Da "Pulp libri" n.29, gennaio-febbraio 2001:

 

Wu Ming. Dal nome multiplo al nome collettivo

di Antonio Caronia

 
 
Wu Ming, come molti lettori sanno, è il nome collettivo che hanno assunto quattro promotori bolognesi del Luther Blissett Project, per la precisione i quattro autori di Q (Roberto Bui, Giovanni Cattabriga, Luca Di Meo e Federico Guglielmi), dopo il seppuku, il suicidio rituale giapponese con il quale hanno abbandonato nel dicembre 1999 il nome multiplo di Luther Blissett. A essi si è aggiunto Riccardo Pedrini, ex musicista punk e insegnante di arti marziali, autore dell'agghiacciante Libera Baku ora (Derive Approdi, gennaio 2000), una delle rare conferme che gli italiani non hanno una tara genetica e possono, se vogliono, scrivere della fantascienza intelligente anche fuori dalla tradizione Calvino/Primo Levi. Wu Ming (in cinese "senza nome") è un atelier, o impresa artigianale, di scrittura e di cultura, che in meno di un anno di attività ha già prodotto: un sito internet (http://www.wumingfoundation.com), una newsletter telematica ("Giap", ci si può iscrivere dal sito), un romanzo (Asce di guerra, uscito lo scorso ottobre per Tropea) e un romanzo breve ("Pantegane e sangue", disponibile gratuitamente sul sito). Per quest'anno, se tutto va bene, è prevista l'uscita di un secondo romanzo, 54, non si sa ancora con quale editore [in realtà esce nel 2002 per Einaudi, N.d.Wm]. Se si pensa che i Wu Ming, poi, individualmente svolgono anche altre attività - dalla partecipazione ai movimenti antiglobalizzazione alla pratica del pugilato thailandese - dobbiamo concludere che essi sono una buona illustrazione della massima che nel postfordismo non si lavora affatto di meno, al contrario. Certo, si lavora in modo diverso. Negli anni Cinquanta, Sessanta o Settanta i Wu Ming avrebbero rischiato di diventare - absit iniuria verbo - redattori o consulenti editoriali di grandi case editrici. Oggi possono mantenere la propria autonomia senza per questo rinchiudersi in un underground compiaciuto della propria marginalità.
Si tratta, come pensano alcuni miopi o invidiosi, di una "resa" all'industria culturale? Se è così, è una resa ben strana. Asce di guerra, il loro esordio narrativo con la nuova sigla, non rinnega nulla dell'anticapitalismo intransigente e della sprezzante estraneità alla sinistra ufficiale che caratterizzò, insieme alla tattica beffarda verso i media, la stagione blissettiana degli anni Novanta. Wu Ming è andato a scavare nella storia della resistenza e del primo dopoguerra, recuperando la dimensione di rabbia contro il compromesso degasperiano/togliattiano che consentiva il ritorno al potere - neanche tanto silenzioso - del personale politico fascista, e demolendo l'oleografia resistenziale buonista e imbelle della tradizione riformista. E ha incontrato Vitaliano Ravagli, il ragazzo imolese troppo piccolo per fare la resistenza, che non sopportava la melma restauratrice postbellica e usò i canali clandestini per andare ad ammazzare fascisti in Indocina, a fianco dei combattenti laotiani. Ravagli è passato dalla vita alle pagine del libro (essendo contemporaneamente autore e personaggio) non per dimostrare tesi precostituite né per titillare radicalismi salottieri, ma per ridare la parola ai comprimari, alle "figure sullo sfondo", a coloro che sono esclusi dal "senso della storia", e che invece il proprio senso se lo costruiscono tenacemente sulla propria pelle, dentro i processi collettivi, ma restando fedeli alla propria individualità.
E' per sfatare alcuni luoghi comuni (fra cui il preteso "situazionismo" di Luther Blissett) e per capire meglio questo libro, come altre caratteristiche del loro lavoro, che abbiamo rivolto alcune domande ai Wu Ming.
 

Q si chiudeva con il riconoscimento che "non esiste un piano che possa prevedere tutto. Il tempo non cesserà di elargire sconfitte e vittorie a chi proseguirà la lotta." Il romanzo che avete scritto con Ravagli si apre con la dichiarazione: "Le storie non sono che asce di guerra da disseppellire." Né il passato né il futuro, quindi, hanno una razionalità immanente? Sono solo scenari aperti agli interventi della volontà, individuale e collettiva?

