/Giap/ 20 – “La Repubblica”: esclusive e scorrettezze – 21 ottobre 2000



da "La Repubblica" di sabato 21 ottobre 2000, a tutta pagina in prima di "Cultura" (pag.49):

Il vietcong che vive in Romagna
il nuovo romanzo degli ex luther

di MICHELE SMARGIASSI

Da trentadue anni il compagno Gap non dorme solo. Gli fanno compagnia ogni notte centinaia di volti. Occhi a mandorla, scuri contro il verde scuro della giungla; visi sporchi di fango, contratti in smorfie di dolore, gridano, lo tormentano. «Ne ho uccisi troppi». La pacifica campagna attorno a Imola, ben pettinata di vigneti, somiglia assai poco alla foresta indocinese, ed anche Vitaliano Ravagli ha l’aspetto di uomo pacifico. Sessantasei anni decisamente ben portati, «ho ancora un cazzotto da un quintale», ma questa è terra di uominitoro, stirpe di braccianti, spalle larghe ereditarie. Nulla autorizza a credere di aver di fronte un vietcong. Un vietcong romagnolo, un comunista senza tessere che per due volte, nel ‘56 e nel ‘58, s’imbarcò lungo le misteriose rotte dell’internazionalismo socialista per andare a combattere nel Laos contro «i fascisti di laggiù».

Si versa uno cherry da una bottiglia con etichetta in cirillico. «Lei non mi crede. Non me ne frega niente. Potrei dirle della ferita alla gamba, dell’occhio che ho perso. Non m’interessa. So io quel che ho vissuto». Cioè otto mesi da romanzo. E in effetti c’è scritto «romanzo» sotto il titolo Asce di guerra (Marco Tropea editore, pagg. 376, lire 29.000), l’opera seconda dell’ex quartetto Luther Blisset, autori del bestseller Q, ovvero Roberto Bui, Giovanni Cattabriga, Luca di Meo e Federico Guglielmi, che oggi si firmano collettivamente Wu Ming (in cinese: "senza nome"). Loro hanno creduto a Ravagli, incontrato quasi per caso mentre lavoravano a un altro ambizioso racconto, 54, ambientato negli anni Cinquanta. «C’è uno a Imola che ha una storia straordinaria di quel periodo»: fu il giallista Carlo Lucarelli a metterli in contatto. Incontro, cena, una notte di fulminanti racconti. E la decisione di scrivere, assieme, un libro parecchio strano, "romanzo" per comodità, in realtà oggetto narrativo che mescola biografie vere e di fantasia, storiografia accurata e «disinvolta». Come Q, nella forma. Contro Q, o meglio contro il successo di Q, nella sostanza.

Perché attorno alla storia di Ravagli, vietcong di Romagna, Wu Ming organizza un intreccio dall’impatto emotivo forte, non sterilizzato dalla distanza storica. In Asce di guerra riprendono vita le storie di (reali) partigiani irriducibili, ribelli delusi dal dopoguerra, «quelli che non smisero di sparare», storie ripulite dall’agiografia resistenziale del partigiano sempre «buono»; a riscoprirle nella loro rudezza, con progressivo stupore, nell’ex rossa Bologna del 2000, è il (fittizio) giovane avvocato Zani, nipote di partigiano, amico dei centri sociali e difensore degli extracomunitari. E il cortocircuito fra Resistenza, antiimperialismo e spirito di Seattle serve a riaprire un capitolo intoccabile nell’Italia della «riconciliazione nazionale», già liquidato dieci anni fa con la feroce polemica sui «delitti del dopoguerra»: quello della «Resistenza tradita», della «rivoluzione rubata». Un libro pensato come deliberato «oltraggio al presente» e alle sue rimozioni. La storia e la memoria come «asce di guerra» da disseppellire.

La sua ascia, Ravagli non l’ha mai sepolta. «Odio ancora oggi con la stessa forza di quando avevo dieci anni». Odio è la parola che pronuncia più spesso, in due ore di racconto. «Sentieri dell’odio» portarono in Laos quel ragazzo che aveva voluto darsi un nome di battaglia, Gap, anche se nel ‘44 era troppo giovane (dieci anni) per combattere coi partigiani.

