da: il MUCCHIO Selvaggio n.460, dal 30 ottobre al 5 novembre 2001, inserto mensile "Ex Libris" con lunga intervista a Wu Ming e Havana Glam "libro del mese" con quattro recensioni a confronto.


HAVANA JAM

di John Vignola e Nicola Violi

Sono inutili lunghi preamboli per l’intervista che segue. Abbiamo incontrato i tre quinti del collettivo Wu Ming nel pieno centro di Bologna; l’occasione è stata la pubblicazione di Havana Glam per Fanucci Editore. All’appello si sono presentati l’autore effettivo del libro, Riccardo Pedrini, insieme a Roberto Bui e Federico Guglielmi. E’ stato solo il punto di partenza di un dialogo che ha toccato passato, presente e futuro di un collettivo che prima si chiamava Luther Blisset ed era ben più esteso, e che, semplificando molto, dalle provocazioni a tutto campo si è poi concentrato sulla letteratura, fino al successo del romanzo Q (Einaudi) di qualche anno fa. In realtà le sfaccettature WM sono così complesse che vi rimandiamo al loro sito per approfondirle da soli (www.wumingfoundation.com). Questa nostra vorrebbe essere soprattutto una sorta di riflessione a ruota libera, concentrata sull’artigianato della scrittura, stretta fra le prove recenti (alle spalle ci sono per esempio Asce di guerra o Libera Baku ora dello stesso Pedrini) ed i movimenti rivolti al domani immediato. Un piccolo divagare sugli eterni equilibrismi fra “alto” e “basso”, da cui si generano (quasi) tutte le cose.


Partiamo dal fatto che vi definite “un’azienda di servizi narrativi”: da un lato mi ricorda proprio l’idea di un artigianato narrativo al servizio di qualcuno, dall’altro uno scherzo e, infine, un pugno in faccia alla nostra tradizione crociana della letteratura.

Pedrini: Non è uno scherzo! E’ intanto uno schiaffo contro la tradizione che tu hai definito crociana, che però per me possiamo anche far risalire più indietro nel tempo: una concezione romantica della letteratura, idealista… E’ una demistificazione del concetto di autore come autorità, di autore con la A maiuscola. Poi tu hai usato una parola che a me personalmente - e anche agli altri - piace molto, che è quella di artigiano. In realtà la differenza tra artigianato e arte è ideologica, non esiste: senza arrivare a definirci operai della letteratura, è chiaro che il nostro è un approccio di tipo produttivistico, ci piace produrre molto e bene.

Bui: James Brown definisce se stesso “the hardest working man in show business”, e allora noi potremmo prendere tranquillamente questa definizione cambiandola con “the hardest working novelists…”.

P: Esatto, oppure - citando Picasso - “il genio è otto ore di lavoro al giorno”. Siamo su quella direzione lì. E’ un lavoro, insomma.

B: Penso anche allo Stephen King di Danse Macabre: “se il talento è un coltello, va comunque affilato tutto il giorno”.

P: E’ un concetto molto marziale, tra l’altro…

B: Esatto! Marziale, non produttivista, marziale. Suona perfetto: disciplina, allenamento continuo, mentalità giusta.

Dopo la fine del progetto Luther Blisset, avete acquistato delle identità più separate, più “definibili”.

B: Dai libri continuano a non capirsi.

P: Sicuramente c’è un po’ più di enfasi sulla convenzionalità del nome anagrafico, ma questo serve per facilitare i contatti in senso proprio umano, relazionale. La sfera relazionale e quella pubblica si intersecano ed è molto più facile chiamare uno Roberto piuttosto che Wu Ming Yi.

B: In ogni caso, Wu Ming significa “senza nome” e quindi c’è da parte nostra un rifiuto del divismo letterario: non andiamo ai talk show, non andiamo in TV, non ci facciamo fotografare. Quindi l’aspetto del Luther Blissett Project riconducibile all’aforisma nietzscheano “che importa di me?”, beh, quello rimane. L’opera viene prima dell’autore, noi vogliamo che si parli dei libri piuttosto che di noi, delle nostre vite private, dei nostri gusti sessuali.