Q è stato accusato di essere un romanzo complottista-paranoico. In realtà è proprio il contrario, una dissertazione contro il delirio reazionario delle conspiracy theories che si autoconfermano ad nauseam. Q. crede che fuori dalla Chiesa ci sia "nihil novi sub sole", da qui il suo alias, "Qohelet". E' la lettura tradizionale - oggi messa in discussione da più parti - della filosofia dell'Ecclesiaste. Pian piano la sua fiducia vacilla, il romanzo è la cronaca della sua disillusione, la defezione del miglior agente sull'ultimo miglio. Se ti piacciono i romanzi a chiave, ebbene la chiave di Q non è nell'epilogo, bensì nell'ultima lettera a Carafa, quella che non viene spedita. La frase finale del romanzo ("Non si prosegua l'azione secondo un piano") è nulla più che un sospiro di sollievo, e tra l'altro è un plagio da - cioè un omaggio a - De Lillo.
In Asce di Guerra, invece, combattiamo l'idea che il passato sia un mausoleo da presidiare, una lapide da tenere lucida, abbellita di fiori finti. In questo senso, non ci interessa la "razionalità immanente" di un periodo storico, ma l'uso che una comunità di lotta può fare di certe storie, il legame tra le ragioni di oggi e quelle di ieri, tra la merda di oggi e le indigestioni di ieri. Quando invece si cerca solo la "razionalità immanente" di un certo passato, si corre il rischio di di giustificare qualsiasi posizione, qualsiasi scelta, in nome dello "spirito dei tempi". E' anche così che partigiani e Camicie Nere vengono messi sullo stesso piano.


Secondo la vostra definizione, Wu Ming è "un collettivo di agitatori della scrittura". Però non è un multiple name nello stesso senso in cui lo era Luther Blissett: Wu Ming è costituito da nomi e cognomi espliciti, e non è aperto all'uso di chiunque, come era Luther Blissett. Voi l'avete già spiegato, e vi sarà anche venuto a noia, ma volete spiegare ancora una volta che cosa vi ha indotto a questo cambiamento di tattica, fra il 1995 e il 2000?

La nostra adesione al Luther Blissett Project aveva, da subito, una scadenza quinquennale da vecchio piano sovietico. Cinque anni ci sembravano abbastanza per raggiungere alcuni obiettivi, senza annoiarci e ripetere cose ad nauseam. Le cose sono andate un po' meglio che in URSS: invece che una fabbrica di sole scarpe sinistre è saltato fuori Q, esattamente quello che ci eravamo proposti: la grande rapina al caveau della cultura pop, l'uscita dalle secche autoreferenziali dell'underground.
Al termine del piano ci è sembrato normale abbandonare il nome multiplo: si trattava di costituirsi in impresa e di lasciare che l'arte marziale LB si evolvesse secondo stili diversi dal nostro. In ogni caso, Wu Ming mantiene molte pratiche del passato: l'opacità verso i media, il no copyright, la preminenza dell'opera sull'autore.

 

Le analisi classiche dell'industria culturale, da Horkheimer e Adorno a Morin, sono tutte ormai abbastanza superate. La distinzione marxiana tra lavoro produttivo e improduttivo anche. Che relazione c'è fra l'analisi del carattere direttamente sociale del lavoro mentale e la vostra proposta che gli artisti (o brainworkers, come dite voi, o "cognitari" come dice Bifo) riscoprano la forma della "impresa politica autonoma"?

Come recita la nostra "dichiarazione d'intenti", la figura dell'intellettuale separato dall'insieme della produzione sociale è scomparsa da tempo. L'informazione e' ormai la più importante forza produttiva; l'"industria culturale" e' in connessione dinamica con l'intera galassia delle merci e dei servizi. L'equivalenza "tutto è multimediale" suona già pleonastica. Raccontare storie e' solo uno dei tanti aspetti di una grande cooperazione sociale fatta di software, design, musica, giornalismo, intelligence, servizi sociali, politiche del corpo.Il lavoro mentale, in tutti i suoi aspetti, e' completamente dentro le reti dell'impresa. ne e' anzi la principale forza ri/produttiva. Per questo occorre farsi impresa, superare il ruolo di free-lance, per acquisire piu' forza e stabilire un sempre maggiore controllo sui processi produttivi e gli esiti del lavoro creativo. Ma non si può che essere impresa politica, poiché l'"impegno" non esiste più come ipotesi praticabile o meno da parte di "coloro che creano". Chi crea non puo' in alcun modo astrarsi, evitare di intervenire. Scrivere e' gia' produzione, narrare e' gia' politica. La scommessa, poi, dev'essere tutta sull'auto-valorizzazione del lavoro mentale e della capacita' imprenditoriale. Occorre evitare come una peste l'assistenzialismo, la questua di fondi pubblici, la subordinazione alle burocrazie di qualsiasi dimensione e stabilire un rapporto paritario con tutte le altre imprese e forze produttive. Per questo l' impresa politica deve anche essere autonoma.

