Quasi/giap - No teneis huevos a contestarme - 5 luglio 2003


0- Preambolo
1- Letteratura "al maschile" e mitopoiesi al femminile: prosegue la discussione
2- La questione della selezione dei testi e della libertà d'espressione - botta & risposta Soriani-WM1
2b- A mò di esempio, un pacco fetido in arrivo dalla Spagna [risponde WM1]
3- Sulla distinzione tra narrativa e saggistica in "Nandropausa" [risponde WM1]
4- Obsolescenza o attualità della parola "compagno"? [rispondono WM1 e WM2]
5- Una domanda sul punk dopo la presentazione a La Colonia di Mendrisio, CH [risponde WM5]
6- "La ballata del Corazza" e la letteratura aperta [risponde WM2]



0------------------------


Pubblichiamo in questo quasi/Giap una gran mole di materiale del genere "botta e risposta" (ma non solo: la discussione su maschile/femminile prescinde ormai totalmente da nostri ulteriori input, che comunque non mancheranno). Ricordiamo che "quasi/Giap" è la definizione che usiamo per i nn. di Giap che non includono nostro materiale nuovo, fatta eccezione per le risposte ai giapsters).
Il nuovo numero della newsletter, l'ultimo prima della pausa estiva, verrà spedito a metà luglio.
Anticipazioni sul probabile indice:
- Speciale sull'impatto ambientale della carta e sulla lotta perché in editoria si utilizzi carta ecosostenibile o carta riciclata al 100% a impatto nullo. Abbiamo aderito con entusiasmo all'appello e alla campagna di Greenpeace, a cui parteciperemo attivamente nei mesi che verranno. Nel Regno Unito e nel Commonwealth i nostri libri sono già pubblicati su carta ecosostenibile ("Papers used by Random House are natural, recyclable products made from wood grown in sustainable forests. The manifacturing process conform to the environmental regulations of the country of origin") e il nostro agente Heriberto Cienfuegos ha già ottenuto che alcuni libri (es. Julia Butterfly Hill, Ognuno può fare la differenza. Consigli
pratici e storie esemplari per difendere l'ambiente, Corbaccio 2002) fossero stampati su "carta riciclata e disinchiostrata al 100 per cento. Maceri e scarti di lavorazione vengono riutilizzati per la produzione di nuova carta. L'impatto ambientale è reso nullo da un impianto di depurazione delle acque a ciclo chiuso. Le acque a loro volta vengono depurate e riciclate per ridurre il prelievo idrico").
- Lawrence d'Arabia e la guerriglia contro il copyright
- Cos'e' rimasto di zapatista nella retorica e nelle scelte del ceto politico "di movimento" in Italia? A nostro parere, poco e un cazzo.
- News varie, segnalazione e calendario delle nostre presentazioni e iniziative pubbliche durante l'estate


1------------------------

[Le puntate precedenti di questo dibattito sono sparse nei vari Giap e quasi/Giap dei primi sei mesi del 2003:]

<<[Sulla mitopoiesi al femminile] mi sembra interessante chiedersi: chi scrive adesso? Intendo, chi scrive storie usando un corpo di femmina, all'interno dei movimenti? Che cosa scrive? Chi la legge? Forse chi scrive è sempre maschio, anche quando si tratta di una donna; ma un maschio, quando vive in un corpo di donna ed è un po' sovrastato dalla femmina che ci vive insieme lui, fa e dice cose diverse.
Mi sembra utile scendere nel dettaglio di che cosa sono non in generale, ma nello specifico i vecchi modelli misurauccello di cui parla WM4, per capire se poi la capacità e la passione di scrivere belle storie viene coltivata o ammazzata nelle donne, e quale perdita ciò rappresenti.
Chiedo: nel mare immenso delle pubblicazioni di ogni genere numero e qualità, ci sono delle donne del movimento che scrivono storie e pubblicano, insomma vengono a loro volta lette? Perché , per esempio, fra i Wu Ming non c'e' una donna? (Senz'altro ve lo siete già chiesti e ho perso il colpo).>>
Silvia, 19/06/2003

[WM1:]
E' del tutto casuale. Alla riunione del Luther Blissett Project in cui si propose di scrivere un romanzo, in quella serata dell'autunno 1995 in via Paradiso a Bologna, c'erano svariate compagne (il LBP, in alcuni suoi ambiti, era a predominanza femminile) ma nessuna di loro si mostrò interessata all'impresa. Alzammo le mani in quattro, e il resto è storia, ehm... :-)
Io però non mi capacito del perché queste domande non siano mai fatte a nessuna band musicale di soli uomini, punk o pop che sia, jazz o electronica, metal o neogothic etc. Perché solo a questa particolare band [di scrittori]. Mi chiedo come mai questa domanda sia rivolta soltanto a noi, centinaia di volte l'anno, e non ai Marlene Kuntz, alla Banda Bassotti, a The Gang, ai Deep Purple, alla PFM... Come mai nessuno la rivolse mai agli Area, agli Stormy Six etc...

<<Hai ragione, quindi è un onore che a voi lo si possa chiedere. Ti racconto quest'episodio. Mi trovavo in una taverna con nove uomini a me sconosciuti, tutti scrittori o editori, soprattutto editori alternativi. Non so come, si è finiti a parlare di rapporti di potere e fertilità artistica (io penso che c'entri con quella demografica). Ho osato dire una cosa banale del tipo che quando la relazione fra il maschile e il femminile è cristallizzata, come per esempio in un rapporto di dominazione, evidentemente non esce fuori niente di vitale né dagli uni né dalle altre: orco, sembrava che avessi usato il napalm sui loro rispettivi membri virili! Questi discorsi femministi (?) hanno fatto il loro tempo, casomai ora è l'uomo a essere sfruttato dalla donna, le donne hanno voluto tanto e ora se ne pentono, hanno perso la femminilità, io lavo sempre i piatti e palle varie.
E' finita, pensa un po' , che, a dimostrazione della falsità delle mie tesi, mi hanno fatto notare che parlavo come un uomo, facevo un mestiere da uomo e - horribilis! - scrivevo come un uomo. E non avevo figli!
Per questo dico a mio avviso è un onore che vi rivolgano questa domanda, e io ultima in fila, e che voi rispondiate dopo averci pensato.
Quanto alle band musicali, lo sai, a chiederglielo sul serio, a pensarci insomma, si rischia di entrare in discorsi spinosissimi su creatore e creatura, sulla naturalità della natura, sesso e genere e compagnia. Però si potrebbe fare la prova...>>
Silvia, 19/06/2003