Questo tipo di concetto produttivo vi ha portato a scrivere molto.

B: Per quanto riguarda la prolificità, non lo so: se conti che Q l’abbiamo iniziato alla fine del 1995 e siamo di fatto alla fine del sesto anno di lavoro. Sì, saremo prolifici ma non esageratamente. Abbiamo scritto Q, Asce di guerra, ora Havana Glam, poi uscirà 54 e Riccardo nel frattempo aveva firmato Libera Baku ora. Sono cinque romanzi in sei anni, più qualche racconto.

In effetti non è poi così tanto; hai citato James Brown nella cui sterminata produzione è difficilissimo raccapezzarsi e poi Stephen King che più che affilare un coltello crea vere e proprie asce.

B: King ha il problema di mantenere una qualità sufficientemente alta visto che scrive troppo secondo me, o, meglio, butta via troppo poco. Anche noi scriviamo altrettanto, ma buttiamo via il 60% di ciò che produciamo.

C’è stato un passaggio da un nome collettivo - utilizzabile da chiunque - che aveva in serbo oltre a vari grimaldelli narrativi delle performance estemporanee, verso una maggiore concentrazione sull’atto narrativo?

P: E’ un aspetto che hai centrato, anche se Wu Ming ha svolto nel recente passato e continua a svolgere una funzione non propriamente di produzione artistica e letteraria. Ha dato anche un contributo al movimento in termini di elaborazione di miti: volenti o nolenti è stata una responsabilità che ci siamo dovuti prendere. Tutti noi staremmo molto meglio occupandoci solo dei nostri libri, ma effettivamente viviamo nel mondo: stanno succedendo cose significative e ci capita di prendere posizione.

B: La nostra newsletter /Giap/ non è solo dedicata a temi letterari, tutt’altro.

P: Anzi, spesso dobbiamo ribadire il fatto che siamo degli autori e non siamo degli ideologi, che siamo produttori di storie, non di ideologie.

B: Comunque narravamo anche prima, anche il Luther Blissett Project era una narrazione, solo che si raccontava con diversi strumenti e non c’era solo quello dello scrivere. Allora c’erano centinaia di persone coinvolte, mentre adesso siamo in cinque e ci ruotano attorno un po’ di individui.

La questione è in realtà semplice: dedicarsi alla fiction è una operazione più complessa e delicata che fare performance, mettere in giro voci, dicerie e robe varie. Quindi non può essere indiscriminatamente aperta a chiunque, bisogna che ci sia un gruppo fisso, un team, che lavori intorno al progetto con un metodo condiviso, altrimenti le storie non avrebbero né capo, né coda.

Noi vogliamo che alla fine nei libri lo stile sia unitario, che non si riconoscano le diverse mani oppure che uno creda di riconoscerle ma non dove effettivamente ci sono.

P: Il motivo per cui ciò avviene è che tutto quello che scriviamo viene processato da cinque cervelli, più o meno in tempo reale.

L’idea infatti è quella del laboratorio, della fucina linguistica.

Sìcuramente.

A mio giudizio sia Havana Glam che Q tradiscono una ricerca che chiamerei da romanzo d’appendice…

P: D’appendice nel senso che, al di là dei temi che proponiamo o delle minime sperimentazioni che possono esserci in un romanzo come Havana Glam , quello che cerchiamo di fare è letteratura popolare, nel senso migliore del termine! Se, ad esempio, riuscissimo a compiere qualcosa di simile a livello mitopoietico a quello che ha fatto Salgari saremmo molto contenti.

B: Ci toglieremmo da soli il cappello al nostro stesso passaggio!

Non vi suicidereste barbaramente…

P: No, assolutamente (risate, NdI)!

B: A parte questo, nel romanzo d’appendice la scrittura collettiva era molto importante: anche se la firma era una sola, comunque le storie uscivano a puntate sui giornali e i lettori davano un sacco di input agli autori, dicendo che quel personaggio faceva cagare e bisognava ammazzarlo oppure che bisognava spostare l’azione nella tal città. Era un feedback continuo.