Odio accumulato assieme alla fame della sua famiglia, «la più povera di Imola», falcidiata dalla Tbc «che è peggio dell’Aids»; odio per le Brigate nere più ancora che per i tedeschi, odio per «le spie», per «i fornai che facevano il pane col gesso», odio che non si spegne con la Liberazione, quando «al Bar Nicola, detto il Cremlino, i compagni venivano sul Guzzino a fare i fighetti, mentre noi non avevamo da mangiare». Odio senza sfogo, odio che si coagula in un’arma e nella voglia bruciante di usarla, «avrei dato chissà cosa per uccidere un fascista». Qualcuno si cavò quella voglia anche a guerra finita. Gap invece scelse una strada impensabile, la più strana, la più difficile. Una strada lunga 18 mila chilometri.

«A Milano c’era un covo di compagni, lungo i navigli. Me lo indicò Teo, un partigiano che non aveva messo il cervello all’ammasso. Non c’entrava il Pci, anzi l’idea era di andare in Indocina a farci le ossa per tornare qui e far vedere come si fa ai compagni che s’erano incollati alle poltrone con la colla da falegnami. Mi presentai, mi accettarono». E quando arrivò la cartolina precetto, il ventiduenne Ravagli disertò. Una barca, poi un espatrio a piedi in Jugoslavia, poi un aereo, via Albania, poi un addestramento di otto giorni in una località dell’Asia centrale, poi un altro volo: e poi la giungla. «Eravamo diciassette italiani, di Milano, Bari, altre città. Credo di essere l’unico tornato vivo». E così non ci sono testimoni per confermare le sue parole. «Le ho detto: lei è libero di non credermi». E i «compagni di Milano» chi erano? «Non glielo dico». Una rete che organizza brigate internazionali per il Vietnam, e nessuno ne ha mai saputo nulla? «Libero di non credermi».

La giungla. Un’arma: il mitra Bren. Un compito: proteggere i primi convogli di «formiche rosse» che rifornivano la nascente rete vietcong nel sud Vietnam. Un comandante: il cinese Li, «un reduce della Lunga Marcia, un duro stratega che però dopo ogni attacco piangeva i suoi uomini caduti». Altro che brigate internazionali: «Ci dispersero, ognuno in un gruppo diverso. Non gli piacevamo. Non capivano perché andassimo a combattere in quell’inferno una guerra non nostra. Ci consideravano matti, e molti di noi erano davvero dei disperati che potevano finire lì come nella Legione straniera».

Combattenti «inesistenti» di una guerriglia clandestina, quella del Laos, oscurata e inglobata dalla più celebre guerra del Vietnam. Inquadrati in formazioni irregolari, quelle estremiste appoggiate dai cinesi, indifferenti alle tregue e ai ribaltamenti di fronte dell’intricatissima vicenda laotiana.

«Era una guerra tribale», sospira Gap. I consiglieri militari francesi aiutavano l’esercito governativo, ma non andavano mai in prima linea. Gli americani, già pronti a prendere il loro posto, ancor meno. «I nostri veri nemici erano i meo, "selvaggi", bande di ragazzi, quasi bambini, indigeni feroci come belve, che ammazzavano, stupravano, bruciavano vivi».

Ravagli diventa guerrigliero per cercare «fascisti da ammazzare», per placare il suo odio. «La mia era una guerra personale, uccidevo per dimostrare qualcosa a me stesso». Sangue ne trova a volontà. «Eravamo drogati di adrenalina e d’altro, eravamo macchine da guerra, l’ideologia non c’entrava più, era solo uccidere o essere uccisi». Quattro mesi di inferno in un paradiso terrestre di animali e piante mai visti.

Poi, in un attimo di lucidità, Ravagli riesce a farsi rimpatriare. In Italia sconta i quattro mesi di renitenza alla leva con la naja in una compagnia di disciplina. Ma una volta congedato, a Imola si sente un estraneo, un disadattato. «Avevo ucciso. Mi disgustava la normalità». Il bar. Le futilità di paese. Il magro benessere del preboom. «O uscivo pazzo, o combinavo qualcosa di grave». E allora via, di nuovo al servizio di zio Ho Chi Minh, stesso itinerario, stessa destinazione. La seconda volta è anche peggio: marce nel fango, malattie, serpenti velenosi, assalti a convogli d’oppio. E ancora sangue, e morte. Fino a superare il limite. «Io sono un comunista, non un assassino».

Addio alle armi: Gap torna a casa. Apocalypse Now è finita.

