Da L'Unità, 28 maggio 2005:

Wu Ming e Ravagli disseppelliscono l'ascia di guerra
Ristampe. Torna in libreria il racconto dell'epopea del romangono che finì in Indocina e dei comunisti dell'espatrio clandestino negli anni 50

Tommaso De Lorenzis

I libri sono creature cangianti, dotate di una particolare ricettività che le rende sensibili al passaggio del tempo, alla trasformazione dei luoghi, all'invecchiamento di taluni lettori e alle reazioni imprevedibili di coloro che si apprestano a leggerli per la prima volta. Ecco perché il termine «ripubblicare» andrebbe bandito dal lessico editoriale. Ri-pubblicare non significa cercare un vestito buono per un'altra stagione, bensì contribuire a diffondere un altro testo.
Nel caso di Asce di guerra il paradosso in questione assume l'evidenza di un assioma. Il titolo riproposto da Einaudi Stile libero intrattiene con la precedente edizione un rapporto di parentela lontana, e occorre possedere un granitico senso del Sé per convincersi che queste pagine sono le stesse che, nel settembre 2000, inaugurarono l’attività dell’atelier Wu Ming. Molte cose sono cambiate da allora. Altre non cambieranno mai. Nello spazio compreso tra ciò che si serba intatto e ciò che viene alterato, è doveroso verificare la forza dei miti, la tenuta delle storie e gli effetti che gli uni e le altre producono nella realtà.
Si conserva, immutabile, l’esemplare biografia di Vitaliano Ravagli, comunista romagnolo finito a battersi contro il dominio coloniale nel profondo della giungla laotiana. Era il 1956, ma per chi ha patito sofferenze indicibili non esiste nessun dopoguerra. Questo racconto rimane un esempio inossidabile dell'erranza combattente che ha portato alcuni uomini a non distinguere tra guerre proprie e guerre altrui, e a considerare «patria» qualsiasi luogo in cui si lotta per la libertà. Le Brigate Internazionali di ogni epoca sono la forma politico-organizzativa di un epos sovversivo, avventuroso e mai pacificato. Sono Marx e Salgari uniti nella lotta.
Non è cambiata neppure la rappresentazione dell'inquietudine post-resistenziale che tormentò quanti si opposero alle determinazioni operative della «democrazia progressiva». Ed è ancora efficace la descrizione dell'antifascismo emarginato dalla retorica conciliatoria del PCI, perseguitato in un'Italia che «ritornava a se stessa» e costretto alla fuga. Dopo Asce di guerra le vicende di Teo, Bob e dei partigiani «traditi» si imprimono nel cuore come un marchio indelebile.
Dal 2000 a oggi, invece, è andata crescendo l'intensità della propaganda revisionista. Sul piano inclinato di un’offensiva pseudoculturale scivolano, sotto il segno del medesimo interesse riabilitativo, eventi molteplici. Il rogo di Primavalle e il boato di via Rasella, l'antifascismo militante dei Settanta e il gappismo, le accelerazioni della Volante Rossa e le foibe concorrono indistintamente a definire l'immagine distorta di uno spietato Terrore vermiglio. C'era da aspettarselo dopo che la sinistra ufficiale e di governo non ha perso occasione per sbarazzarsi – senza alcun criterio – di pezzi di passato, tirandosi sugli attributi certe sonore scudisciate che avrebbero fatto urlare di dolore perfino il buon Masoch. In questo contesto, Adg si carica d'attualità, andando incontro a un vecchio interrogativo che si presenta con rinnovata urgenza: come contrapporre alla selvaggia demolizione della Resistenza qualcosa di diverso da un'accomodante Liturgia di Stato? Un po’ come dire: non vogliamo scegliere tra il Papa e Lutero, vogliamo altre eresie.
E ritroviamo pure Daniele Zani, l'alter-ego narrativo degli autori. Avvocato del diavolo quando c'è da percorrere le piste di racconti remoti addentrandosi nella dialettica di prospettive differenti e spesso inconciliabili. Avvocato di cause perse ma giuste nella Bologna del 2000, città che partecipa generosamente alla genesi del «movimento dei movimenti». Daniele è rimasto rigido, inchiodato alle occorrenze della detection storiografica e ai limiti di una narrazione schiacciata sul presente. Non è un personaggio riuscito, ma questa volta Wu Ming lo riconosce senza mezzi termini nella postfazione che correda la nuova edizione: «Quello che nella forma del reportage funziona e restituisce l'atmosfera di certe situazioni collettive, trasferito in un modello più letterario rischia di risultare piatto e didascalico». È un’ammissione importante, quasi definitiva, utile per riflettere sullo scollamento tra le soluzioni mimetiche e i bisogni discorsivi manifestati dalla muraglia umana che, per un triennio, si è eretta contro le politiche neoliberiste. A distanza di tempo, possiamo affermare con sicurezza che la tattica espressiva del movimento è stata il Simbolo, la sua strategia il Mito.
La Bologna di Adg non esiste più. Di questo siamo certi. Un lustro addietro, chi scrive la giudicò, da una parte, sospesa sulla frivolezza di alcune situazioni impastate di non-sense e popolate da figure improbabili; dall’altra, didatticamente incatenata all'illustrazione delle pratiche movimentiste. Era un giudizio, maturato sul confine tra realtà e finzione, che non ha retto all’usura degli anni. La leggerezza era un modo per non prendersi troppo sul serio. Il vago surrealismo di certe scene si è rivelato una ben augurante promessa destinata a trovare adempimento nei funambolici romanzi di Emidio Clementi. Le azioni performative delle «tute bianche» restano l'ultima intuizione capace di eludere le traiettorie del Déjà vu. Quella Bologna, pur con i suoi difetti di resa letteraria, non è nemmeno cugina della città precipitata di recente nei programmi di prima serata e sulle colonne dei quotidiani: urbe impazzita, soffocata da un'astratta concezione della legalità, inetta a ragionare sulla plastica produzione di Diritto e diritti, dove perfino l'amaro sale della realpolitik si scioglie in dibattiti diuretici che rasenterebbero il ridicolo se non fossero figli di una tragica povertà. Non crediamo alla balla dei «bei tempi che furono», ma è certo che dal confronto con il presente emerge il parziale inaridimento della creatività sociale e l’incapacità di emanciparsi da un triste copione.
Asce di guerra è sempre lì. La fragranza di nebbia, cordite e odori esotici si preserva inalterata. Eppure, è un libro nuovo. Ha smesso di essere l'«oggetto narrativo non ancora identificato» che marcava una brusca discontinuità con la geometrica circolarità di Q, per farsi indispensabile liaison tra il pellegrinare ribelle nell’aurora della modernità europea e la demolizione di scontate mitologie novecentesche. Continua a essere il testo più aperto e cangiante che Wu Ming abbia mai scritto, perché è un modo di vedere le cose, una dichiarazione d’intenti in forma d'opera, un metodo definito attraverso un'affascinante teoria di casi concreti. Per questo motivo ha prodotto tante reazioni da parte dei suoi lettori, consegnandosi a un processo condiviso di rielaborazione.
E infine ci sono le storie. Ce ne sono alcune che raccontano di uomini eroici che furono ciò che i tempi richiedevano. Altre narrano di uomini malvagi che definirono in segreto il loro tempo. In un caso e nell'altro, le storie rimangono – e rimarranno – «asce di guerra da disseppellire».

Tommaso De Lorenzis

 

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