[Marzo 2005. Cierre Edizioni (www.cierrenet.it) riporta in libreria dopo quasi trent'anni Polenta e sassi di Emilio Sarzi Amadè, romanzo autobiografico sulla guerra partigiana nel bellunese. Pp. 160, € 11,50 ]


Sarzi Amadè e il plurilinguismo della liberazione

di Wu Ming 1


Emilio Sarzi Amadè. Personaggio da riscoprire. Partigiano. Poliglotta e poligrafo. Inviato de "L'Unità" in Estremo Oriente negli anni della guerra in Vietnam e della "Rivoluzione Culturale" cinese. Inviato in Israele e Medio Oriente nel periodo di Sabra e Chatila. Autore e traduttore di numerosi libri su Cina, Vietnam e Corea. Curatore dell'edizione italiana degli scritti militari del generale Vo Nguyen Giap.
Recentemente, Sarzi Amadè è stato tirato in ballo in una polemica innescata da alcuni intellettuali di destra - in particolare da Renzo Foa (uno dei tanti ex-comunisti indaffaratissimi a farsi perdonare il proprio passato) - in merito a presunte cecità ideologiche della sinistra italiana di fronte al regime dei Khmer rossi in Cambogia. Questo perché, in alcune corrispondenze, Sarzi Amadè - sbagliando, ma non fu l'unico - sollevò dubbi sulle testimonianze di fuggiaschi (reali o presunti) dai killing fields, denunciandone lo "scopo propagandistico", la strumentalizzazione in chiave d'ideologia neo-coloniale.
Vecchio argomento: senza i vecchi padroni europei o i nuovi padroni americani, "quei popoli là" (i negri, i gialli, i selvaggi, i pezzenti) non sarebbero in grado di auto-governarsi, e i bagni di sangue sarebbero inevitabili. Rivoltante pseudo-argomentazione che fece la fortuna dei cosiddetti mondo movies, i documentari alla Africa addio di Jacopetti e Prosperi (1966). Era la premessa anni '60-'70 a tutti i discorsi odierni su "interventismo umanitario", "esportazione di democrazia" etc.
Sarzi Amadè si sbagliava sugli episodi specifici, ché il regime di Pol Pot era davvero sanguinario e millenaristico (c'è sempre una Münster in cui gli anabattisti si rinchiudono e ammattiscono) e i killing fields erano una realtà, ma aveva ragione sul piano generale: abusi, degenerazioni, dittature, massacri e terrorismi (nel Sud-Est asiatico di ieri come nell'Africa di oggi) hanno anche cause endogene, e non vanno in alcun modo giustificati, tuttavia vanno inseriti e compresi nel loro contesto, che è quello post-coloniale. Società sradicate e devastate dall'imposizione della divisione del lavoro capitalistica, dallo sfruttamento neo-schiavistico, dalla depredazione sistematica delle risorse. Stati-nazione creati dal nulla, separando comunità storiche tramite confini tracciati a tiramento di culo, mettendo l'una contro l'altra etnie e tribù che convivevano da millenni. Nazioni che, una volte liberatesi del colonialismo "classico", si sono ritrovate costrette a ballare come orsi sulle piastre roventi dello "scambio ineguale" e del neo-colonialismo delle grandi corporations. E' non soltanto ipocrita, ma anche criminale indicare il caos e lo sfacelo che noi stessi (noi capitalismo, noi liberismo e pensée unique, tutti noi prosperanti su ruberie ed estrazione del plusvalore assoluto) abbiamo provocato, e attribuire a noi stessi (noi "Occidente", "democrazia", "comunità internazionale") un qualsivoglia ruolo salvifico e umanitario, di arbitrato, come se non fossimo parte in causa.
