Dalla rivista Zapruder - storie in movimento, n.2, settembre-dicembre 2003:

Storie senza fine
A proposito di storia, memoria e narrativa


di Wu Ming 2

Diversi anni fa, mentre lavoravamo alla scaletta di Q, mi è capitato di leggere il romanzo La nube ardente di Chiara Ghigi, lontana parente della famiglia di mia madre. Il libro, miscela di esperienze in prima persona e testimonianze dirette, racconta le vicende di una famiglia bolognese, sfollata durante la guerra non lontano da Marzabotto, dai luoghi del famigerato eccidio e dalle leggendarie imprese della Brigata Stella Rossa.
In un capitolo datato 25 maggio, la protagonista Marianna racconta il suo primo incontro con la "vera" guerra. E' la notte di un giorno particolare: l'ultimo che la Repubblica di Salò concede ai renitenti per l'arruolamento. Nella grande dimora padronale di Ca' Borelli, anche gli adulti si preparano per dormire. Da quando è sceso il buio, nessuno si azzarda più ad uscire. A un tratto, l'abbaiare di un cane spezza il silenzio e subito, raffiche di mitraglia scuotono i vetri. Qualcuno pensa ai 'ribelli', qualcun altro ai fascisti. Dalla casa a fianco una voce spezzata chiede aiuto. E' Sergio, il figlio dei contadini.
- Che volesse presentarsi in caserma e sia stato fermato?
- Mai e poi mai! E poi non è ancora di leva - risponde la sorella.
L'indomani, al risveglio, Marianna viene a sapere che Sergio è stato portato a Bologna con un camion, mentre Evaristo, giovane partigiano della Stella Rossa, giace morto in mezzo all'aia. Qualcuno è già sceso in paese ad avvertire le autorità. Appena arriveranno i carabinieri, bisognerà fargli credere che Evaristo sia uscito per andare in caserma e che Sergio l'abbia seguito sull'aia per l'ultimo saluto. Solo così la famiglia Borelli eviterà l'accusa di aver nascosto un renitente. E i due disertori napoletani imboscati nel granaio potranno dormire sonni tranquilli.
Mentre Sergio viene operato dal primario del Rizzoli, Evaristo rimane sull'aia per altri due giorni. Solo al terzo i carabinieri si presentano, bevono la versione del capofamiglia, caricano il cadavere su un camion e se ne vanno.
Il capitolo finisce. La narrazione scivola verso gli orrori della strage. Il mistero non si risolve. Chi ha ucciso Evaristo? Perché i carabinieri sono arrivati così tardi? Ma soprattutto: che voci circolavano, in proposito? Possibile che l'autrice non si sia fatta un'idea dell'accaduto?
Non riuscendo a rintracciarla, provo a cercare Ca' Borelli sulle mappe e in un paio di libri di argomento analogo. Niente.

Nel Gennaio 2000, preparando Asce di Guerra, incontriamo a Casalecchio due vecchi partigiani: 'Mirco' Zappi, della 36a Garibaldi, e Carlo Venturi 'Ming', della Stella Rossa. Ci regalano due libri e una lunga chiacchierata. A casa, inizio subito Ming tra i ribelli. A pagina 69, Venturi racconta la sua prima azione da partigiano.

Un pomeriggio, il comandante della compagnia di Casa Pudella ci chiamò e ci disse che la sera stessa avremmo dovuto compiere un'azione contro un "signorotto fascista" della zona. Verso le 21 partimmo; oltre a me, c'erano il comandante Golfieri, Quarantini, altri quattro compagni e la staffetta. [...]Alle undici arrivammo all'edificio noto come Ca' de Marsili, e la staffetta che ci aveva guidato fin là ci salutò e se ne andò via.

Piano. Ca' de Marsili io la conosco. Ci ha festeggiato il matrimonio una mia cugina. Vuoi vedere che quella lontana parente...

Il comandante dislocò due uomini su ciascun fianco dell'edificio, mentre io e Quarantini ci avviammo verso la porta d'entrata. I cani si misero ad abbaiare." Bingo! " Scorgemmo delle ombre uscire dalla casa. Chiesi a voce alta la parola d'ordine, ma non ricevemmo nessuna risposta. Ripetei la richiesta e questa volta si udì il clic di un'arma che veniva caricata. Non indugiai oltre, e il mio compagno con me. Sparammo nel buio in direzione del rumore e delle ombre.