I titoli di coda sono trent’anni da raccontare in poche parole. Un po’ di donne, due figli, un’avventura commerciale sfortunata, una pensione da 717 mila lire al mese. Vietcong con la minima dell’Inps, e una storia strabiliante da raccontare a nessuno, «neppure ai compagni dell’Anpi che pensano solo a dove si va a mangiare dopo i cortei del 25 aprile». Il cuore gonfio di amarezze: «Cos’era la Russia, l’avevo capito già dopo l’Ungheria». Nessuna rivoluzione da portare a casa. Non si riconobbe neppure in quei ragazzi che, come lui, a un certo punto vollero “fare come i partigiani”: «Qualcuno delle Br, se erano loro e non i servizi segreti, cercò di contattarmi. Risposi che la rivoluzione si fa dal basso, e quando spara mira molto in alto. Dissi di no». Tutto finito. Tutto tranne l’odio. «Non ho mai smesso di odiare quelli che ci affamavano, che ci facevano morire di malattia, ora sono cambiati ma i nuovi sono uguali a quelli là. Non mi pento di nulla. Da mezzo secolo odio tutti i giorni, dall’alba al tramonto». Ma dal tramonto all’alba sono loro, i fantasmi della giungla, a prendersi la rivincita.

* * *

Lettera aperta a Paolo Mauri, capo-redattore delle pagine culturali di Repubblica
21 ottobre 2000


Esimio Direttore,

quando l’Ufficio Stampa della Marco Tropea Editore ci comunicò che Lei era intenzionato a dare ampio spazio all’uscita del nostro nuovo romanzo, accettammo senza problemi. Ci andava anche bene che a coprire la notizia fosse Michele Smargiassi, persona a modo e di provata deontologia.

Ci eravamo comunque premuniti di faxarLe una comunicazione che, in tono forzosamente aulico (modello "L'occhio di Carafa"), Le chiedeva di non ripubblicare la nostra fotografia. Del resto la stessa richiesta, con ampia motivazione, Le era stata fatta all'Avana lo scorso febbraio, quando si trattava di rendere noto l'avvio del progetto Wu Ming.

La ripubblicazione della nostra foto ci causerà non pochi problemi alle presentazioni pubbliche del libro: dovremo respingere i fotoreporters, spiegare che è una foto antediluviana ed è l'unica in circolazione, paragonabile al viso di Thomas Pynchon diciassettenne, il cui riutilizzo da parte dei giornali dimostra l'assurdità dei riti di promozione del "personaggio-scrittore".

Poiché in questa fase abbiamo di meglio da fare, avremmo preferito non dover spiegare nulla, anche perché la foto non rende nemmeno più conto del nostro organigramma: da ormai quasi un anno siamo diventati cinque, essendosi aggiunto al gruppo Riccardo Pedrini (Wu Ming 5).

Inoltre, in questo particolare caso, abbiamo un coautore, Vitaliano Ravagli, a cui il titolo e l’articolo di Smargiassi sono dedicati: perché non pubblicare la sua foto, invece che la nostra?
Capirà quindi come questa scorrettezza ci risulti del tutto gratuita e inspiegabile.
Prima Lei si è premunito di farci sapere che per darci il massimo spazio possibile voleva l’esclusiva. Noi stiamo stati ai patti: Repubblica ha ricevuto il libro per prima, Smargiassi ha potuto intervistare Ravagli prima di chiunque altro. E poi ritroviamo la nostra foto spiattellata sulla pagina.

Le avevamo soltanto chiesto di non pubblicarla. Non era una grande richiesta, se ci pensa bene: l’articolo poteva essere illustrato dalla copertina del libro, dalla foto di Ravagli giovane, dalla foto di Ravagli oggi, da una mappa del Laos, eccetera, eccetera, le soluzioni possibili erano infinite.

Repubblica ha optato per l’unica soluzione che ci importuna.

Non possiamo che ritenerLa personalmente responsabile di questo fatto, poiché a Lei, in piu' di un’occasione, anche vis-à-vis, era stato comunicato il nostro volere. Di conseguenza era Lei che doveva suggerire al grafico di non illustrare l’articolo con la nostra foto.

Da questo episodio non possiamo che trarre conseguenze per il futuro. Se fino ad oggi siamo stati disponibili e collaborativi nei confronti di Repubblica, da questo momento ci vediamo costretti a “rialzare la guardia” e mettere il Suo giornale sullo stesso piano di tutti gli altri. Se non possiamo fidarci di nessuno, nessuno avra' piu' nessuna esclusiva, o comunque, di certo non l'avrà Repubblica.

Distinti saluti,


Wu Ming