ALTAI
Il nuovo romanzo di Wu Ming

Altai scaricabile; Sogno, visione e utopia; Il falco e la gallina

Written on 15/03/2010 – 4:50 pm by Wu Ming

SCARICA ALTAI. Sono trascorsi esattamente quattro mesi dall’uscita di Altai in libreria. Il romanzo naviga verso le 50.000 copie. Sono in corso trattative per i diritti di traduzione inglese e francese. Il tour di presentazioni prosegue più intenso che mai e si concluderà solo ai primi di giugno. Insomma, il motore ruggisce che è un piacere.
E noialtri che facciamo, riposiamo sugli allori? Col cazzo! Anzi, pigiamo sull’acceleratore. Infatti, a partire da oggi, Altai è scaricabile dal sito in diversi formati:
DOC, ODT, PDF e – novità – ePUB.
Tutto gratis, come ogni volta. Puoi scaricare e chi s’è visto s’è visto, ciao, non ci devi niente.
Se però pensi che questo sforzo di apertura, questa politica di copyleft che portiamo avanti da tanti anni, meriti una ricompensa, un incoraggiamento, un feedback, un… “controdono” da parte tua, puoi usare PayPal per mandarci qualche scellino. Così, per la nostra bella faccia. Basta cliccare sull’icona a destra.
Nota bene: può fare una donazione anche chi non ha una carta di credito, basta un conto corrente.

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SOGNO, VISIONE  E UTOPIA IN ALTAI. A volte si firma “Sandokan” ma è Luca Giudici l’autore di questa densa e suggestiva lettura di Altai. Allucinazioni, paesaggi onirici, profezia, utopia: la funzione di tutto questo in Altai e nella nostra opera. Riproduciamo l’inizio del testo:

«Altai è, come è noto, l’ultima fatica dell’autore collettivo noto come Wu Ming. Dell’opera si è già lungamente parlato e lo stesso blog che gli autori le dedicano è ampiamente esaustivo di tanti aspetti non direttamente affrontati nel testo. Questa mia nota vuole affrontare l’opera sotto la cifra interpretativa del sogno. Questo è da intendere sia nel suo significato puramente onirico, che in quello di desiderio, utopia. Vorrei mostrare che – sulla scia della lettura di Ernst Bloch, delle sue interpretazioni del fenomeno degli anabattisti e di Thomas Müntzer (l’ambiente di Q) e della sua speciale concezione dell’utopia – Wu Ming traccia un filo rosso tra il percorso di El Israel, il popolo eletto, ed il sogno come desiderio umano, che filtra da un inconscio, solo parzialmente nascosto da un velo trasparente di coscienza.
La cifra originaria, il motore di questo percorso carsico che percorre la storia delle dodici tribù di Beniamino attraverso la Storia maiuscola, è il sogno di Giuseppe.
La storia di Giuseppe, figlio di Giacobbe, e dei suoi fratelli, è narrata in Genesi 37 – 50, ed è una delle più feconde espressioni della potenza narrativa del testo biblico. E’ assolutamente nota, in tutte le sue parti, nonostante la lettura del testo riveli ai più dettagli che nella vulgata normalmente diffusa spesso sono rimasti in secondo piano.
Comunque non è l’esegesi biblica che interessa a Wu Ming, bensì il potenziale evocativo posseduto da questa narrazione nella storia del popolo d’Israele.»
Prosegue qui.

P.S.
A quasi trent’anni dall’ultima riedizione (1981), il cruciale saggio di Ernst Bloch Thomas Müntzer teologo della rivoluzione (scritto nel 1921) è stato appena ripubblicato da Feltrinelli, a un prezzo economico (nove euro). Fossimo in voi ne approfitteremmo. Fu una delle letture fondamentali durante la preparazione di Q e – credeteci o no – è un’opera utile, oggi in Italia, come mai altrove.

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A ZONZO NEL PASSATO

[Riportiamo la recensione di Altai scritta dal professore di estetica e storia dell'arte Renato Barilli sulla rivista letteraria L'Immaginazione. Le sue affermazioni infatti ci danno l'opportunità di affrontare ancora il rapporto tra narrativa, storia e allegoria. Un'avvertenza per la lettura: la prima parte dell'articolo contiene diverse stranezze, come la rivendicazione del "placido fluire" come connotazione tradizionale del romanzo storico; o l'involontario ossimoro "colonie statunitensi"; o l'affermazione che Wu Ming agirebbe "sulla piazza di Bologna" (in realtà quella in cui da anni siamo meno attivi); e nonostante questo è la seconda metà dell'articolo quella che ci pare interessante e sulla quale invitiamo a concentrare l'attenzione.]