***

<<...penso che in realtà l'antropologia possa dare non certo risposte univoche a questa "discussione" ma spunti di riflessione, non essendo io tra l'altro convinta che la nostra società sia in realtà più dinamica e soprattutto più complessa di altre, come ad esempio quella africana. Vi vorrei quindi brevemente raccontare una cerimonia che interessa alcune aree di cultura cosidetta yoruba e coinvolge proprio il complesso e conflittuale rapporto maschile e femminile. La cerimonia è legata ad alcune maschere, chiamate Gelede, che escono per danzare e cantare gli avvenimenti più significativi che colpiscono la comunità (da piccoli scandali amorosi a problemi politici). Tali maschere in legno sono portate solo dagli uomini, anche se le Gelede sono donne e le forme femminili, il seno e un sedere enorme, sono enfatizzate nel costume, così come nelle movenze del danzatore, che è completamente nascosto, non potendo lasciare scoperte neppure le mani! Le Gelede sono delle divinità, la cui origine è complessa, affascinante e controversa ... ma non vi tedierò su questo aspetto; ciò che è importante è che loro danzano in onore della Grande Madre (Iyanla) una divinità delle origini, molto importante nel pantheon yoruba, come in gran parte dell'Africa, che oltre a essere madre terra, dea della fertilità è la madre di tutte le streghe. Tutte le donne, per gli yoruba sono potenziali streghe, anche se non tutte ne sono consapevoli o decidono di potenziare le loro attitudini. Le donne sono streghe perché collegate tra di loro da un flusso di sangue e quindi di energia vitale, che esclude completamente gli uomini. Nelle canzoni che vengono cantate durante queste feste i riferimenti agli organi genitali femminili, come luoghi ignoti e pericolosi, come oscurità e mistero, che si contrappone all'evidenza dell'organo maschile, sono frequenti...
La donna fa paura, la donna conosce il segreto della vita, la donna nasconde il suo organo di riproduzione, la donna gioca con il sangue, la donna può uccidere.
Gli uomini danzano durante queste cerimonie, travestiti da donne, per placare l'ira della grande madre, per ritrovare un equilibrio che la loro società sbilancia continuamente nella vita quotidiana. Si tratta infatti di una società patrilineare e poligama, in cui la donna, formalmente, si trova in una posizione di inferiorità. Questo rituale viene interpretato come un segno della cattiva coscienza maschile, la consapevolezza di aver usurpato un ruolo, di aver creato una società sbilanciata che ha quindi bisogno di precisi momenti rituali per ristabilire gli equilibri e negoziare i significati che la regolano. La donna è potenziale fonte di disordine e caos, può interrompere lo scorrere delle generazioni... è pericolosa e quindi in una società che comunque sempre più soffre di una contemporaneità difficile e conflittuale, finisce nell'interstizio della marginalità, diventa sempre più strega e spesso a causa di ciò viene uccisa.
La presenza femminile all'origine del mondo yoruba è un punto problematico e controverso; come illustrano i miti e le leggende di fondazione le divinità femminile vengono spesso usurpate del loro ruolo e divinità femminili, nel corso della storia, vengono trasformate in eroi maschili.
Senza voler avvallare l'idea un'antica epoca di matriarcato, ipotesi che per quanto affascinante, non pare proprio avere riscontri storici, mi pare evidente che questo rituale testimoni come il conflitto maschile-femminile venga riconosciuto e come una società maschile, consapevole di essersi strutturata mettendo in disparte una componente fondamentale (e nel caso particolare, quella economicamete più efficiente), abbia "paura" e senta la necessità di essere "perdonata" almeno a livello rituale.
Come sostiene la Héritier (Maschile e femminile. Il pensiero della
differenza, Laterza 2000):
" La classificazione dicotomica, che troviamo in ogni
società, degli atteggiamenti, dei comportamenti, della qualità a seconda del sesso, rinvia, come l'esperienza etnologica mostra, a un linguaggio in categorie dualistiche più vaste, nel senso che vengono stabilite corrispondenze tra i rapporti maschio/femmina, destra/sinistra, alto/basso, caldo/freddo ecc....Questo linguaggio dualista è una delle componenti elementari di ogni sistema di rappresentazione, di ogni ideologia considerata come traduzione di rapporti di forza".
Il conflitto esiste, anche se oggi apparentemente sedato, perché le società lo prevedono, perché devono sostenersi, devono progredire e l'elemento di più facile analisi ed elaborazione è sicuramente la differenza e in particolare la dicotomia.
La donna non trova da noi uno spazio, perché siamo in una società profondamente e radicalmente maschile, e in ogni caso deve utilizzare un linguaggio, una struttura che non le sono particolarmente adatte, e quando ci riesce rischia di diventare un po' mostruosa ... per questo motivo, a volte, le discussioni sul ruolo femminile mi disturbano, perché questo affannarsi per "essere", "dimostrare", "farsi vedere" a tutti i costi, mi sembrano ancora una volta una violenza... Viviamo in una società che non è stata creata a partire da un immaginario femminile e in cui anche gli spazi rituali di riappropriazione della società sono stati cancellati da secoli .... Non so che si possa fare ... Sicuramente siamo in una società inadatta per noi e per tantissime altre categorie umane, maschili e femminili ... per cui forse è meglio spostare il problema a un livello più ampio e meno differenziato... E se non riusciremo a comandare, tanto meglio, non è questa la società in cui vorrei avere un ruolo istituzionale ... e ciò non significa non poter esprimere le proprie opinioni o non cercare di cambiare la realtà ... non mi sento in conflitto con gli uomini, mi sento oppressa da una società antica ma a differenza delle società "primitive" ha perso la capacità, appunto, di raccontare e inventare storie, di vivere i rituali e capirne il significato sociale e il riscontro psicologico individuale!!!>>
Alessandra, 19/06/2003