A quel punto, il comandante ordina la ritirata, senza nemmeno controllare se sia rimasto colpito il signorotto fascista o qualcun altro. Il giorno seguente, si viene a sapere che a Ca' de Marsili risiedono alcuni collaboratori della brigata, che un giovane partigiano è stato ucciso, eccetera. Poco ci manca che il maggiore Lupo faccia fucilare il comandante, per essersi fidato di una staffetta poco conosciuta e non aver concordato l'azione.
Bene. Mistero risolto. In realtà, c'è ancora qualcosa da scoprire. Perché Chiara Ghigi lascia in sospeso l'episodio? Non sa nulla dei retroscena - e il libro di Venturi le potrebbe aprire gli occhi -, oppure ha preferito tacere un episodio non proprio edificante per la brigata? O magari, non ha voluto scrivere nulla perché da ragazzina, nulla le era stato spiegato? E i carabinieri? Non vogliono infierire su una famiglia potente, che forse dopo l'accaduto si guarderà bene dall'aiutare ancora i ribelli o hanno altri motivi?
Le domande rimangono inevase. C'è un libro da scrivere, ambientato a Imola, e a Imola ci stava la 36a, non la Stella Rossa.

Due anni più tardi, con l'esigenza di delineare un personaggio per 54 - omonimo bolognese di Ettore ne La paga del sabato - riprendiamo in mano i libri sulla Resistenza in Val di Setta. In particolare, Il sole di Monte Sole, di Giampietro Lippi, miniera di aneddoti e personaggi.
Uno, soprattutto, colpisce la nostra attenzione e scivola nelle pagine del romanzo. E' Ettore Ventura "Aeroplano", classe 1924, 'temerario e incosciente', sempre in groppa a un cavallo bianco, che faceva ferrare dallo stesso maniscalco che serviva i tedeschi (e in contemporanea con questi).

Alcune sue improvvisazioni - scrive Lippi - misero in seria difficoltà la sicurezza dello schieramento partigiano; come quando, nella notte tra il 25 e il 26 maggio 1944, nell'aia di Cà de' Marsili, scorse due ombre che gli chiesero la parola d'ordine; senza riflettere, sempre distratto, sparò; uccise un compagno, Evaristo Pedretti, e ne ferì un altro.

Ma scusate, non era... No. Non posso credere che Venturi abbia mentito. Perché poi? Per attribuirsi un'azione tutt'altro che eroica? Un conto è se lo fai al bar, e dici che sì, c'eri anche tu nella famosa battaglia di, un altro è se lo scrivi su un libro, e metti pure in mezzo quel Quarantini, "non indugiai oltre e il mio compagno con me". La nube ardente lo dichiara subito: nomi cambiati e mescolanza tra vissuto diretto e fatti riportati, tant'è vero che Marianna finirà nell'asilo di Cerpiano, buttato giù dai nazisti con le bombe a mano e la gente dentro, ma Chiara/Marianna non c'è stata davvero, anche se conosceva di persona uno dei due sopravvissuti. Quello di Venturi no, è un libro di memorie,"Ming" non si attribuirebbe mai una cosa fatta da altri. E allora? Ha sbagliato Lippi? Si ricorda male? O è la leggenda di Aeroplano che ha causato l'errore? Aeroplano è morto proprio nel '44, ucciso dai tedeschi per colpa di un mitragliatore inceppato. Era "famoso" per le sue intemperanze. Chi è che aveva fatto fuori quel ragazzo, a Ca' de Marsili? Boh, sarà stato Aeroplano. Ma sì, Aeroplano. Anche chi sa la verità, in fondo, è d'accordo. Si evita di tirare fuori quella brutta storia del comandante quasi fucilato da Lupo, si alimenta la leggenda da irregolare di un altro compagno, si attribuisce alla sua proverbiale distrazione la colpa dell'accaduto - ma sono stati gli altri a chiedere la parola d'ordine, non lui. Qualcuno racconta il tutto a Lippi, molti altri confermano, qualcuno in buona fede, altri meno. Chissà.

Fermiamoci qui. Questa detection un po' sbrindellata non ha lo scopo di individuare colpevoli, responsabilità, reticenze, verità storiche. Serve solo per evidenziare meglio quattro caratteristiche di qualsiasi storia, che il rapporto tra Storia e narrazione evidenzia più di ogni altro:

Le storie sono forme di vita

E come i termitai - secondo certi etologi - sono forme di vita eccedenti rispetto alla singole termiti, così anche archivi, giornali, cervelli rispetto alle storie che contengono. Quando ci si accosta ad essi con l'intento di raccontare, subito ci si rende conto che sono ecosistemi in piena attività, dove le storie lottano per sopravvivere. Infatti, quando avvertono la presenza di un cervello umano - la loro Terra Promessa - entrano in fibrillazione, si fanno in quattro per essere selezionate, cercano di richiamare l'attenzione con tutti gli stratagemmi del loro corredo genetico: personaggi rocamboleschi, caratteri di stampa piacevoli per l'occhio, odore di pagine stagionate, collegamenti possibili, frammenti sparsi, fonti dettagliate e minuziose. Nessuna si limita a darsi, tutte provano a fare qualcosa, a suggerire trame, legami, strani vicinati. Alcune, letteralmente, ti vengono a scovare. Basta mantenersi reattivi, abituarsi a trovare quel che non si sta cercando, portarsi sempre dietro la telecamera nuova, come Abraham Zapruder a Dallas, quel 23 novembre di quarant'anni fa.
La storia di Ca' de' Marsili è sulle tracce del sottoscritto da almeno sette anni. Pur di farsi raccontare, è saltata sulla schiena di 'Aeroplano' e della sua leggendaria sregolatezza. Ora mi sono deciso a scriverla, ma non credo si accontenterà. Nulla viene raccontato una volta per tutte. Nessuna storia accetterà mai la parola fine.