P: L’idea del feedback del pubblico è un’idea assolutamente buona. A me piacerebbe scrivere un romanzo d’appendice, c’è un progetto in questo senso anche se è ancora troppo vago per parlarne.

Mi viene in mente che proprio il rapporto con il pubblico, il fatto di costruire degli scenari in cui si identificano le persone, in generale poi con l’avvento della comunicazione fumettistica americana, è diventato quello dei supereroi.

P: Io ho sempre citato Stan Lee come una delle mie influenze principali, senza ombra di dubbio.

Torniamo alla concretezza di scrittura di Q e Havana Glam. C’è questo fatto di mescolare il tempo e gli eventi tra loro, ed alla fine ci si trova quasi spiazzati e si ha l’idea che sia possibile tutto. Ad esempio, la verosimiglianza è una delle cose inquietanti di H avana Glam, io mi sono immaginato effettivamente David Bowie che fa dichiarazioni di quel tipo… Sono cose che potrebbero avere addirittura una loro realtà .

B: Dipende dal tuo concetto di realtà e dalle sostanze che usi!

P: Il punto è questo: io mi muovo spinto da ossessioni di tipo “filosofico”, e il fatto che “tutto è possibile” significa - come dici tu - che la realtà è una ma non è univoca. Nel senso che puoi entrare dentro quella che definisci realtà da mille punti di vista. Quando ho iniziato a scrivere il romanzo avevo appena finito di leggere una cosa di Ananda Coomaraswamy che si chiama Tempo ed eternità ed è un resoconto del modo di intendere il flusso temporale presso tutte le varie culture e religioni tradizionali, dall’Islam al buddhismo, all’induismo, al cristianesimo antico.
Questo ha avuto un grosso effetto su di me: in HG c’è una pseudo-teoria filosofica che viene propugnata da uno degli inventori del reattore temporale, secondo la quale nulla può cambiare perché la totalità è talmente interrelata che non si può arbitrariamente sottrarne un pezzo. Se l’essere è il complesso delle possibilità, tutto è possibile. Nell’economia del racconto questa cosa tiene, probabilmente se la fai leggere ad un filosofo o a un logico la smonta immediatamente, però quello che mi serviva era un espediente per tenere insieme la trama e credo di esserci riuscito.

[Comincia una piccola divagazione sulle qualità del registratore che sta immortalando la conversazione, che sbocca nel ricordo di una avventurosa intervista a Tricky e nella constatazione che le rockstar spesso sono insostenibili, NdI.]

B: Una delle teorie di questo romanzo è che il rock rende imbecilli.

Visto in un certo modo il rock’n’roll è anche reazionario…

B: Certo rock è reazionario e cert’altro no, ma - voglio dire - l’eventuale vena regressiva di quello che fai è solo marginalmente collegabile a quello che dici. E’ il come fai le cose…

P: Ad esempio, ci sono subculture che sono implicitamente sovversive per come si comportano, per come agiscono. La carica sovversiva di una subcultura o di una musica che si definisce tale è marginalmente nelle parole o nella comunicazione verbale. E’ direttamente dentro i segni, nell’ordine dei segni non in quello dell’organizzazione semantica dei segni.

Alcune zone del rock sono comunque senza rimedio “sceme”…

P- Io non sono contrario alla musica scema, sono contrario all’abuso di musica scema. Se tu hai un’esistenza da vivere, 24 ore nella tua giornata, io credo che per mezz’ora puoi ascoltare il rock’n’roll, non fa male. A dosi più massicce diventa pericoloso.

Il David Bowie del romanzo poteva avere una sua controparte italiana?

P- Garbo! Noi volevamo invitarlo anche al party per il libro. Tu sai dov’è finito?

Vi do un anteprima: esce il suo disco i primi di gennaio per la Mescal.

P- A me personalmente Garbo piace molto, lo trovo un personaggio totalmente fuori dagli schemi per l’industria musicale italiana.

