La stanza mnemonica?
Dal maestro del cyberpunk italiano, una sfida ardua, pericolosa, estrema.
Giocatevi tutto.

T***

"Se Accio avesse incontrato il giovane Holden, lo avrebbe gonfiato di botte!"
Antonio Pennacchi


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