Indice /Giap/#24 – “Fili de le pute traite!” – 10 dicembre 2000

 

1. Resistenza e revisioni storiche: cazzi nostri

2. Questions & answers

3. "Fili de le pute traite!"  Una noticina sul linguaggio di Q

 

 

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[in anteprima su /Giap/ una riflessione che verrà pubblicata sul primo numero della nuova serie di *Zero in condotta*, quindicinale bolognese di sinistra e di movimento]

 

Resistenza e revisioni storiche: cazzi nostri

 

Wu Ming

 

 

Chi ci conosce sa che non ci siamo mai stracciati le vesti sbraitando contro i “revisionismi”, né abbiamo mai presidiato i mausolei della Memoria Storica. Il passato va rimesso in gioco, costantemente, radicalmente. Non si può che essere revisionisti, nel senso che bisogna ri-vedere, adottare nuovi sguardi, giocare d’anticipo.

Siamo una “stecca” nel coro di proteste indignate contro Storace e la sua proposta da Min.Cul.Pop., ma è il coro che stona, non noi.

Questa querelle è solo la più recente conseguenza di gravi errori della sinistra, in particolare di quella istituzionale, togliattiana, il filo nero della realpolitik che va dal PCI ai DS.

Per decenni ci è stata proposta una stucchevole oleografia, “pedagogia resistenziale” fondata sull’edulcorazione, rimozione degli aspetti più controversi della guerra partigiana a vantaggio di una rappresentazione patriottica-frontista sciapa come il testo di “Bella ciao” (c’erano canzoni partigiane molto più forti e belle, da “Pietà l’è morta” alla “Badoglieide”).

Nel 1990 le facoltà occupate pullulavano di superficiali cultori di una non-violenza a-storica, trascendentale; ebbene, a volte capitava di sentirli cantare “Bella ciao”, e se gli facevi notare che i partigiani erano armati, sparavano, condannavano a morte, ecco che gli sguardi si spegnevano. La Resistenza era diventata uno dei tanti elementi di un’identità di sinistra fai-da-te, annacquata, buonista, tipo foto del Che Guevara incollata su una pagina della Smemoranda (il Che era un guerriero coriaceo e spietato, altro che non-violenza!).

In questa ricostruzione da refrain dei Modena City Ramblers al concerto del 25 aprile, sembra quasi che i partigiani non sparassero, non fucilassero, non spargessero sangue né toccasse loro rimestare nelle interiora umane.

Effetto boomerang: l’edulcorazione fa il gioco dell’avversario, che non fatica a rovesciarla in demonizzazione. La destra propone come oggetto di scandalo il fatto che i partigiani… uccidessero. Bella scoperta!

Eppure è una scoperta, o perlomeno una riscoperta.

Le foibe, le esecuzioni sommarie di Moranino, il “Triangolo della Morte”… Tutte cose perfettamente comprensibili, una volta inserite nel contesto di uno scontro violentissimo, guerra civile fatta di torture e rappresaglie, dove ci si doveva difendere da spie e infiltrati e c’era poco tempo per il “garantismo”. “Nel dubbio sopprimete”. Una cosa tanto all’ordine del giorno che tocca farla anche al partigiano Johnny (di cui molti parlano bene senza aver letto il libro).

Certo, ci andarono di mezzo anche degli innocenti, perché l’odio può farti volare col pilota automatico e la guerra (qualsiasi guerra) non fa sconti a nessuno. Questo non autorizza gli eredi delle Brigate Nere  che il pilota automatico non lo staccarono mai  a farci discorsi ex cathedra.

[N.B. I suddetti innocenti non erano mica tutti anticomunisti: c’erano anche un trotzkista (Pietro Tresso) e qualcuno della Sinistra Comunista. Ci furono (per fortuna pochi) episodi di “fratricidio”, come nella guerra civile spagnola. Ma questi  per dirla con Vitaliano Ravagli  “son poi cazzi nostri”.] 

Le foibe, poi… guai a narrare gli antefatti, sennò diverrebbe comprensibile la reazione degli sloveni dopo angherie, espropriazioni di terre, rastrellamenti, persecuzioni razziste da parte del regime d’occupazione italiano che li considerava uentermenschen, subumani.

Quanti libri sulla guerra partigiana fanno davvero sentire il tanfo di morte e di merda, vermi che rimestano nelle piaghe aperte, esalazioni di viscere putrefatte?