B- Con A Berlino va bene ha anticipato tutta una ristrutturazione della città affidata a Renzo Piano…

Torniamo ad HG e al futuro apocalittico che riserva agli Stati Uniti. Dopo l’11 settembre questa profezia non è poi così impossibile…

P: In questo senso è molto meno profetico di Libera Baku ora . Non lo so…io non vedo tutta questa carica profetica in HG, anche se tutti quelli che hanno commentato il libro lo hanno sottolineato. E’ semplicemente un lavoro dentro lo spirito dei tempi.

G: Secondo me l’elemento profetico, se vogliamo chiamarlo così, sta nel fatto che oggi - a distanza di quindici anni dalla fine della guerra fredda e della minaccia nucleare - c’è un ritorno di fiamma nell’immaginario collettivo di questa eventualità. In altre forme, in altri modi. C’è una specie di reset dell’immaginario verso scenari bipolari.

P: Quando ho iniziato a scrivere il romanzo, la bomba atomica era molto poco di moda. In questo momento è tornata in auge.

G: Era più profetico, da questo punto di vista, in una maniera quasi agghiacciante Libera Baku ora, dove si parlava di una missione del mondo occidentale contro gli integralisti islamici con l’Italia presa ostaggio dall’Alleanza Atlantica.

P: E’ un modo di esprimersi idealistico quello di riferirsi a termini come Zeitgeist, però di fatto se cerchi di vivere nel mondo e hai le orecchie aperte…

B: Noi, tra l’altro, siamo vere e proprie spugne: nei periodi lunghi in cui concepiamo e scriviamo un mettiamo in gioco praticamente tutto quello che abbiamo intorno. Prima assorbiamo e poi filtriamo nel momento della stesura, però rimane parecchio.

P: Dentro le cose che scriviamo ci sono le idiosincrasie dei nostri amici, i loro modi di dire, quello che succede a livello di ossessioni mediatiche, anche se poi alla fine tutto può sembrare poco esistenziale!

Parliamo del titolo del libro.

P: C’è un motivo per cui Bowie è nel romanzo: perché il glam è l’autocoscienza del rock’n’roll, dei suoi meccanismi circensi.

B: Comincia a vedersi da fuori e a trovarsi ridicolo.

Arriviamo all’autogiustificazione culturale, insomma.

P: Da un certo punto di vista sì; per questo il glam è così importante. Il glam ha una carica autoanalitica sorprendente, in questo senso secondo me rappresenta la fine del rock’n’roll. Dopo quell’esperienza c’è la decostruzione, l’annullamento.
La cosa che mi ha sempre affascinato di più del glam rock è il suo interclassismo: si passava dagli Slade, in un ambito fortemente working class, fino a concezioni aristocratiche della vita, tutto senza soluzioni di continuità. Voglio dire, se ascolti Teenage Rampage potrebbe essere benissimo dentro Ziggy Stardust, con un altro arrangiamento.

Come funziona il vostro rapporto con le case editrici?

G: In maniera allegramente conflittuale.

B: La nostra è una vera e propria lotta sindacale. A volte strappiamo concessioni, trovando una controparte intelligente, altre invece litighiamo brutalmente. Con Fanucci sta andando molto bene.

Non vi è mai balenata l’idea di organizzare un’autodistribuzione

B: Di mezzo ci sono le annose questioni economiche.

Siete comunque riusciti ad imporre il no copyright.

B: Ai tempi di Q, Einaudi era inizialmente perplessa, il loro ufficio legale era scettico se non ostile alla questione. Noi ci impuntammo: un libro di Blissett non può avere il copyright, quindi o non ve lo diamo oppure lo accettate così. Hanno avuto l’acume di capire che per noi questo era un Comma 22.

G: Poi la cosa interessante, secondo me, è il fatto che nonostante le prime perplessità di Einaudi la cosa sia passata con tutti gli editori, inclusi quelli stranieri; senza troppe guerre, siamo riusciti ad imporre questa cosa anche in Spagna, Francia, Olanda. E’ importante. Per troppi anni ci siamo autoghettizzati su questa storia del no copyright: era una roba di nicchia, adatta solo a case editrici underground. Abbiamo provato a portare la vertenza sul banco di trattativa con una major ed è passata.