***

<<Forse non si tratta di reinventare un Ulisse al femminile, ma occorre elaborare la figura di Penelope nella giusta ottica o se volete in un'ottica diversa.
Mi sento proprio di consigliare a Monica la lettura di ...Lo qual dovea
Penelopée far lieta.. di Liliana Ferro, ed. Tracce (che fra i riferimenti bibliografici più diretti ha proprio Christa Wolf) vincitore lo scorso anno del premio de "Il Paese delle donne".
Io ho scoperto una Penelope che non avrei mai immaginato.
Ho scoperto quanto siamo legati ad una tradizione subdola che ci impone delle scelte e dei percorsi logici che a lungo andare si concretizzano in comporrtamenti e attegiamenti che finiscono con l'essere abitudinari...inconscimante abitudinari...
Mi trovo pienamente d'accordo con WM4. Per ora non ci sono risposte, ma solo perplessità. Di qui la persistente necessità di un grosso svecchiamento tendente ad una "femminilizzazione". ...Forse questa definizione lascia parecchio a desiderare in quanto facilemte soggetta a incomprensioni e confusioni...Quello che intendo dire, e spero di non dire banalità visto che mi addentro in un campo che stenterei a pensare di definire mio.... è che la necessità di un cambiamento di approcci e prospettive dovrebbe avere come punto di partenza una sorta di biodiversità emotivo-sessuale. Per certe cose uomini e donne sono e non possono che essere uguali perché sono "animali della stessa specie e cresciuti nello stesso habitat naturale e socio-culturale", per altro verso non possono che essere diversi ..ed è fondamentale che sia così.
E' quindi anche necessario scrollarsi dinamiche relazionali che rimangono ancorate a quelle "subdole tradizioni abitudinarie" in qualche modo imposte a cui prima mi riferivo e che il libro sopra citato riesce a scrollarsi in maniera a mio giudizio lodevole.
Di qui allora anche una nuova prospettiva del dualismo Ulisse/Penelope che non risulta più poco stimolante e ciò perché può essere letto e raccontato con un linguaggio diverso rispetto a quello abituale; perché è la stessa storia alla base di quel dualismo che arriva quasi a mostrarsi come nuova.
In sintesi questa dicotomia può non essere più a senso unico ma può trasformarsi in una corrispondenza biunivoca certamente conflittuale ma senz'altro costruttiva.>>
Emiliano, 01/07/2003


2------------------------

[Con riferimento al dibattito sul perché gestiamo un'e-zine con "filtro" redazionale anziché una lista non moderata:]

<< Nel vs. ultimo notiziario parlate di filtri.
La necessità di filtrare, una necessità biologica che introduce di fatto la necessità del potere di selezione dei messaggi. Se non si fa così, la comunità muore. A suffragio: il sapere eto-antropologico e l'intera storia del genere umano.
Eppure nel sito di Contropotere esiste una piazza in cui i messaggi non
sono filtrati; si trova intorno a un fatto, a una posizione, a un tema, tutto e il contrario di tutto: sigaretta sì, sigaretta no, sigaretta di quando in quando, sigarette per tutti ma non in faccia o anche in faccia.
Un altro es., relativo al nesso anarchismo e religione: dio no assolutamente, dio no relativamente, dio sì purché non autoritario e sessista, dio abbastanza, dio-non-lo-so.
Idem per l'ultimo referendum: un cozzare di posizioni per il sì, per il no reciso, per il sì sofferto, per il sì goduto, per l'astensione con cipiglio, per l'astensione con rabbia, per tutto quello che si vuole.
Ciò che mi preme mettere in rilievo è questo: il caso specifico dimostra che può esistere un fenomeno virtuale senza filtri. è un fenomeno vivo e vegeto.
Rispetto poi al nesso fra filtro e bontà comune contrapposta alla diffusa cattiveria dei singoli, beh, forse occorrerebbe approfondire.
A parte la critica, penso che la vs. rimanga comunque una magnifica agorà democratica, una delle poche esistenti e per questo oltre a salutarvi vi ringrazio delle vs iniziative.>>
Sergio, 20/06/2003