Da L’Immaginazione n. 252, gennaio-febbraio 2010

Wu Ming: ma cosa andiamo a fare nel passato?

di Renato Barilli

Il collettivo che agisce sulla piazza di Bologna presentandosi col nome Wu ming è forse al momento la “premiata ditta” che nel nostro Paese riesce meglio nel tentativo di varare campioni accettabili di romanzo storico, con la pretesa di farsene perfino il mallevadore a livello teorico, come è successo con un pamphlet recentemente apparso, New Italian Epic, dove il gruppo ha dato il suo appoggio ad opere tutto sommato meno valide di quanto non esca dal suo proprio laboratorio. In effetti, certe operazioni da loro assunte a titolo probante che questa impresa oggi si può condurre, come quelle dedicate da Scurati alle Cinque giornate di Milano, e da Lucarelli alla disfatta di Adua, si sono meritate da parte mia un convinto pollice verso, mentre il mio giudizio diviene più incerto e oscillante su quanto Wu Ming mette fuori a titolo proprio. O meglio, la mia opinione è variata di caso in caso, avendo toccato un quasi-rifiuto al momento della loro prima prova, Q, di una decina d’anni fa, e buona parte delle ragioni del mio dissenso risultava già dalla brevità del titolo, compendiato in un’unica lettera, che era quasi l’anticipazione del difetto che reperivo in quella loro opera iniziale, ovvero una conduzione troppo frammentaria, uno sbriciolio di annotazioni, che non davano spago a persone e situazioni. Ne veniva un andamento a singhiozzo, assai lontano da quel certo placido fluire che ci si potrebbe attendere un romanzo storico. Molto meglio circostanziato l’andamento dei vari brani in un romanzo successivo, Manituana, che oltretutto aveva il merito di affrontare una materia assai poco nota a noi lettori europei, la guerra di indipendenza delle colonie statunitensi dell’America del Nord contro sua Maestà britannica, ma il tutto visto dalla parte dei nativi, degli Irochesi, brutalmente annientati da Washington e dalle sue truppe.
Ecco ora Altai, che sicuramente ha sconfitto il difetto di procedere a brevi lacerti. Anche qui si salta da una scena all’altra, ma in ciascuna di esse la narrazione si sofferma per un tempo adeguato, e consegue quella perfetta icasticità di descrizione che forse è tra i requisiti primari richiesti al romanzo storico, in cui il lettore desidera di sentirsi trasportato in situazioni lontane, mal note, apprezzando quindi la capacità di fargliele vivere quasi in presa diretta, come se fosse presente. Qui le tappe del variopinto itinerario sono tutte ben condotte, gremite di dettagli, si tratti di Venezia, o di Istanbul, capitale dell’impero ottomano, o dell’assedio di Cipro, con la cruenta presa di Famagosta, e c’è infine, addirittura, la possibilità di assistere in presa diretta alla grande battaglia di Lepanto, messi nei panni di un naufrago che guarda allibito quello scontro titanico, proprio come succede in una pellicola hollywoodiana dedicata alla battaglia aeronavale delle Midway, tra le forze statunitensi e quelle del Sol Levante. Ma agitando questo riferimento a un film odierno, in apparenza del tutto incongruo, entro nel merito dell’intera questione, ovvero delle varie difficoltà gravanti sul filone del romanzo storico, costretto a muoversi tra tante attrazioni di segno contrastante. Da un lato, c’è l’obbligo di rispettare una realtà affidata alle cronache del tempo che fu, magari col compito aggiunto di condurre dotti studi suppletivi. Però si presenta subito il dilemma, fino a che punto rispettare la storia, il dato esistente, o invece andarlo a rilanciare con una sensibilità odierna, ma col rischio di falsare la veridicità del rapporto? E prima ancora, e cosa più importante, a qual fine condurre l’impresa nella sua globalità? Rivedere le bucce al vero storico, in nome del verosimile previsto per la poesia, soprattutto nella specie della narrazione? Ma come sottrarsi in tal caso all’obbligo di rispettare certi paletti fermi, dati appunto dal vero storico, che non si può prendere a gabbo? E inserire nel tutto dei lieviti di moralità dei nostri tempi, cioè invitare il lettore a leggere in quei panni lontani le crude vicende della nostra attualità sociale e politica? Alcuni esempi: il protagonista di questo romanzo è un ebreo, costretto a fuggire da Venezia, vittima di una persecuzione che lo spinge a trovare rifugio a Istanbul, presso un correligionario, Giuseppe Nasi, che sogna un progetto in perfetto stile attuale, quasi fosse un Ben Gurion o una Golda Meir anzi tempo, ovvero di creare a Cipro uno stato indipendente di Israele. Ma la cosa, ovviamente, non può avere seguito, e quanto alla conquista di Cipro da parte dei Turchi, e al conseguente supplizio inflitto al Bragadin, orrido fatto su cui non si può scherzare, come presentarlo, a qual fine, con quale morale? Insomma, fare opera di godibile intrattenimento, o di allegoriche e premonitrici fughe in avanti? I nostri autori non sanno raccapezzarsi tra tanti fili, e fanno naufragio, come le molte navi a Lepanto. Per non parlare poi del rapace, Altai, assunto come titolo, quasi per evadere da una realtà che non si sa come dominare.