B: Il copyright è ormai manifestamente obsoleto, se ne stanno rendendo conto tutti.

P: Che cosa significhi proprietà intellettuale da un punto di vista logico è inesplicabile: ad esempio, io scrivo HG assorbendo, triturando tutto quello che mi viene dato a livello di suggestioni dalle persone che conosco, in che senso sarebbe proprietà mia?

Non avessimo già la SIAE in Italia sarebbe già un bel passo in avanti, perché alla fine si parlerebbe di diritto naturale solo di chi scrive una cosa. Così purtroppo, dovendosi riferire a qualcuno che bene o male tutela i tuoi interessi di autore, c’è già il grimaldello di qualcuno che in realtà tutela se stesso.

B: Si parla tanto di diritti di autore, ma in realtà l’autore non è assolutamente tutelato. E’ più un diritto d’editore.

P: Se esiste il diritto di autore, deve esistere anche il diritto di sostenere la tesi che non c’è proprietà intellettuale su quello che uno scrive.

B: E’ la forma più perniciosa di proprietà!

Torniamo indietro. Nel passaggio dal nome collettivo Luther Blissett a quello di Wu Ming, mi sembra che ci sia stata anche un’apertura da parte vostra verso una maggiore visibilità, a partire ad esempio nei confronti della città di Bologna.

B: In realtà questa fase era iniziata già negli ultimi tempi del Luther Blissett Project: nell’estate del ’97 siamo andati a Conegliano Veneto ad Antenna Cinema: per la prima volta ci mostrammo in pubblico e addirittura lì ci facemmo fotografare. Ci dicemmo: basta, siamo dei corpi, compariamo! Con la campagna di solidarietà a favore dei Bambini di Satana poi (con la quale riuscimmo a tirarli fuori di galera), facemmo conferenze stampa e presentazioni del libro. Fu quella, a fine ’97, l’inizio della fase in cui decidemmo di farci vedere. Quindi quando uscì Q, per questo, la strada era già spianata: facemmo una cinquantina di presentazioni pubbliche in giro e ancora ci chiamavamo Luther Blissett. Quindi non è una cosa di Wu Ming, ma è qualcosa che già all’interno di Luther Blissett avevamo deciso di fare nell’ultimo periodo.

Per quanto riguarda Q, non pensate che sia passato fondamentalmente inosservato rispetto alla bellezza intrinseca del libro, alla grandezza del progetto?

B: Siamo odiati da molti addetti ai lavori (risate, Ndi)!

G: Ci sono due problemi: uno di inadeguatezza delle strutture editoriali italiane, il fatto cioè che nessuno si è accorto del valore di Q prima che facesse il botto, con circa ottantamila copie vendute, tra librerie e book clubs, che per l’Italia è una cosa enorme. L’altro motivo è che, per ciò che è successo politicamente nel frattempo nel mondo e in Italia, noi ci siamo ritrovati ad esporci rispetto a questioni politiche e questo non ci ha certo aiutato a vendere libri.
Se aggiungi il fatto di partecipare al Premio Strega senza andarci, non frequentare salotti letterari, non fare troppe marchette… tutto questo ci ha ulteriormente connotati.

B: Una cosa ce la fanno notare tutti: quando escono le finte panoramiche sui nuovi autori italiani del decennio, noi siamo sistematicamente ignorati.

G: …perché noi non scriviamo letteratura italiana…

P: HG è scritto in italiano, ma non è letteratura italiana, è solo la lingua che è italiana, non certo lo stile, le storie, la concezione letteraria.

G: Il problema è che non riescono a collocarci, non siamo l’autore singolo con la A maiuscola. Pensa all’operazione Q, per esempio, e in particolare - anche se è una cosa molto banale - all’epifenomeno: non succede facilmente che uno scrittore pubblichi un libro, faccia il botto e cambi nome! Non è concepibile, quando c’è gente che suda vent’anni per imporre la propria “firma”. Come la collochi un’operazione del genere? Dalla casa editrice alla gente per la strada ci dicevano che eravamo matti!