Le storie sono distillati

Ogni narratore è un alambicco. Nonostante la lotta per la sopravvivenza, le storie potenzialmente adatte a finire su carta, e infettare così nuovi cervelli, sono più o meno infinite. Il breve racconto di quel 25 maggio, volendo infilarci tutto, non starebbe in un volume della Treccani. Si tratta di selezionare, di ridurre la complessità. Ovvero: uscire da sé stessi, dalle proprie vicende, stabilire un rapporto con le storie che si hanno di fronte, prendere posizione.
Si tratta di essere alambicchi politici. Del resto, scrivere è sempre un atto politico.
La scelta di quali storie raccontare è forse la scelta di campo più forte che un narratore può fare, senza perdere il suo linguaggio specifico, senza cioè trasformare ciò che sta scrivendo in un saggio, o peggio ancora in una sorta di catechismo ideologico, dove i dialoghi tra personaggi diventano un semplice pretesto per esporre delle tesi, una dopo l'altra, come tante tegole sulla faccia del lettore.
Questa selezione vale per qualsiasi racconto: anche l'attualità, la fantasia e i cervelli che ci circondano sono altrettanti archivi. Quelli 'storici' rendono solo più evidente una realtà generale.
Fare politica è anche raccontare un presente possibile, e viceversa raccontare una storia è anche intervenire sulla realtà.
Spulciarsi l'ombelico in un epoca di conflitto sociale, è tutt'altro che un'opzione neutrale.

Le storie sono di tutti

Se gli archivi sono macchine narrative autonome, e i narratori sono alambicchi che ne distillano storie, a chi dobbiamo attribuire la paternità dell'elisir di lunga vita che risulta da tutto il processo? Di chi è la storia di Ca' de' Marsili, 25 maggio '44? A seconda di come l'hanno raccontata o sentita raccontare, appartiene a tre diversi soggetti, mentre l'aneddoto che le comprende tutte appartiene al sottoscritto? Mi pare strano. Piuttosto: c'è una vicenda, patrimonio di un'intera comunità. Ognuno può utilizzarla secondo il proprio punto di vista. Appartiene a tutti. A sua volta, i diversi modi di raccontarla, una volta messi sulla pagina, o usciti da una bocca, diventano essi stessi 'eventi' nel grande ecosistema delle storie, "'eventi" che devono restare a disposizione di tutti, per essere ancora raccontati, usati, modificati, come nell'aneddoto di cui sopra.
Così come le fonti storiche devono essere libere e accessibili, affinché libera sia pure la ricerca, così le storie devono rimanere utilizzabili e riproducibili da chiunque, perché la macchina narrativa non si inceppi.
Forse non è un caso che né il libro di Lippi né quello di Venturi portino una qualche dicitura sul diritto d'autore. Nella Nube ardente la clausola c'è, ma forse è solo una cattiva abitudine dell'editore.

Le storie non si inceppano mai

Un racconto che si interrompe, una fonte che non si lascia interrogare, un nome inventato che non si trova sull'atlante: sono tutte occasioni narrative che non bisogna lasciarsi sfuggire. Un frammento di storia, anche il più autistico, ci parla sempre di possibili storie ad esso collegate. Il suo profilo frastagliato dà indicazioni sulla forma degli altri frammenti. I coni d'ombra della storia sono ghiottonerie per qualsiasi narratore. L'introvabile Cà Borelli fa sorgere domande, interrogativi, spunti per nuove narrazioni.
Si dice spesso che lo storico, quando le fonti tacciono, deve fermarsi, non può cominciare a raccontare. Deve rispettare certe regole. Eppure, le regole esistono per essere forzate, tese fino al punto di rottura. Anche uno storico, allora, potrebbe mettersi a raccontare, nel punto in cui gli archivi lo lasciano all'asciutto. Può raccontare la sua stessa ricerca, può raccontare di tentativi falliti, storie che fanno di tutto per farsi trovare, coincidenze che la deontologia professionale non permette di considerare ipotesi, vicoli ciechi, appostamenti, cacce disperate.
Gli archivi continuano a raccontare, sempre, anche quando la maggior parte dei cassetti sembra proprio non volersi aprire.


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