E’ colpa della sinistra storica, delle eccessive cautele consociative del Partito “di lotta e di governo”, se tutto questo non è senso comune: l’uso della violenza andava spiegato, se non sempre rivendicato, con chiarezza e decisione, anche per quel che riguarda gli episodi “equivoci”. Se rimuovi parti della tua storia, sarà il nemico a impadronirsene per riscriverla in toto. Se improvvisi a vanvera sul tema della “riconciliazione” e sulle “ragioni” di chi stava dall’altra parte, con SS e repubblichini, non puoi aspettarti che i loro discendenti ti ricambino la cortesia. Se abbassi la guardia, l’avversario ti colpisce più duro.

A questo punto non serve a niente arroccarsi, stare sulla difensiva: al contrario, occorre rimettere tutto in gioco, scavare, trovare e raccontare storie a suo tempo accantonate perché non trovavano posto nell’antinomia santificazione/demonizzazione. Restituire al passato la sua complessità. E’ quello che abbiamo cercato di fare lavorando con Vitaliano Ravagli, è quello che continueremo a fare in futuro.

Complessità. Quanti sanno che l’attuale vulgata sulla Resistenza non risale più indietro degli anni Sessanta, e che le celebrazioni istituzionali si imposero col primo centrosinistra, quando la DC allargò la coalizione governativa al PSI di Nenni? Prima c’erano stati vent’anni di rimozione, epurazione al contrario, repressione anti-partigiana che aveva costretto all’espatrio centinaia e centinaia di compagni. Forse la repressione è stata interiorizzata, a un certo punto è diventata auto-repressione. Ci sono storie di allora e di oggi che mettono alla prova chi le ascolta, tradiscono ogni aspettativa, ce la sbattono in faccia, la complessità.

La storia di Angiolo Gracci “Gracco”, comandante partigiano della Brigata Garibaldi "Vittorio Sinigaglia", medaglia d’argento al valore militare, liberatore di Firenze, sospeso dall’ANPI per aver attaccato la NATO durante un discorso commemorativo (25 giugno u.s., 56° anniversario della battaglia di Pian d'Albero, presso Figline Valdarno).

La storia di Spartaco Perini, oggi pluriottantenne, fondatore della Resistenza ad Ascoli, medaglia d’argento, perseguitato prima, durante e dopo la guerra, fuoriuscito dall’ANPI che lui stesso aveva fondato, isolato in città per i suoi attacchi alla giunta di destra e la sua vicinanza all’ambiente dei centri sociali.

Ce ne sono, di asce di guerra sepolte pochi centimetri sotto i nostri piedi.  La sensazione di noia che ci ha sempre invasi nel sentir parlare di Resistenza ci ha a lungo impedito di considerarla una guerriglia.  Tutte le generazioni successive della sinistra hanno desiderato sentirsi parte di una comunità aperta, transnazionale e trans-epocale, basata sulla condivisione di un immaginario combattente… La “pedagogia resistenziale” ha sottratto materia prima a quest’importante processo mitopoietico,  e si è dovuti ricorrere alle importazioni dal Terzo Mondo (non sempre materiali di prima scelta, peraltro).

Oggi più che mai, di queste cose non si dovrebbe parlare, sono estranee alla realpolitik, non fanno pendant col ghigno di Piacione, le serate al Jackie O’ di Roma, il catamarano di D’Alema, Bertinotti in prima fila ai concerti di Venditti…

To be continued.

 

 

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Normalmente includiamo in /Giap/ parti di rassegna-stampa solo se i testi hanno un significato e un’utilità particolari. Alcune domande che ci vengono poste quotidianamente da iscritti a /Giap/ coincidono con quelle dell'intervista uscita sul settimanale imolese *Sabato Sera* (2/12/2000), in occasione della presentazione in loco di *Asce di guerra*. Riportandone alcuni stralci prendiamo diversi piccioni con una fava.

 

Partiamo subito da una domanda chiara. C'è chi mette in forte dubbio la veridicità della vicenda nel Laos di Ravagli. Secondo voi ha veramente vissuto ciò che racconta?

 

Non abbiamo percepito alcuna incredulità nelle presentazioni pubbliche del libro. Chiaro, non esistono fotografie, ma stiamo parlando di guerriglia, non di un ricevimento della contessa Serbelloni Mazzanti Viendalmare. Le nostre ricerche ci hanno permesso di contestualizzare la storia di Vitaliano, che può sembrare inverosimile solo se non si conosce la storia di quell’area geopolitica e quella dell’espatrio politico dall’Italia. Non solo abbiamo trovato altri ex-partigiani nell’Indocina degli anni Cinquanta, ma le fonti consultate hanno confermato l’esattezza del quadro dipinto intuitivamente da Vitaliano, che  non va mai dimenticato  stava nel bel mezzo di una giungla, lontano dai palazzi in cui si negoziavano tregue, alleanze e spartizioni di territori. Inoltre, non esiste praticamente nulla sul Laos in lingua italiana, noi abbiamo dovuto ordinare libri americani, visitare decine di siti in inglese e francese… Vitaliano non può aver attinto ciò che scrive da libri che non aveva modo di consultare. Certo, potrebbe essersi inventato tutto e averci pure azzeccato, ma allora avremmo tra noi un nuovo Emilio Salgari, e dovremmo toglierci il cappello al suo passaggio.