A dire il vero, Sarzi Amadè aveva un briciolo di ragione anche nel caso specifico: la denuncia degli eccidi polpottiani da parte occidentale era del tutto insincera e strumentale, e non è difficile provarlo.
Nel 1979 Pol Pot fu detronizzato dall'esercito vietnamita (impresa che resta misconosciuta e per la quale il Vietnam non ha mai ricevuto alcun ringraziamento dalla "comunità internazionale") e tornò a fare la guerriglia, stavolta contro il governo insediato dall'odiato paese limitrofo. Va ricordato che a quel punto, lui e i suoi Khmer si erano già macchiati di sistematici crimini contro l'umanità, ed erano da tempo i perfetti babau da evocare in chiave anti-comunista e neo-coloniale.
Ebbene, in breve tempo divennero completamente etero-diretti dagli Usa, golem di fango e sangue in cui l'imperialismo soffiava la vita, finanziati dagli Usa in chiave anti-vietnamita e anti-sovietica, facendo passare gli aiuti attraverso l'Onu, la Tailandia e la Cina di Deng Xiaoping.
Zbigniew Brzezinski, ex-consulente per la sicurezza nazionale durante la presidenza Carter: "Ho esortato i cinesi ad appoggiare Pol Pot. Ho incoraggiato i tailandesi ad aiutare i Khmer rossi. La questione è: aiutare il popolo cambogiano [!]. Pol Pot è abominevole, noi non possiamo appoggiarlo, ma la Cina sì" (cit. in William Blum, Con la scusa della libertà. Si può parlare di impero americano?, Tropea, Milano 2002).
Ben presto, nel passaggio dalla presidenza Carter a quella Reagan, gli Usa abbandonarono anche le ultime remore, se si pensa che nel novembre 1980 Ray Cline, ex-vicedirettore della Cia e consulente della Casa Bianca per la politica estera, visitò una delle zone della Cambogia controllate dai Khmer rossi, "accolto con calore da migliaia di abitanti dei villaggi" (così almeno diceva un comunicato ufficiale dei Khmer).
Nel trienno 1979-81 gli Usa usarono il World Food Program dell'Onu e consegnarono alle forze armate tailandesi 12 milioni di dollari di viveri, destinati agli accampamenti Khmer lungo il confine con la Cambogia.
Grazie alle pressioni degli Usa, i Khmer rossi mantennero il loro seggio all'assemblea dell'Onu fino al 1993, benché non fossero più al potere dal '79.
Insomma, Sarzi Amadè faceva bene a dubitare. In ogni caso, meglio lui dei vari Foa e compagnia anilingente, inclusi i livorosissimi neocons nostrani.
Il libro di Ong Thong Hœung del quale Foa scrive la prefazione s'intitola: Ho creduto nei Khmer rossi. "Cazzi tuoi", verrebbe da rispondere, ma sarebbe ingeneroso. Che ne poteva sapere un cambogiano che il suo libro sarebbe stato usato nelle polemiche di cortile della destra italica?