[WM1:]
Il "beato cazzeggio" va benissimo, ma ti invito a farti un giro sul newswire di Indymedia Italia, di passarci anche solo una mezz'oretta e capirai di cosa stiamo parlando. Parliamo di provocatori, di "trolls", di tentativi coscienti di devastare la comunicazione, di divulgazioni di particolari della vita privata degli "avversari", di spammers fascisti o stalinisti etc., tutta gente che costringe il collettivo degli admin [per i quali ho il massimo rispetto, pur non condividendo diverse scelte] ad assurdi tours de force, al vaglio di ciascun messaggio per vedere se rispetta la policy redazionale, e nel caso "occultarlo". Gli stessi problemi che avremmo noi senza il "filtro" dell'attività redazionale. E' un problema che tutti gli Indymedia del mondo si stanno ponendo, pena il decesso di un medium importantissimo. Indymedia.org (quello "globale") ha nascosto la colonna di destra, quella dell'open publishing, vale a dire che quest'ultima non è più nella homepage, ci vuole un click in più per accedervi. Poiché i provocatori sono indolenti, questo è bastato a rialzare la qualità della comunicazione. Indymedia Madrid e Indymedia France hanno introdotto il sistema dei "punteggi": gli utenti possono registrarsi, cioe' assumersi la responsabilità di uscire dall'anonimato, e acquisiscono la facoltà di "votare" la qualità dei post (non il loro contenuto ideologico, semplicemente l'utilità per la discussione). I post con la media più alta restano in cima alla colonna destra della home page; quelli con la media più bassa non scompaiono né vengono rimossi semplicemente finiscono nelle pagine successive, e per accedervi c'e' bisogno di quel click in più. Alcuni anarchici hanno reagito parlando - a sproposito - di "censura", ma è innegabile che Indymedia Madrid sia uno strumento più utile e credibile di altri Indymedia, strumenti ormai completamente sputtanati e alla deriva, perché vi prevale ancora l'idea che la comunicazione senza filtri sia automaticamente migliore di quella con, per via del paralogismo a cui accennavo: l'essere umano è buono, tutto ciò che c'e' di cattivo in lui è frutto della repressione, quindi se gli lasciamo dire tutto ciò che gli passa per la testa ne viene fuori una comunicazione "buona".
L'esempio delle telefonate di Radio Radicale aveva già dimostrato vent'anni fa che sommergere un messaggio sensato nel marasma di centinaia di persone che si sbraitano contro a colpi di "Terroni di merda" e "Tua mamma fa i bocchini ai cani" non è esattamente una buona idea di comunicazione, perché quel messaggio non sorpasserà la soglia del rumore, e nessuno avrà voglia di nuotare nel vomito per andare a ripescarlo. Si possono usare mille sofismi, proseguire all'infinito con disquisizioni sganciate dall'esperienza pratica, ma quest'ultima s'incarica di far crollare i castelli in aria. Senza lo sbattimento costante, senza la fatica delle relazioni, senza gli sforzi comuni, quindi anche senza quelli che abbiamo chiamato i "filtri", NON esiste buona comunicazione. Nelle migliori delle ipotesi esistono lo svacco e il "beato cazzeggio", nella peggiore dilaga l'infamia.Mettiamo che Giap sia un pacco-dono che chi si iscrive riceve ogni due settimane, contenente un buon libro. L'allegoria funziona? Bene, cambiamola: immaginiamo che Giap sia un sacco pieno di vomito, bile, merde di cane e sborre di diversi animali; in fondo a tutto quel liquame c'e' un buon libro. Chi avrà voglia di ficcare le mani nel sacco per prenderlo? Te lo dico io: nessuno. Ecco, l'open publishing astratto e ideologico equivale a
recapitare a casa della gente siffatti involucri. C'e' una minoranza di persone a cui piace. Bene, possono senz'altro rivolgersi altrove. Noi funzioniamo in un'altra maniera.

<< Ho ricevuto le tue missive elettroniche e le ho lette con attenzione. Te ne ringrazio davvero. Se ho cercato di introdurre una critica circa i filtri delle comunicazione non è per libido rixandi né per distogliere te e gli altri WM dall'impresa, impegnativa e utile, che state sostenendo e che nel mio piccolo a mia volta appoggio, sia pure con spirito critico.
Se critico i filtri è perché lo giudico il problema politico, sociale, culturale per eccellenza. Trattarlo estesamente non posso per rispetto del tuo tempo e delle tue energie , oltretutto tu conosci certo meglio di me tutto ciò che ha scritto per es. Foucault sul nesso tra potere e discorso; e poi occorrerebbe tirare in ballo l'intera storia della cultura occidentale: dietro agisce il problema - mai risolto e temo irresolubile - del nesso tra linguaggio e realtà. Mi limito quindi a schematizzare alcuni nodi per me essenziali che cosnidero un primo passo del tutto parziale a un'impostazione del tema.
a) Le condizioni di esistenza della comunicazione: una è senza dubbio la selezione, ma l'altra è l'ibridazione. Selezione e ibridazione tendono a escludersi eppure sono entrambe necessarie; polarizzarsi sull'una e sull'altra secondo me non si può, occorre metterle in tensione continua; filtri dinamici, verrebbe da dire, ma è più facile appunto a dirsi che a farsi.
b) Umori, effusioni, sentimenti convulsi, rumori, perversioni sessuali non sono materiali discorsivi di per sé , d'accordo ma sono delle realtà in atto; se vengono escluse o filtrate da un discorso, queste realtà tendono ad associarsi a discorsi che fingono di valorizzarle; diventano realtà politiche utilizzabili. E sappiamo che storicamente le destre sono maestre in questa manipolazione;
c) La fisica contemporanea parla chiaro: i sistemi tendono al disordine. ora, se non si conosce la fisica si può credere ancora in una razionalità capace di controllare attraverso il linguaggio anche gli eventi; se però la si conosce, e tu e io la conosciamo, non possiamo esimerci dall'interrogarci sull'efficienza degli strumenti di controllo linguistico: potrebbero servire a costruire discorsi perfettamente coerenti allo scopo comunicativo a fronte di sistemi concreti totalmente caotici;
d) Sempre la fisica contemporanea insegna che lo strumento non è mai neutrale; ma è parte integrante del processo di conoscenza dei fenomeni; allora il filtro non può essere collocato sul piano pragmatico né su quello dei metodi; è da disporre sul piano delle visioni del mondo; il filtro non è una questione tecnica, è una questione ideologica, semplicemente perché la tecnica impone di fatto un'idelogia;
e) Come elemento per sparigliare ancora di più le carte, ti cito il precipitato di una conversazione avuta con un esperto di modelli di simulazione informatica del comportamento umano. questi dice che i modelli hanno portato a questa conclusione:
1. il comportamento umano è previdbile al massimo al 60% per cento;
2. quello animale è prevedibile fino al 90%;
La conclusione, mi pare, non lascia tranquillo nessuno, né chi detiene il potere né chi si oppone.
Con questo ti saluto cordialmente, ringraziandoti ancora per il dialogo e augurandoti un cammino propizio.>>
Sergio, 22/06/2003