Dai tempi di Luther Blissett ad oggi vi si ammira (o vi si accusa) per la vostra capacità di occupare la scena mediatica. In questo modo - dicono i detrattori - non fate altro che rafforzare il sistema dello spettacolo che dite di voler combattere. Voi stessi, al termine di Asce di guerra, citate una pagina di Wallerstein che appare abbastanza sconsolata, in cui si dice che "ogni forma di movimento antisistemico" è stata prodotta "in tutto e per tutto dal capitalismo storico". Come se ne esce?

Wallerstein - che non è un pessimista - pensa che il capitalismo storico sia un sistema immanente, destinato a finire proprio come le società storiche che l'hanno preceduto. Proprio nel pezzo che citiamo precisa: "Ciascuna debolezza del sistema in una direzione lo ha rafforzato in un'altra direzione. Ma non necessariamente allo stesso livello! La questione è tutta qui." Quanto allo "spettacolo", è un concetto che significa tutto e niente, è semplicemente la risposta data da Debord a tutte le definizioni da Settimana enigmistica di cui è composto il suo testo più famoso, tipo: "Monologo auto-elogiativo del potere". Risposta: "spettacolo". "Capitale accumulato fino a divenire immagine". Risposta: "spettacolo". Siamo seri, davvero crediamo che sia una categoria utilizzabile? A quanto ci risulta, feticizzarla ha prodotto solo inazione, senso d'impotenza e rancore. Noi non "combattiamo lo spettacolo", non siamo esteti da strapazzo a cui interessa esibire il massimo di radicalità formale e se nessuno ti capisce chi se ne fotte. La paranoia da recupero non ci appartiene. Essere recuperati non significa sempre essere funzionali al sistema, spesso significa infettarlo. A noi interessa partecipare ai conflitti sociali effettivi, e comunicare col maggior numero di persone possibile, per ottenere risultati concreti. Quanto all'occupare la scena mediatica, lo abbiamo sempre fatto mandando avanti dei non-personaggi, creature immaginarie che rimandassero a reti di relazioni reali.

La vostra boutade secondo cui "l'opera omnia di Joyce non vale un incipit di Hammett" mi sembra ingenerosa verso Joyce, che non si può dire non raccontasse "storie", per quanto sperimentale fosse. Ma più in generale, l'esigenza di una narrativa che ricuperi l'intreccio, che sia "forte" sul piano dei contenuti sociali ma anche della capacità mitopoietica, non può correre un rischio (schematizzo) di "realismo socialista" aggiornato in chiave politicamente radicale? E come pensate di evitare un rischio del genere?

La boutade serviva a impedire che le nostre mailbox fossero intasate di raccontini minimalisti, opere autobiografiche di gente che non ha mai vissuto niente di interessante, deliri neogotici pieni zeppi di parole arcaiche recuperate senza un perché. Detto questo, non credo ci sia il rischio di trovarci contigui a Zdanov, che non faceva mitopoiesi bensì mitoparesi, raffreddava l'immaginario mediante l'imposizione di un linguaggio che allontanava l'esperienza. Noi invece vogliamo che tutto accada a due centimetri dal naso del lettore, e - come il collega Thomas Prostata - vogliamo il sangue e la merda. "Il personaggio è l'azione, l'azione è il personaggio". Di certo siamo più vicini a Scott Fitzgerald che a Kim Il Sung.
Asce di guerra è un'operazione a sé stante in cui abbiamo mescolato memorialistica e non-fiction novel. L'approccio è anti-oleografico, revisionistico nel senso del ri-vedere costantemente, sempre con altri occhi, scavalcando il dualismo ortodossia/eterodossia. Il prossimo romanzo collettivo, 54, è una spy-story picaresca e si svolge per buona parte nella testa di Cary Grant o a latere dell'esilio napoletano di Lucky Luciano. Nelle diverse sottotrame spuntano personaggi di altri romanzi (la serie di Rififi, per esempio), e il MacGuffin è un televisore che nessuno riesce a far funzionare. Non esattamente roba da realismo socialista. Per quanto riguarda la nostra new entry, Wuming Wu, per il suo prossimo romanzo Havana Glam si può parlare al massimo di "surrealismo socialista", o di "realismo magico socialista".
Quanto all'intreccio: raccontare e ascoltare storie è un desiderio, anzi un bisogno comune agli umani di tutte le epoche, qualunque comunità vive di storie, e di mito. I nostri riferimenti letterari spaziano da Salgari a James Ellroy, da Cormac McCarthy al nuovo romanzo d'avventura latino-americano. Siamo troppo affezionati a Benjaimin Péret perché possa piacerci Ilya Ehrenburg.


Asce di guerra
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