P: In questo siamo molto rock’n’roll: abbiamo cambiato nome, abbiamo cambiato formazione e HG è il mio lavoro solista…

Ultima curiosità: come nasce una scrittura ad otto mani come quella di Q?

B: Il metodo cambia da opera ad opera. Per Q, alla fine del ’95, ci siamo chiusi all’Istituto per le scienze religiose di Bologna e abbiamo fatto i topi di biblioteca compulsando volumi storici, documenti, senza ancora sapere esattamente cosa avremmo raccontato. Ci siamo però appuntati nomi, percorsi, accadimenti, biografie, e poi abbiamo fatto mesi di brainstorming tutti assieme a dire “questo personaggio che trovi ad Anversa pare abbia incontrato quest’altro a Wittenberg…in che anno?”. Incrociando le banche dati è venuta fuori un’idea di storia, poi la si è rifinita nei dettagli ed è diventata una scaletta sequenza per sequenza. Solo la scaletta era una cinquantina di pagine! Poi è stata rifinita ulteriormente, diventando l’elenco dei capitoli e solo a quel punto ci siamo divisi i compiti. Chiaro che poi i vari capitoli passavano di mano e venivano processati continuamente da tutti.
Per Asce di guerra, il procedimento è stato diverso: la maggior parte delle fonti erano orali (una serie di interviste fatte da noi a dei partigiani) e in più avevamo un co-autore che era Vitaliano Ravagli. Lui aveva già scritto due libri per i fatti suoi, noi abbiamo ripreso le parti scritte meglio di quei testi e le altre gliele abbiamo fatte ridire a voce, registrandolo. Poi abbiamo integrato queste parti sbobinate con quello che lui aveva già scritto, in modo da ottenere uno stile univoco, infine gli abbiamo ridato il tutto per controllarlo. Quindi, di fatto, i capitoli di Vitaliano sono scritti da lui.
Per quanto riguarda HG, Riccardo aveva questa idea di trama: ne abbiamo discusso tutti assieme, lui l’ha scritto e di nuovo l’editing è stato comune. Il romanzo è suo, ma non sarebbe stato scrivibile in questo modo se Riccardo non fosse stato dentro il gruppo.

P: Come non sarebbe stato possibile così, se Chavarria non mi avesse dato il permesso di utilizzare il suo personaggio di Diego Djeguez Torres. DDT mi piace molto, perché allo stesso tempo è un uomo d’azione, ma ha anche una forte componente introspettiva. Così io ho deciso di spostarlo indietro nel tempo. Una fase giovanile della vita di DDT in un altro continuum storico-temporale.


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LIBRO DEL MESE

Inevitabile in questo caso occuparsi del libro di Wu Ming 5 (alias Riccardo Pedrini), Havana Glam, vista la sua importanza all'interno della saga-post Luther Blisset. Un'importanza che si potrebbe riallacciare al "romanzo storico" di Q di qualche tempo fa, almeno per la scelta del genere narrativo, ma che in questo volume prende spazi e vie di fuga anche piu' inattese del suo "simile". Un consiglio di lettura scontato.


NICOLA VIOLI ***

"DDT credeva ciecamente nel valore della documentazione. Leggeva di continuo. E molte cose erano interessanti". Non è certo un passaggio fondamentale, siamo appena a un terzo del romanzo e Diego Dieguez Torres è solo uno dei tanti personaggi che popolano Havana Glam. Mi piace pensare, però, che esso rappresenti al meglio l'azienda di servizi narrativi Wu Ming: chi conosce Q e Asce di guerra sa quanta accuratezza per i dettagli, per la ricostruzione storica e ambientale traspaia da quelle pagine. Con l'oggetto narrativo firmato dal solo Wu Ming 5 (Riccardo Pedrini), le cose non cambiano: siamo di fronte a una miscela complessa e raffinata, capace di mescolare in modo disinvolto gli Stati Uniti di un futuro apocalittico, una Cuba invasa dai fan di un David Bowie filo-comunista e la Kingston dei '70 alle prese con il reggae, gli spiriti maligni e pericolosi intrecci musical-criminali. Su tutto, difficile a credersi, un piano per annientare l'Unione Sovietica: lasciatevi trasportare dall'abilità chirurgica di Pedrini e, quasi sui titoli di coda, ogni tassello andrà al suo posto, non prima di avervi procurato più di una sorpresa nelle ultime, concitate, cento pagine finali.