[WM1:]
Sono d'accordo coi tuoi punti numerati. Quanto a Foucault l'ho richiamato anch'io senza menzionarlo, quando ho detto che il problema non è soltanto la repressione. Di certo noi non tendiamo al "controllo linguistico" né a escludere le pulsioni, credo che Giap sia fatto di pulsioni, di ibridazione etc. Ciò che viene "filtrato" ed escluso è lo spreco di banda, il rumore puro, i tentativi di provocazione etc. Sono questi ultimi i problemi di Indymedia, ad esempio. Se si rimuove dal campo il problema della selezione, non è possibile nemmeno l'ibridazione. A questo punto parlerei di selezione/ibridazione. I processi di ibridazione non partono dall'indifferenziato, dallo svacco, dalla pura dissipazione di energia. L'ibridazione è conflitto, e ogni conflitto è almeno in parte regolato. L'ibridazione è regolata dai tentativi di selezione, che questi ottengano o meno i risultati che si erano preposti (e non altri del tutto imprevedibili).
Un esempio: il jazz (per molto tempo il principale veicolo della cultura afroamericana) nasce dall'incontro tra le musiche popolari e colte euro-mediterranee giunte in America (marce militari francesi, la chitarra portata in Europa dagli arabi, tempi irlandesi) e l'appropriazione di quelle musiche da parte di ex-schiavi memori di ritmi e scale africane. Ma (tralasciando il fatto che anche quelle musiche, a loro volta, erano nate da processi di selezione/ibridazione, e che a essere ibridate furono già delle sintesi, delle strategie discorsive strutturate) il jazz non sarebbe nato senza la schiavitù, non sarebbe nato se nelle piantagioni non fosse stato proibito l'uso di strumenti africani (costringendo gli schiavi ad adattare alla loro musica quelli europei), né se una data legge non avesse autorizzato la prostituzione nel quartiere di Storyville (New Orleans), né se una legge successiva non avesse tolto ai creoli (mulatti) i privilegi di cui godevano, ricacciandoli nei ghetti insieme ai "niggers", con la loro educazione - anche musicale - raffinata. Se vogliamo spostarci più avanti, probabilmente il bop non sarebbe nato senza la "cabaret tax" che rendeva gravoso ingaggiare big bands. Insomma, l'ibridazione nasce dalla selezione, che questa sia intenzionale o no.
Su Indymedia credo non vi sia ibridazione, perché non vi è nulla che diriga o cerchi di dirigere il flusso informativo in una qualsiasi direzione che non sia quella dello svacco (del cazzeggio compulsivo, per niente "beato"). Rimane tutto stagnante.

2b------------------------

[un esempio dei "sacchetti di liquami" che riceviamo e di solito cerchiamo di non inoltrarvi:]

<<Sois unos mierdas. Sé que no teneis huevos a contestarme, pero me encantaría que me dijerais cómo puede ser que con vuestra idea del copyleft no tengais a la libre dsiposición en internet el libro 54 en versión en español, a pesar que sí que existe la versión en español de e'ste libro a la venta. Y es que como dijo Goethe "es dificil pensar, todavía lo es más actuar, pero actuar como se piensa sólo está al alcance de unos pocos" y por supuesto vosotros no sois los elejidos a pesar de que os llenais la boca con palabras. Adéu.>>, socia79@hotmail.com, 03/07/2003
[traduzione: Siete delle merde. So che non avete i coglioni per rispondermi, ma mi piacerebbe saepre come mai, nonostante le vostre idee sul copyleft, non rendete disponibile su Internet il libro 54 in spagnolo, anche se questa versione è già in vendita. E' come dice Goethe: "Pensare è difficile, agire è più difficile ancora, ma agire in base a ciò che si è pensato è alla portata di pochi.", e sicuramente voi non siete tra quegli eletti, anche se vi riempite la bocca di parole. Addio.]


[Traduzione in italiano della risposta di WM1:]
Come tutti i nostri romanzi, 54 (completo e gratuito) è disponibile sul nostro sito, wumingfoundation.com, non sul sito promozionale della Mondadori, wuming54.com. Quest'ultimo non è un sito esaustivo e soprattutto non è il nostro sito. Comunque, su wuming54.com c'e' un link diretto a wumingfoundation.com, ed è risaputo che i libri scaricabili sono là, dove sono sempre stati.
Goethe penserebbe che sei un povero coglione.


3------------------------

<<Anche se di saggi ne ho piene le palle visto che a giorni prenderò il pezzo di carta, non vedo perché escluderli a priori da Nandropausa. (che poi non è vero, perché mi ci mettete il libro di Sbancor!).
Qualche tempo fa ero alla presentazione di un libro che parlava di Faustino Sandri, incastrato dall'OVRA per un presunto attentato contro Mussolini (mi pare). L'autore, molto giovane, ha condotto un'accurata e direi maniacale ricerca storica presso l'archivio di stato, rendendo poi le sue scoperte sotto forma di racconto [*]. La cosa, anche se non ho letto il libro (il prezzo è selettivo, 18 EUR, struzzi einaudi), era interessante e gli ho chiesto cosa ne pensasse di queste mescolanze di generi, giudici che scrivono noir, romanzieri che si occupano di storia e così via. Mi ha risposto che la sua era prima di tutto una ricerca storica, e la forma narrativa serviva a dare una forma divulgativa, più incisiva, ma sempre nell'estremo rispetto dei fatti occorsi.
Un po' ci sono rimasto deluso, la differenza per me non è tanto tra romanzo e saggio, ma tra un romanzo e un saggio (e quant'altro) "fatti bene" e un romanzo e un saggio "fatti male". Poi ho pensato che fare finta che le cose siano separate (saggistica e narrativa) può essere un espediente tacito che serve a mescolarle meglio e, alla fine, a scrivere un romanzo (o un saggio) "fatto bene". Vacci a capire.>>
C., 23/06/2003

[WM1:]
E' solo un problema funzionale (dobbiamo in qualche modo circoscrivere), di comodità (essendo prevalentemente autori di romanzi e racconti, le case editrici ci spediscono romanzi e raccolte di racconti) e di nostra predilezione per la narrativa, che però non è un campo recintato, è una polarità verso cui un libro può muoversi o dalla quale può
allontanarsi. Scriviamo narrativa-e-dintorni perché ci mettiamo anche le biografie, le non-fiction novels, la docufiction come quella di Sbancor. Ma se ci mettessimo Cacciari, o Le'vinas, o De Felice, ci muoveremmo in una direzione diversa, a noi poco congeniale.
Quello di Sbancor non è un saggio, è un non-romanzo, o un quasi-romanzo vale a dire che l'intenzione era di fare un romanzo. Che poi il risultato sia diverso, è un altro paio di maniche.

