da L'Unità di mercoledì 18 settembre 2002, sezione "Orizzonti":

La storia delle storie /2

Homo fabulans
Dai libri ai nomi delle strade, dalle favole alle memorie dei vecchi: tutto è racconto e i racconti sono di tutti

Wu Ming 2 & Wu Ming 4


Elias Lönnrot, 1802-1884

Ogni singolo individuo, ogni comunità umana complessa, ha un insopprimibile bisogno di raccontare storie e di sentirsele narrare. Chi volesse confutare quest'affermazione, si troverebbe presto nei pasticci, poiché tale bisogno è parte integrante della nostra concezione di essere umano e di comunità: faremmo fatica a immaginare un cervello di Homo sapiens che non ospitasse diversi tipi di storie e forse non avremmo niente di simile a ciò che siamo soliti considerare un cervello umano se i nostri antenati non si fossero divertiti a narrare e a ri/produrre fiabe e leggende. Le storie, al pari della manualità, hanno plasmato il nostro organo pensante, così come lo conosciamo, e lo stesso dovrebbe potersi dire per le grandi aggregazioni di individui.
Centinaia di antichissimi miti di popolazioni diverse e lontane hanno raccontato, a modo loro, questa verità, descrivendo la creazione del mondo come atto narrativo di un dio poeta che attraverso il racconto ha dato vita all'intero universo. Allo stesso modo, i famosi canti degli aborigeni australiani descrivono e tengono in vita il mondo, che smetterebbe di esistere, se si smettesse di cantarli, mentre l'individuo non potrebbe attraversare con serenità la morte se scordasse i canti che lo riguardano e gli permettono di tornare indietro, verso il luogo dove sta sepolta la sua anima.
Osservando la questione da un'altra angolatura, tuttavia, si potrebbe dire che sono le storie stesse ad aver bisogno di essere raccontate. Se si smette di raccontarle, infatti, di stamparle, di leggerle, le storie rischiano l'estinzione. Ed esse invece sembrano seguire un vero e proprio istinto, una forza vitale che le spinge ad eccedere sempre rispetto ai vincoli imposti, quasi non accettassero i limiti naturali di un singolo habitat (sia esso organico, come il cervello, o inorganico, come un libro). Dal punto di vista delle storie, infatti, gli esseri umani sono soltanto un habitat molto favorevole per permettere alla specie di mantenersi viva. Esse hanno bisogno di comunità che le tramandino, di menti in cui riprodursi, di un terreno di coltura che permetta loro di evolversi.
Forse anche per questo, arrivati agli ultimi anni di vita, molti anziani sentono il bisogno di raccontare vicende antiche o dolorose: le storie premono dentro di loro con urgenza e combattono per non morire. Non a caso, il più delle volte, un vecchio che racconta sceglie un uditorio più giovane di lui, per consegnare le storie a menti/individui dotati di buona memoria, energie, tempo e relazioni sociali.
Il luogo più ambito, la Terra Promessa che tutte le storie vogliono raggiungere, è il cervello umano. La competizione è grande, poiché il nostro cervello è l'unico luogo in cui una storia può finalmente nutrirsi, crescere, riprodursi, realizzando così molti dei suoi compiti principali, comuni ad altre forme di vita: leoni, petunie o sequenze di DNA. Per fortuna, la nostra mente non è, allo stesso tempo, l'unico ambiente in cui una storia può vivere. Esistono supporti più duraturi, dove esse possono riposare, quasi in letargo, in attesa di raggiungere il paradiso riproduttivo: libri di carta, nastri magnetici, compact disc, circuiti stampati. A loro volta, questi ricettacoli di storie servono da trampolino per contattare quanti più cervelli possibile. Ma non è facile: un libro può finire sepolto in una biblioteca e non essere mai più ristampato, mentre si estinguono i cervelli che l'avevano letto, e lo stesso può accadere a tutti gli altri supporti, senza contare il loro inevitabile deterioramento. Per questo le storie non si affidano soltanto a questo genere di veicoli: cercano di liofilizzarsi, di condensarsi il più possibile per salire su zattere molto più strette e pericolanti. Le lapidi sparse nei centri storici delle città europee alludono a centinaia di storie, spesso note, altre volte nascoste chissà dove. Altrettanto i nomi di certe strade. Via Centotrecento è già una promessa. Lo stesso per il simbolo @ degli indirizzi e-mail, che grazie alla curiosità di Giorgio Stabile ha potuto raccontare la sua storia, da antichi mercanti veneziani a ingegneri americani. A sua volta, ogni storia ne trasporta mille altre, sotto forma di accenni, personaggi secondari, potenziali prequel e sequel, eccedenze congenite, giochi di rimando. E molti altri stratagemmi, affinati dall’evoluzione, per affrontare un ambiente ostile e competitivo.