 

[…]

 

La lotta comunista internazionale si allaccia alle vicende partigiane. […] quali sono state le reazione dei partigiani e dell'Anpi alla vostra operazione?

 

Bisogna distinguere: una cosa è l’Anpi come istituzione, un’altra sono i combattenti partigiani come soggettività, corpo vivo, rete di contatti, biblioteca di “libri di carne e sangue”. Posizioni ufficiali dell’Anpi non ne abbiamo ancora registrate, ma abbiamo il plauso di molti che hanno fatto la Resistenza, a partire da quelli che abbiamo intervistato per scrivere il libro. La primissima presentazione di “Asce di guerra” è stata al Teatro Polivalente Occupato di Bologna, allusivamente ubicato in viale Lenin. E’ stata un’interessante, suggestiva fusione tra due mondi che normalmente non s’intersecano, e che già nel libro collidevano creativamente: i partigiani e il nuovo movimento globale antiliberista […]

 

 

C'è chi vi accusa di un atteggiamento ambiguo: da una parte vi dite comunisti, dall'altra siete protagonisti di una iniziativa imprenditoriale. [Potete chiarire] il vostro atteggiamento nei confronti della comunicazione e più in generale il progetto culturale che vi guida?

 

Il presupposto è che il mestiere del narratore non ha nulla di "idealistico" ed e' un lavoro come un altro, senza più alcuno status privilegiato. Al pari degli altri lavoratori, i narratori e le narratrici possono riunirsi in cooperative, società di mutuo soccorso, laboratori auto-amministrati… In questo contesto s’inserisce il nostro tentativo di intrattenere con le case editrici un rapporto alla pari, da azienda ad azienda. Rifiutiamo il ruolo di "autori di scuderia". La struttura che abbiamo scelto ci garantisce indipendenza e spazi di manovra. Quando usiamo la parola “impresa”, devi pensare a una bottega artigiana, più che alla FIAT o alla General Motors. Le "botteghe" dei pittori medievali e rinascimentali, la Bauhaus...quelle erano tutte "imprese". Mai come nell’età dell’informazione (ci si perdoni il luogo comune) “impresa” può designare un soggetto (e concetto) “leggero”, “corsaro”, forzabile in ogni direzione. Noi siamo un “atelier di servizi narrativi”, una start-up della nuova letteratura.

Quanto alla presunta contraddizione tra l’essere impresa e fare politica, posso fare l’esempio della statunitense RTMark (http://www.RTMark.com), finora il modo più intelligente di sfruttare a scopi politici e sovversivi la legislazione sul diritto d'impresa: un’azienda che finanzia e promuove progetti di sabotaggio al capitalismo! Potremmo anche fare l'esempio di Greenpeace, che è una grande corporation, e qualunque cosa si pensi di loro non si può negare che i soci di quell'azienda siano militanti politici (in senso non troppo stretto) proprio in virtù del loro essere soci.

Se poi vogliamo risalire alle origini del movimento operaio, vediamo che molti illustri padri del socialismo erano imprenditori o capitani d’industria, da Robert Owen allo stesso Friedrich Engels.

 

 

3-----------------------------------

 

Ogni tanto riceviamo commenti critici sul particolare registro linguistico non “filologicamente corretto” usato in Q (lapidarietà ellroyana, turpiloquio contemporaneo ecc.) Lo scorso anno alcuni “poeti laureati” storsero il naso, quasi tutti in privato, uno solo (Giulio Mozzi) ebbe almeno il coraggio di criticarci pubblicamente.

Qualche giorno fa un lettore ci ha spedito un nuovo messaggio:

 

<<… trovo il linguaggio dei personaggi dell'epoca

un po fuoritempo, cioe sentirmi i principi dire Cazzo etc mi richiamava

molto al linguaggio terra a terra del Cyberpunk e lo trovavo un po’

anacronistico, non mi ha convinto.>>

 

e un altro ci ha inoltrato un interessante punto di vista espresso su una mailing list di scrittura creativa, http://www.scrittura.com/:

 

<<…lo stile e' assolutamente illeggibile. Pare scritto da uno che in vita sua abbia visto soltanto film di john wayne e, dopo essere andato a vedere "il nome della rosa" attratto esclusivamente dal nome di sean connery, abbia deciso di scrivere qualcosa del genere. Ovviamente senza leggere il libro. Demenziale. Lascio giudicare a voi, scegliendo un passo a caso a beneficio di chiunque non l'abbia letto. Il passo scelto si svolge in Turingia, nel maggio 1525, e non, come si potrebbe pensare, nella

jungla vietnamita nel 1970...