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IL FALCO E LA GALLINA
Allegoria e universalità nel romanzo storico

di Wu Ming 4

La questione cruciale posta da Barilli è quella dell’innesto di una sensibilità moderna nel contesto storico ricostruito da un romanziere; innesto che a suo dire introdurrebbe inevitabilmente un elemento di implausibilità.
Il romanziere storico è destinato a tradire almeno in parte la storia nel momento stesso in cui la romanza. Infatti non può che tradurre il passato nel presente, cercando di restare nei limiti del verosimile, ma sapendo che questa traduzione sarà pur sempre un tradimento. E questo è vero a partire dalla lingua, dal linguaggio, lo strumento stesso del racconto, che non sarà certo mimetico, non riprodurrà alla lettera quello parlato nell’epoca storica in cui si svolge il romanzo. Ebbene sì, il principio di indeterminazione di Heisenberg funziona anche in letteratura.
L’osservazione di Barilli si avvicina alla posizione espressa dal collega Tullio Avoledo, il quale sostiene di scrivere romanzi ambientati in un continuum spaziotemporale simile al nostro ma non identico, per non fare un cattivo servizio alla storia contaminandola con l’invenzione. Non citiamo a caso Avoledo, dato che nella stessa rubrica il professor Barilli alza il pollice in favore del romanzo ucronico di Enrico Brizzi La nostra guerra.
L’ucronia in effetti non deve porsi il problema della plausibilità storica, dal momento che si pone già in partenza come tradimento della storia stessa e indagine su un “what if” potenziale. Le carte sono scoperte e le ambiguità disinnescate. L’ucronia manifesta ha in effetti vita più facile del romanzo storico.
Quello che per Barilli è un fattore invalidante o un handicap del nostro mestiere, è dunque la sfida che lo motiva. E’ precisamente sulla contraddizione tra punto d’osservazione (di narrazione) ed epoca osservata (narrata) che si fonda l’attività del romanziere storico. Anche noi ci consideriamo indagatori di ucronie potenziali, ma invece di immaginarle, le ricerchiamo nelle pieghe della storia stessa, in quel “vero storico” di cui parla il professor Barilli. Indaghiamo in sostanza gli snodi della Storia in cui una potenzialità avrebbe potuto trasformarsi in atto e creare un’alternativa. Se esiste una poetica storico-letteraria di Wu Ming potrebbe essere riassunta proprio in questi termini.
Nelle presentazioni di Altai diciamo spesso che i romanzi storici degli ultimi decenni si differenziano da quelli che hanno fondato il genere nell’Ottocento. Se quelli erano romanzi di ambientazione storica, i nostri sono romanzi di trasformazione storica, nel senso che aspirano a mutare la percezione di un’epoca o di un evento trasmessaci dalla vulgata più o meno ufficiale, provando a illuminare con la finzione i coni d’ombra della storia. Si tratta di narrazioni che fanno interagire la fiction con il “vero storico”. Il punto è se riescono a farlo rispettando la plausibilità e la verosimiglianza oppure no.
Secondo Barilli Altai fallirebbe proprio in questo e per dimostrarlo fornisce due esempi.
Il primo è la figura di Yossef Nasi, che nel romanzo sarebbe presentato come un Ben Gurion ante litteram.
Questa lettura rivela un difetto ottico interessante: l’inversione prospettica. Barilli sembra dimenticare completamente che il presente altro non è se non la risultante del passato stesso.
La prospettiva assunta da Barilli (ma già anche da altri lettori su questo blog) prende ciò che è immediatamente prossimo nello spazio e nel tempo come lente attraverso cui lanciare lo sguardo all’indietro. In sostanza Barilli attribuisce a noi l’attitudine che egli stesso assume. Questo paio d’occhiali mal graduati porta a vedere nei tratti di Yossef Nasi quelli di Ben Gurion (e non invece il contrario) e a leggere quindi il personaggio di Altai e la vicenda della guerra di Cipro narrata nel romanzo come un’allegoria del sionismo.