Secondo Richard Dawkins, l'autore de Il gene egoista, applicare alle storie (e più in generale alle idee) la teoria dell'evoluzione non serve soltanto come analogia descrittiva, ma ci mette in grado di spiegarne il comportamento.
Qualunque evoluzione, biologica o culturale che sia, presenta tre aspetti:
- Variazione, cioè molti soggetti differenti che popolano un ambiente.
- Eredità, i soggetti sono in grado di riprodursi, di creare molte repliche di se stessi.
- Adattamento, l'ambiente circostante, interagendo con le caratteristiche dei soggetti, ne influenza il numero.
E' indubbio che questo modello possa applicarsi alla situazione appena descritta. Ma come spesso accade, le conseguenze di una teoria sono molto più importanti, per la sua accettazione, della teoria stessa. Descrivere le storie come forme di vita, dotate in un qualche modo di una loro autonomia e guidate dal principio evoluzionistico della lotta per la sopravvivenza della specie, può essere molto affascinante, ma significa essere disposti a diverse rinunce.
Innanzi tutto l'Autore, il genio creativo, l'artista in contatto con dimensioni superiori dell'essere, caro alla visione romantica borghese, si ritrova molto ridimensionato. Il narratore non è un analogo di quel dio che diede vita al mondo attraverso le sue storie, piuttosto è un comodo veicolo attraverso il quale la 'biblioteca' di una comunità cerca di replicare sé stessa. Chi si assume il compito di raccontare storie è un 'riduttore creativo di complessità'. Come Elias Lönnrot, il compositore del Kalevala, la grande saga epica dei finlandesi.
Questo Omero contemporaneo, nella prima metà dell'Ottocento, raccolse e registrò dalla viva voce dei cantori una grande massa di racconti epici, per riscriverli, ristrutturarli, lavorare di taglia e incolla, inventarsi passaggi di raccordo e dar vita a un poema unitario di straordinaria bellezza, comportandosi più o meno come gli stessi runoia, che spesso cercavano di mettere ordine nei canti che conoscevano, intrecciandoli e rielaborandoli continuamente, poiché come ogni forma di vita, anche le storie, nel replicarsi, si modificano senza sosta. D'altra parte, Lönnrot fece qualcosa che nessuno dei runoia avrebbe saputo fare: aveva dalla sua la lingua scritta, che molti di loro non conoscevano, per far sì che certe storie non dovessero affidare la loro sopravvivenza ai cervelli di uomini spesso molto anziani, e poi si servì dei suoi studi di folklore e della conoscenza di altri poemi epici, per guidare la selezione, per ottenere un amalgama che potesse infettare le menti dei lettori contemporanei, gente nata e cresciuta in città, lontana dalle steppe dei cantori. Fece un lavoro prezioso, inestimabile, importantissimo per la comunità e sicuramente creativo. La sua importanza come narratore non risulta in alcun modo intaccata dal fatto che le storie che raccontò non fossero 'uscite', per la prima volta, dal suo cervello.
Il 28 febbraio, giorno della prima pubblicazione del Kalevala, in Finlandia è festa nazionale.
La seconda rinuncia è quella ad apporre alle storie un vincolo di proprietà esclusiva. Le storie sono di tutti. Appartengono alla collettività, ed è grazie ai cervelli di molte persone che possono mantenersi sane ed efficienti nella riproduzione. Chi si appropria di una storia e vuole tenerla solo per sé, commette un furto. Il narratore che vive del suo lavoro, non lo fa vendendo storie che sono sue, ma raccontando storie che sono anche sue, attraverso performance o grazie ad oggetti particolari, i libri, che vengono venduti come qualsiasi altro prodotto. Il contenuto della narrazione, invece, può soltanto essere restituito alla comunità, che deve potersene servire liberamente.
Infine, le storie hanno bisogno di circolare e di replicarsi con tutti i mezzi possibili. Qualsiasi provvedimento cerchi di limitarle sotto questo aspetto è un attentato contro l'evoluzione della cultura e quindi, poiché le comunità e gli individui hanno, a loro volta, bisogno di storie, si tratta di un vero e proprio crimine contro l'umanità.
Queste implicazioni sono estreme soltanto in apparenza. Tutto sommato, l'idea di proprietà privata intellettuale appartiene a un periodo assolutamente breve e recente della storia e ogni giorno che passa appare sempre più come il tentativo di vincolare e ridurre una delle attività umane più naturali, collettive e irrinunciabili: raccontare il mondo attraverso le storie.  

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