[riporta integrale il cap.3 della prima parte, poi riprende:]

Un tedesco del 16°secolo, ancorchè lanzichenecco, non puo' dire cose come "fottuti bastardi" o "merda santa". Quale ricerca filologica c'è dietro un'espressione come "eccheccazzo!"?

A me una cosa così impedisce di andare avanti nella lettura. Sono fatto così. Non vedo perchè dovrei accettare da autori professionisti, per leggere i libri dei quali devo pagare, delle puttanate che non accetterei mai di mettere in un mio lavoro, che non verrà mai pubblicato e che nessuno pagherà

mai. Sarà invidia, non dico di no...>>

 

Qualche commento:

Q è stato scritto come se stessimo traducendo da un originale inesistente, quindi abbiamo sempre cercato di “rendere”. Non potevamo certo scrivere in un’alternanza di tardo latino e tedesco del XVI° secolo, né cercare di un banale effetto mimetico innestando sul corpo dell’italiano moderno arcaismi tipo “imperocché”, “in tal guisa” etc.

Nel romanzo abbiamo usato registri e stili diversissimi tra loro, ad esempio per dare un’idea dell’abisso che separava la rozzezza plebea della lingua parlata (qualunque lingua parlata) dall’ampollosità di quella scritta (quasi sempre latino). Spesso siamo ricorsi a prestiti da diversi dialetti e gerghi locali, soprattutto settentrionali (“mica brustulli”, “te” al posto di “tu”, passato prossimo al posto di quello remoto, uso pleonastico delle particelle pronominali come in “a me mi piace”…) ma non solo.

Nessuno di noi può sapere con precisione come parlassero i principi, ma è verosimile che non parlassero come scrivevano. Per quanto riguarda i lanzichenecchi, è immaginabile che non parlassero forbitamente.

Una cosa è certa: fino a non molto tempo fa si viveva in mezzo alla merda e ad altre deiezioni organiche. Si cagava nei fossi o in un catino che poi veniva vuotato in cortile. Si pisciava nel vaso da notte che poi rimaneva (pieno) sotto il letto fino al mattino. Non ci si lavava praticamente mai. Si puzzava già da vivi, figurarsi da morti. Ancora nel XVIII° secolo i nobili europei facevano il bagno solo una volta all’anno. Occorreva rendere con un linguaggio materico e un registro basso tale universo di sporcizia e scatologia. Verosimilmente nessuno, dico nessuno, parlava come si parla in certi romanzi storici. Tantomeno nei monasteri medievali si parlava come Guglielmo da Baskerville.

Ricordiamo a tutti che una delle primissime testimonianze scritte dell’italiano volgare risale al XII° secolo ed è affrescata in una sorta di fumetto ante-litteram nella navata centrale della basilica di S. Clemente, in via di S. Giovanni in Laterano (Roma): i servi del tiranno Sisinno credono di aver catturato S. Clemente per portarlo in prigione, ma si sono sbagliati e hanno legato una colonna, che tirano senza riuscire a smuoverla. Sisinno li incita chiamandoli per nome (Cosmaro, Carvoncello, Albertello) e sbraita: "Fili de le pute traite".

Se descrivessimo questa scena in un romanzo e Sisinno dicesse: “Tirate, figli di puttana!”, qualcuno avrebbe da ridire?

Si è imprecato e bestemmiato in tutte le epoche, più o meno sempre con gli stessi riferimenti ai genitali o alle deiezioni umane (noi in gran parte usiamo ancora le parolacce latine). "Testa di merda", "merda santa" etc. - espressioni usate nel capitolo citato -  sono rese in italiano di insulti e imprecazioni presenti in diverse lingue germaniche. Siamo anche ricorsi a qualche licenza, ma e' una licenza anche tradurre "asshole" (letteralmente: buco di culo) con "stronzo", o usare toscanismi come faceva anche il sommo Bianciardi nel tradurre Henry Miller ("Le infilai il bischero nella patonza"). Tutte cose perfettamente legittime: tradurre non significa “traslare”, ed è per questo che i traduttori elettronici producono effetti ridicoli.

Alla prossima, facce di cazzo! ;-)