(*)Lorenzo Verdolini, La trama segreta. Il caso Sandri fra terrorismo e polizia politica fascista, Einaudi, 322 p. EUR 18


4------------------------

<<Volevo porvi una questione che sta accendendo forti contrasti con alcuni amici; non vi voglio affidare un ruolo da voce divina che conosce e tutto sa ma mi interesserebbe il vostro giudizio in quanto mi sembrate molto aperti a questioni così attuali, tutto qui. La contesa riguarda i termini "comunismo", "compagno" e simili discendenti dalla credenza politica sopra indicata.
Attualmente mi sembrano superati e obsoleti in quanto oggi, soprattutto in Europa non abbiamo paesi a socialismo reale, questo non è (credo e spero) negli obbiettivi del movimento dei movimenti e i vari partiti comunisti europei stanno consumando una lenta ma difficilmente sanabile agonia.
Fuori dall'Europa nonostante alcuni tentativi di dubbia autenticità (la Cina comunista non ha più un'economia di piano e non ho trovato molto sull'economia cubana, magari voi potreste darmi delucidazioni sull'argomento) mi sembra che la crisi si sia rapidamente diffusa ai margini del sistema mondo.
Vi ringrazio per l'attenzione e mi scuso per la brevità e per la bassa competenza.>>
Gau, 29/06/2003


[WM1:]
Tra loro si chiamano "compagni" anche gli anarchici, i socialisti, i socialdemocratici e un sacco di altra gente (persino quelli del Partito Radicale!). In questa accezione, il termine si diffuse ben prima della Rivoluzione d'Ottobre. E' una parola molto bella, che rimanda alla condivisione di un'esperienza, letteralmente significa "che mangia lo stesso pane" (cum panis). Detto questo, non vi è certo necessità vitale né obbligo di usare la parola, ma tieni conto che a noi italiani è andata di culo: in molte altre lingue al posto di "compagno" si dice "camerata" (comrade, camarade, camarada etc.), mentre qui da noi - giustamente, essendo di origine militaresca e ricordando subito un "intruppamento" - è parola associata al fascismo.
Quanto al comunismo, c'entra poco e niente con il "socialismo reale". Quei paesi non si sono nemmeno mai definiti "comunisti". Si sono sempre definiti "socialisti". Nella teoria marxista (anche nella visione storpiata e avvilita colà vigente) il socialismo era una tappa intermedia sul cammino che avrebbe portato alla società senza classi.
Il comunismo, semanticamente e filosoficamente, non solo va oltre l'infausta esperienza sovieto-cinese, ma anche oltre il marxismo stesso, dato che il comunismo è anche il fine ultimo dell'anarchismo (o della maggior parte delle sue correnti storiche) e viceversa. Sì, "viceversa", perché il movimento al comunismo ha sempre avuto tra i suoi fini l'estinzione dello stato. Ciò dovrebbe far capire la differenza col socialismo (in qualunque sua versione), sistema tipico di una fase in cui c'e' ancora bisogno di socializzare tramite lo stato.
La parola "Anarchia" pone l'accento sulle forme di governo, la parola "comunismo" sulla messa in comune delle risorse e dei beni, ma sono entrambi fini ultimi di tutte le correnti partite dalla Congiura degli Eguali di Gracchus Babeuf (1795), confluite nella Prima Internazionale (anni '60 del XIX° secolo), separatesi nel corso dei sessant'anni successivi e andate incontro a mutazioni e contaminazioni per tutto il XX° secolo (finché alcune distanze sono diventate incolmabili: da una parte il Black Bloc, dall'altra Tony Blair).
Il comunismo è anche l'assetto socio-economico delle società primitive, ed è un esperimento utopico tentato più volte da un sacco di gente (anabattisti, comunità utopiche, hippies etc.). Parlando delle comunità utopiche negli USA del XIX° secolo, Ronald Creagh scrive:
"Le associazioni comuniste di questo periodo, lungi dal costituire un blocco monolitico, uno schema unico, moltiplicano all'infinito le ortodossie e le eresie. Non abbiamo quindi incontrato il comunismo ideale ma dei comunismi, delle microstrutture multiformi che sono altrettanti
sradicamenti e forse per questo sono stati chiamati 'utopie' ".
Se consulti lo Zingarelli, il primo significato della parola è : "Concezione, movimento o sistema che tende a realizzare l'eguaglianza sociale attraverso la totale condivisione delle risorse e dei beni".
Anche in questo caso, come per "compagno", non è indispensabile usare la parola. Ma la sostanza rimane quella. E' movimento al comunismo la critica pratica al copyright e alla proprietà intellettuale, è movimento al comunismo l'allargamento delle reti sociali etc. etc.