ALESSANDRO BESSELVA ***

Inizi a leggere, e difficilmente riesci a staccarti dalle pagine di Havana Glam. Ci vuole, è vero, un po' di tempo per mettere a fuoco i tasselli della vicenda, abilmente disseminati lungo il percorso, ma arrivati a un certo punto la lettura prosegue con passo deciso, attraverso un affastellarsi di indizi, personaggi e situazioni. Le coordinate di partenza non sono del tutto nuove: agenti statunitensi viaggiano nel passato per modificarlo, allo scopo di scongiurare l'imminente declino del pianeta. E' solo l'inizio, il bello arriva quando ci si accorge che l'operazione è, contemporaneamente, un pretesto per eliminare dalla Storia i propri avversari - l'Unione Sovietica, naturalmente - e tutti i movimenti antagonisti del Novecento. Gli eventi prendono subito strade impreviste, da cui gli architetti dell'operazione sono ben presto esclusi, e ci si ritrova catapultati in uno scenario inedito comprendente un David Bowie che, all'epoca di Ziggy Stardust, si ritrova ossessionato dal comunismo cubano. Proprio nel campo dell'immaginario pop si gioca una delle partite più significative del romanzo. La trama è avvincente, lo stile di Riccardo Pedrini è asciutto e affilato. Un romanzo che si proietta con agilità nel presente, in questo momento più che mai.


AURELIO PASINI **

Una trama avvincente, inizialmente un po' contorta ma che ben presto inchioda alla lettura. Atmosfere che oscillano tra la fantascienza, lo spionaggio e la fantapolitica, rese con uno stile abbastanza efficace. Insomma, ce n'è abbastanza per promuovere a pieni voti questa prima uscita in solitaria della "cellula" numero 5 del progetto Wu Ming. Anzi, per meglio dire, la seconda, visto che Riccardo Pedrini aveva già pubblicato con il suo vero nome un romanzo lo scorso anno (Libera Baku Ora, Derive Approdi). Certo, la trama in sé non è delle più originali, visto il numero di pagine che sono già state scritte sui viaggi nel tempo allo scopo di cambiare il passato e sui relativi annessi e connessi. La bravura dell'autore sta quindi nel rendere appetibile, e non poco, un romanzo potenzialmente prevedibile. Devo confessare che fino ad ora il progetto Luther Blissett/Wu Ming non mi aveva convinto più di tanto. Forse è ora di cambiare idea.


JACOPO BAROZZI **

Devo ammettere che Q rimane il capolavoro narrativo della storia Luther Blisset, vuoi perché mette insieme annotazioni - di più, ricostruzioni dettagliate - storiche con un senso dellpavvetura e una riflessione sulla storia e sulla lotta, in generale, straordinarie, vuoi perché scorre con una godibilità di lettura eccezionale. L'assolo narrativo di Pedrini, dopo la parziale metamorfosi LB/WM, è invece meno denso, più monodimensionale, nonostante le idee interessanti e la visione della realtà come di un puzzle di percezioni separate, tutte incredibilmente vere e false nello stesso tempo. Nella apoteosi politica della star David Bowie e nella vicenda dei viaggiatori del tempo qualcosa si inceppa e prende la via del genere, del pulp o del feuilleton, senza mescolare le carte in maniera del tutto convincente. E' chiaro che Havana Glam resta una delle prove romanzate migliori dell'anno in corso, ma è altrettanto chiaro che il percorso di queste nuove creature si può affinare ancora meglio. Buono ma non sconvolgente.