da "L'indice", anno XIX n.6, giugno 2002

Wu Ming, 54, pp 673, € 15, Einaudi, Torino, 2002.


di Mirco Dondi

54 è il nuovo romanzo storico realizzato dal gruppo dei cinque scrittori ormai noti con l’appellativo Wu Ming (cioè Senza Nome). Dopo il sorprendente esordio nel 1999 con il western teologico Q (a nome di Luther Blissett, Einaudi, cfr. "L'Indice", 1999, .7), ambientato durante la riforma luterana, e il successivo Asce di guerra (assieme e attorno alle vicende narrate con Vitaliano Ravagli; Tropea, 2000), giunge ora 54, un complesso viluppo di storie parallele che si svolge - salvo il doppio prologo alla Conrad- nel 1954. Il romanzo si snoda su più scenari: Bologna, Palm Springs, Napoli, Trieste, la Francia, la Jugoslavia, l’Urss e il Messico.
Perché questa enfasi sul 1954? Nella immaginazione "storiografica" degli autori - peraltro pienamente legittima - il 1954 segna un anno di svolta internazionale e gli autori affidano nientemeno che al primo presidente del Kgb, il generale Serov, la loro visione degli eventi: "Che anno convulso. Un anno che cambiava la faccia al mondo. La nascita del Kgb. La conferenza di Berlino. Il riarmo della Germania e la sua adesione alla Nato. La sconfitta dei francesi in Indocina e la divisione del Vietnam. Tito. La rovina di McCarthy. Tito e Cary Grant. Esperimenti nucleari nei deserti e in mezzo agli oceani. La fine del 'dopoguerra'". Benché posta nell’epilogo, questa considerazione mi pare sia stata la miccia iniziale che ha innescato la scrittura. La sfida diventa allora quella di creare un libro corale che contenga questi eventi e li metta in una relazione dinamica con una serie di personaggi.
Il 1954 per l’Italia è anche l’anno nel quale esplode lo scandalo Montesi, Mario Scelba è a capo dell’esecutivo e hanno inizio le prime trasmissioni televisive il 3 gennaio, giorno in cui, per coincidenza non casuale, entra nel vivo anche la narrazione di 54, con una corsa truccata all’ippodromo di Agnano, dove si muove anche l’intoccabile Lucky Luciano, mandato dalle galere dello zio Sam a respirare la libertà, per meriti bellici, nella colonia Italia. Per quanto ci si voglia sforzare, è impossibile delineare in poche righe una sintesi delle vicende del testo, a meno che non si aprano diverse porte parallele, sapendo che i relativi percorsi non necessariamente arriveranno a sfiorarsi. Forse è proprio il televisore "fuori dal comune" McGuffin Eletric che "vede, ascolta, riflette, ma non funziona", il marchingegno che riesce a entrare dentro a più storie: un po’ come la pallina da baseball di Delillo, sed si muove, anche se l’elettrodomestico non viaggia nel tempo.
A un articolato incastro narrativo corrisponde una scrittura briosa, ben adattata ai personaggi, ora contenuta nella sua tentazione verso il pastiche, ora ritmata nei motti di spirito: si tratti delle lievi facezie di Cary Grant (sì, proprio lui, l’attore) o del più popolaresco brontolìo felsineo degli avventori del bar Aurora. Come è inevitabile che sia per un libro di questo genere, la documentazione che lo sorregge è ampia e appropriata: dai brani di jazz ai tipi di tè, dai vestiti alla Filuzzi delle balere bolognesi. Sono dettagli che ravvivano e delimitano il tempo e lo spazio dei personaggi.
Su tutti colpisce l’inquietudine ribelle di Robespierre Capponi (un profilo vicino a quello di Vitaliano Ravagli in Asce di guerra), un ragazzo arrivato in leggero ritardo all’appuntamento con la Storia, troppo giovane per combattere nella Resistenza, vive un amore impossibile con una donna sposata a un dirigente del Pci e mal respira il bigottismo rosso di quella Bologna adagiata sulle formule di intransigenza staliniana (si veda il Tito comunista-fascista). Nell’antieroica quotidianità che macera le grandi speranze è tuttavia ancora possibile un gesto coraggioso, uno strappo per ricominciare daccapo.