[WM2:]
Qualche mese fa, lungo via Zamboni, un tizio con un pacco di giornali sotto braccio, ferma mia madre e le fa: "Compagna, compri Lotta Comunista?". Lei lo guarda, gli sorride, risponde: "No, grazie. Ma lo sai che ho sessantacinque anni e sei la prima persona che mi chiama 'compagna' in tutta la mia vita?". E il tipo, pronto: "Non è mai troppo tardi..."
Anch'io la prima volta ci sono rimasto un po' stranito. Parlo in un'assemblea e il tipo dopo di me fa riferimento a quel che ho appena detto: "Come diceva il compagno, poco fa....". Insomma, mi è venuto pure un po' da ridere, lo ammetto. Però rispetto a "Come diceva il tipo, lì..." oppure "Come diceva lui, non so come si chiama, quello che ha appena parlato", beh, non è meglio?
Sempre mia madre, sempre via Zamboni. Un ragazzo le si avvicina: "Signora, compra Falce e Martello?". E mia madre, secca: "Come 'signora'? Sono troppo vecchia per chiamarmi 'compagna'?".
Per inciso, va detto che mia madre è di sinistra ma non certo 'compagna'.
Tempo fa, invece, ho visto a Ballarò un dibattito con D'Alema. Un ragazzo del pubblico, segretario della Sinistra Giovanile di un posto che non ricordo, chiede di fargli una domanda. "Senti, Massimo...". D'Alema inarca le sopracciglia. E l'altro: "Ti dò del tu perché siamo tra compagni..."
Insomma, c'e' un po' di tutto, dentro 'sta parola: una tradizione di lotte e un non so che di ridicolo, un sapore antiquato e un'utilità per il presente...
Come diciamo spesso per i miti, anche la parola "compagno" dovrebbe essere giocata in nuovi contesti, forzata, riscoperta, rimaneggiata, per evitare che si indurisca, vada in frantumi e non ne rimanga che un pugno di polvere.
A giudicare dagli esempi di qui sopra, sarebbe un vero peccato.


5------------------------


<<Ho partecipato alla conferenza/dibattito che si è svolta lo scorso venerdì [27 giugno, NdR] a "La Colonia" di Mendrisio. Purtroppo sono dovuta andare via prima della conclusione... Sul più bello (domande/risposte e fuoriprogramma)! Quindi scrivo la mia domanda.
Sono nata nei primi annì70, quindi tutto ciò che so sul movimento punk è per sentito dire/raccontare, letto/visto su media e libri (chi si dimentica Sid Vicious coperto di sangue?).
Vorrei sapere come, quando e per quale ragione hai deciso di combattere il sistema in modo completamente diverso e più interessante? Più condividibile? Meno pericoloso (sto pensando all'autodistruzione...)? E' stata una decisione presa all'improvviso, un mattino davanti allo specchio oppure è stata un'evoluzione/ribellione ragionata durata mesi/anni... Cosa ha fatto scattare la molla? Questo cambiamento lo consideri un "uniformarsi" al sistema (penso alle case editrici)? In teoria, combattere dall'interno un sistema con i mezzi offerti dallo stesso sembra dare buoni risultati...>>
Donatella, 02/07/2003

[WM5:]
Il punk italiano di quegli anni (1980-1984) era molto influenzato da una corrente anarcopacifista che faceva riferimento a un gruppo inglese, i Crass, fortemente politicizzato, dedito all'autoproduzione, in generale molto "avanti" rispetto ai tempi. In più, i cascami del decennio precedente precipitavano per formare un immaginario combattentistico che ha poco a che fare con l'immagine autodistruttiva, decadente, tutta interna al fenomeno complessivo del divismo -o antidivismo- da perdente del rock'n'roll che la figura di Sid Vicious evoca così bene. Così, fin dall'inizio, il punk italiano ha avuto una vocazione per così dire "politica". Nel corso degli annì80 è stato una polarità antagonista in cui si sono elaborati modi e pratiche - dall'autoproduzione all'occupazione e autogestione- che si sono poi diffuse a macchia d'olio nel paese nel decennio seguente. Il lavoro che faccio ora è stato preparato anche dalle esperienze di allora. In particolare quello che è rimasto, all'interno del collettivo di cui faccio parte, è la tendenza all'orizzontalità e all'abbattimento delle barriere tra "artista" e "pubblico". La dimensione comunitaria del punk di allora la trovo, in una dimensione incommensurabilmente più ampia, negli esperimenti e nei movimenti in corso oggi. Considero il mio ruolo attuale niente più di una "estensione" e di un "potenziamento" del ruolo di allora.