Veniamo a Polenta e sassi, potente narrazione della guerriglia partigiana pubblicata da Einaudi nel 1977, meritoriamente riscoperta e ripubblicata grazie ad alcuni compagni della montagna veneta, già tra gli autori della bellissima guida Sui sentieri della Resistenza in Cansiglio. 29 itinerari storico-naturalistici sulle orme del Gruppo Brigate Vittorio Veneto [1].
Oltre al ritmo e ai dialoghi tirati, ai mille aneddoti, al pathos della narrazione, a colpirmi in Polenta e sassi è l'impasto espressivo, la lingua materica e onomatopeica, gonfia di sedimenti: frasi e versi in tedesco sovente senza traduzione (lo stesso incipit è una frase in tedesco, peraltro sbagliata); detriti di diverse parlate e dialetti; inglese strascicato e bofonchiato (come quello del dialogo tra Johnny e i pelapatate britannici, al termine di primavera di bellezza di Fenoglio: "We tuk an' ran our domdest, knee-deep in coold, muddy watter"); pronunce storpiate ("lovo givano pev le stvade, ma le cime sono nostve"); rumori con cui si esprimono gli oggetti, in una dimensione quasi animistica: ss-cciang, si lamentano i fili del telegrafo disturbati dalla guerra; sciafff, annuncia il bidone aviolanciato; pùm pùm pùm pùm, sbotta la 20mm, poi c'è il "pùm lungo lungo", il ta-pùm (e "i tanti tà-pum assieme"), il tà tà tà tà tà, il frrr delle pallottole che ti sfiorano; infine ci sono i versi con cui si comunica tra uomo e animali (conversazione tra uomo e capra a suon di cià cià cià).
Nella narrativa e nella memorialistica della Resistenza è spesso evocato il grammelot, o meglio il pidgin, la stentata e sbrindellata "lingua franca" che i partigiani erano costretti a parlare tra loro. Le vicende della guerra e dell'armistizio avevano portato nelle brigate fuggiaschi e disertori d'ogni provenienza, del Nord e del Sud Italia, del resto d'Europa e degli altri quattro continenti. Tra i partigiani vi erano ex-prigionieri di guerra russi, inglesi, canadesi, indiani, australiani, neozelandesi, brasiliani etc. Nella guerriglia si dovette sperimentare un "plurilinguismo della liberazione", non dissimile da quello che Sarzi Amadè o Vitaliano Ravagli dovettero conoscere anni dopo nel Sud-Est asiatico, tra cinesi che parlavano in mandarino o in cantonese, vietnamiti e laotiani d'ogni tribù, cambogiani, e osservatori da tutto il mondo conosciuto. Fenoglio, il più grande narratore della Resistenza, mandò in tilt il pidgin, usò la propria anglofilia per farlo detonare e trasformarlo nella lingua "plastica, malleabile a proprio talento" che troviamo nelle stesure provvisorie de Il partigiano Johnny.
Mi sembra però che l'operazione di Sarzi Amadè sia un'altra: la reinvenzione costante della lingua rende protagonisti, ciascuno a modo proprio, anche le bestie e gli oggetti inanimati. La guerra non è solo "mondiale", non è solo "civile", è anche totale, coinvolge l'intero mondo percepito dai sensi e lo fa scontrare col mondo altrui. Una guerra tra mondi, basata su una totale mobilmachung. Nella prefazione a una recente edizione de La casa in collina di Pavese, Giovanni Raboni faceva notare che il protagonista del libro, Corrado, usa la parola "nemici" una sola volta in tutto il libro, e lo fa riferendosi a oggetti inanimati, gli aeroplani. Sarzi Amadè porta quest'attitudine un po' più in là. Il combattente partigiano se la prende col prosciutto e con la carne di pecora; prende come nome un sostantivo riferito a luoghi, oggetti o eventi atmosferici (Venezia, Burrasca) come ad abolire il confine tra sé e mondo attorno; le stesse espressioni "polenta e carburo", "polenta e stracci", "polenta e sassi", con l'accostamento di organico e inorganico/incommestibile, finiscono per alludere alla stessa cosa.
Non può che venire in mente un'altra guerra mondiale, anche se combattuta in modo vicario, che fu al contempo guerra civile e totale (nel senso appena esposto): la guerra del Vietnam. Tutto il mondo era coinvolto, vi erano oggetti e animali amici o nemici: alberi minati, manubri di biciclette riempiti di esplosivo, finte macchie d'erba che nascondevano trappole di ogni tipo, rocce predisposte a rotolarti addosso. Addirittura, i Viet-cong aizzavano contro il nemico api, formiche e serpenti. Sui fili spinati di certi accampamenti americani venivano posati piccoli rettili il cui verso, alle orecchie dei green berets, somigliava a "Fuck you!". Appunto, la mobilitazione totale, un plurilinguismo della liberazione esteso anche al non-umano.
Una lettura forzata, non dico di no, ma suggestiva e forse produttiva di letture meno forzate. In Asce di guerra, il libro che abbiamo scritto con Vitaliano Ravagli, abbiamo raccontato di come il mito e l'immaginario della Resistenza possano spingere un italiano a prender parte alle guerre d'Indocina. Ora si tratterebbe di comprendere quanto l'esperienza della guerra indocinese sia in grado di influenzare retrospettivamente la rievocazione della guerra partigiana.

Wu Ming 1, estate 2004

[1] Pubblicato dall'Ufficio per la Storia della Resistenza e della Società Contemporanea del Vittoriese, Vittorio Veneto 1998


Bibliografia minima di Emilio Sarzi Amadè:
Rapporto sul Vietnam, Einaudi 1966
Polenta e sassi, Einaudi 1977
L'indocina rimeditata, Angeli 1983

Curatele, prefazioni, introduzioni:
AA.VV., Le due vie dell'economia cinese, Angeli 1971
Jean Chesneaux, Storia del Vietnam, Editori Riuniti 1971
Vo Nguyen Giap, La guerra e la politica, Mazzotta 1972

Traduzioni:
William Hamilton, Buoi di ferro. La rivoluzione nell'agricoltura cinese, Einaudi 1972
Edgar Snow, La lunga rivoluzione, Einaudi 1973
H.E. Norman, La nascita del Giappone moderno, Einaudi 1975 (con Roberto Vigevani)

 

 


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