6------------------------

<<Alcune riflessioni con pretesto "La ballata del Corazza".
La presentazione del progetto corazza inizia assumendo come un fatto scontato che in una storia codice sorgente e versione eseguibile coincidano.("In un racconto scritto, questa distinzione è abbastanza superflua. Il codice sorgente e il modo in cui il 'programma' si presenta all'utente coincidono in quasi tutti gli aspetti").
Secondo me codice sorgente e versione eseguibile di una storia non coincidono quasi mai.
E tra l'altro a differenza di un programma dove il codice sorgente è esplicito (ovvero esiste nella forma di codice di programmazione, anche se non visibile e modificabile dall'utente a parte i programmi open source appunto), nel caso di un racconto, romanzo, poesia etc. il codice sorgente
è implicito e se si esplicita lo fa in forme e modi che raramente raggiungono la comunità dei lettori.
mmmm...dubbi.
Ma stiamo parlando della stessa cosa?
Voglio dire, assumendo come utile e fertile questa metafora del codice sorgente, open source etc. che cosa è per voi il codice sorgente di un racconto o più in generale di uno scritto (poesia, saggio romanzo, sceneggiatura, testo teatrale,etc.)?
E volendo ampliare la questione: cosa è il codice sorgente di un qualunque artefatto umano sia esso un romanzo, un quadro, un teorema matematico o una sonata per pianoforte ?
Domande retoriche, me ne rendo conto ora che le ho scritte, perché evidentemente, se il cervello non mi sta andando in pappa, la vostra risposta è contenuta nelle prime righe, già citate, della presentazione del "progetto corazza".
(Le riporto ancora un volta: "In un racconto scritto, questa distinzione è abbastanza superflua. Il codice sorgente e il modo in cui il 'programma' si presenta all'utente coincidono in quasi tutti gli aspetti").
Secondo me codice sorgente e racconto non coincidono perché codice sorgente è tutto ciò che attraversa, modifica informa gli stati di coscienza dell'autore/autori durante la scrittura, un flusso di parole, colori, funzioni, concetti, frasi, strutture, ritmi, musiche, moog, blog, impatti, derive...insomma tutto...
Talvolta questo flusso incontra momenti di condensazione (mappe cognitive, appunti, diagrammi , disegni, bozze, bibliografie, lettere.) ma anche quando questo esplicitarsi accade non raggiunge quasi mai la comunità dei lettori.
In questo senso si potrebbe arrivare a sostenere che il racconto in sé non è che una piccola parte sostanziata, esplicitata, operativa del codice sorgente. (operativa nel senso che "sta comunicando").
[In termini insiemistici il racconto è un piccolo insieme all'interno del più grande insieme del codice sorgente. Oppure un racconto è il risultato di più codici sorgente al lavoro nello stesso momento (quindi in questo caso i due insiemi, quello del codice sorgente e del racconto, si intreccerebbero).]
Mi sto perdendo...ma la direzione è quella giusta credo...
Interrogare questi nodi apre necessariamente la porta a questioni di filosofia cognitiva, linguistica, neurologia, psicologia e... insomma tutto ciò che ha a che fare con il funzionamento dell'intelligenza individuale e quindi dell'intelligenza collettiva.
Come funziona la mia testa o meglio io, la mia intelligenza individuale come totalita’ corpo-mente-ambiente in questo preciso istante scrivendo queste parole? E la vostra intelligenza collettiva Wu Ming mentre state leggendo e (spero) rispondendo a queste confuse righe?
Concludo, spossato date le grande difficoltà di scrittura e lasciando altre questioni al prossimo contatto.>>
Carlo, 03/07/2003


[WM2:]
Le questioni che sollevi sono molto interessanti, ma penso si debba risolvere, innanzitutto, la faccenda del "di che cosa stiamo parlando"?
Se tu definisci "codice sorgente" "tutto ciò che attraversa, modifica, informa gli stati di coscienza dell'autore/autori durante la scrittura, un flusso di parole, colori, funzioni, concetti, frasi, strutture, ritmi, musiche, moog, blog, impatti, derive...insomma tutto..." allora anche i programmi open source non sono davvero open source.
Mi spiego: perché questa definizione "poetica" di codice sorgente inteso come insieme di stimoli deve valere per l'arte e non per la programmazione?
Se questa è la definizione che ti sembra più azzeccata, allora anche un programmatore, quando scrive il codice-sorgente-strictu-sensu di un programma sta in realtà attingendo a sorgenti molto più vaste, che resteranno inaccessibili alla maggior parte dei fruitori del suo lavoro - per quanto "open source". C'e' sempre un po' di pregiudizio rispetto al lavoro dell'Artista. O no?
Credo che la cosa migliore sia distinguere i due concetti: da una parte, il codice sorgente in senso informatico, dall'altra, quella che chiamerei "sorgente" e basta, e che rappresenta quel 'tutto ciò' di cui si parlava all'inizio.
Chiarita questa differenza, l'assunto di partenza del nostro progetto rimane valido: mentre in un programma io ho a che fare con l'eseguibile e solo grazie a determinate procedure posso accedere al codice sorgente, in un romanzo questa dicotomia non esiste: l'eseguibile che sto leggendo è il codice sorgente. La "sorgente", invece, è più o meno inaccessibile in entrambi i casi.
Resta però la parte più intrigante del tuo "ragionare domandando": quella che riguarda il funzionamento dell'intelligenza collettiva/individuale.
Questioni di filosofia della mente, mica cazzi.
Io mi trovo piuttosto d'accordo con le tesi sostenute da Richard Dawkins ne Il gene egoista (Mondadori, Milano 1995) e da Daniel C. Dennett in Coscienza (Rizzoli, Milano 1993). Dawkins, nel 1976, ha introdotto il concetto di "meme", che definisce "unità di trasmissione culturale o unità di imitazione". In sostanza, concetti basilari che sono in grado di replicarsi con affidabilità - difficile tracciare confini, ma più o meno idee come tolleranza e Dio insieme con la Legge dell'Entropia Universale, la tarantella e gli scacchi.
Tra i memi, come tra i geni, esiste una selezione naturale e una lotta per la sopravvivenza. I memi hanno bisogno di un supporto materiale per vivere.
Quello che preferiscono è il cervello umano, perché più di ogni altro permette loro di diffondersi e moltiplicarsi (una sorta di habitat riproduttivo dove, purtroppo, non c'e' mai spazio per tutti). Le possibilità che un meme si impianti in un cervello dipendono da due fattori:
1) Le caratteristiche intrinseche del meme in quanto riproduttore
- ad esempio il meme FEDE, scoraggiando il giudizio critico, invalida una delle forze che potrebbe contribuire ad estinguerlo, ed è pertanto un ottimo riproduttore.
2) Le caratteristiche dei memi che già infettano quel
cervello.
Infatti - e questo è il punto - i cervelli SONO colonie di memi,
il giudizio critico di ciascun individuo dipende in modo essenziale dai memi che ospita. Forse la coscienza stessa - e dunque gli individui - SONO coacervi di memi, alcuni divenuti stanziali, altri in continua migrazione - e questa è , in soldoni, l'idea di Dennett, con conseguenze sull'idea di Io, Anima e Se', che forse pochi sono disposti ad accettare.
Per quanto ci riguarda, la conseguenza è che la mente individuale è un prodotto collettivo e che i suoi processi creativi SONO processi collettivi.
Per il momento, non mi dilungo oltre. Nel caso interessi, ci torneremo sopra.

------------------------

Iscritt* a Giap in data 4 luglio 2003: 3974
Tutti i numeri arretrati sono archiviati qui