Se invece si osservasse la storia con un’attitudine… storica,  appunto, ci si accorgerebbe che non c’è alcun anacronismo nel fatto che un ebreo ricco e colto, cresciuto frequentando le corti rinascimentali europee, potesse vagheggiare l’isola di utopia. Anzi, è una cosa pienamente nello spirito di un secolo in cui il pensiero politico utopico sulle forme di governo ha conosciuto la sua rifioritura; un secolo simbolicamente racchiuso tra L’Utopia di Thomas More (1516) e La Città del Sole di Tommaso Campanella (1602).
Non è affatto strano che un magnate sefardita che aiutava gli ebrei in fuga dall’Europa (verità storica), che aveva fondato per loro una colonia in Palestina (verità storica), e aveva ottenuto dal Sultano la promessa d’essere nominato re di Cipro (verità storica), potesse pensare di accogliere sull’isola i propri correligionari, insieme ai perseguitati di tutte le confessioni. L’utopismo non è affatto sconosciuto al Cinquecento, come non lo è la figura di un principe illuminato che si affida al connubio machiavelliano tra fortuna e virtù, o l’idea pichiana di concordia universale, e in generale il ragionamento sulle forme politiche ideali influenzato dal neoplatonismo. Il Rinascimento è un periodo ricco, ricchissimo, come ogni periodo storico, e vederci dentro soltanto il riflesso del XX secolo è davvero limitante.
Ovviamente una lettura allegorica è sempre possibile: se uno vuole leggere la vicenda di Nasi raccontata in Altai come un rimando alla storia dello stato di Israele, padronissimo di farlo. Ma è scorretto attribuire questa intenzione agli autori o dare per scontato che abbiano trasferito nel passato l’idealità contemporanea.
Il secondo esempio di come noi avremmo spinto a forza una “moralità dei nostri tempi” entro i limiti di un’altra epoca riguarda il tema della guerra e dello sterminio.
Quale morale trarre dallo scuoiamento di Bragadin? Su questo blog se n’è già discusso in ben due thread, ma è evidente che l’impressione di orrore ed estinzione della pietas è un dato irrinunciabile e sul quale non abbiamo fatto sconti alla storia e alla narrazione. In questo c’è senz’altro un elemento di anacronicità ed è il caso di sviscerarlo. L’incapacità di accettare la catasta di morti che si interpone tra la storia e l’utopia è un problema contemporaneo. Così come lo è la connessione di questo tema a quello del rapporto tra mezzi e fini (che invece nel Cinquecento si incentrava sulla liceità delle strategie politiche per l’ottenimento di un risultato). La questione che emerge dalle pagine di Altai che narrano l’assedio di Famagosta è quella dell’orrore (in senso conradiano, contemporaneo, appunto) e di quanto tale orrore possa snaturare e compromettere un progetto politico che sia disposto ad accettarlo come male necessario.
In questo senso noi abbiamo attualizzato la storia, è vero, e ciononostante non l’abbiamo allegorizzata. La resa “hollywoodiana” della battaglia di Famagosta o di Lepanto non è evidentemente un’opera di “intrattenimento”, né una “allegorica fuga in avanti”, ma il tentativo di far vedere al lettore ciò che il protagonista vede, cioè l’orrore della guerra. L’orrore che se anche poteva essere più all’ordine del giorno per un europeo del 1571 che per un suo omologo del 2010, nondimeno era tale, nel senso che quelle erano le modalità, quelle le immagini che si imprimevano sulla retina, quelle le dinamiche crudeli, gli odori, i suoni, l’adrenalina. Diversa la sensibilità probabilmente, il rapporto con la morte di innocenti, il modo di rielaborare l’esperienza vissuta, ma pur sempre umana la visione. Umana, cioè universale. E’ questa l’attitudine con cui si lancia lo sguardo all’indietro su tutte le epoche, ogni volta scoprendo qualcosa di nuovo e di valido per noi, non già per i morti ai quali non è più possibile rendere giustizia, ma per i vivi che ancora possono porsi certe domande. E’ appunto questa universalità – e non già la “storicità” – che consente a un romanzo di parlare ad ogni qui e ora. La storia della mentalità è invece materia per un altro genere di specialisti: gli storici, che però fanno un mestiere diverso dal nostro.
Resta il fatto che tra allegoria stretta e universalità tematica c’è la stessa differenza che passa tra il volo di una gallina e quello di un falco.
A questo proposito, resterebbe da considerare l’interpretazione del falco Altai come metafora dell’evasione dalla realtà, ma possono giudicare i lettori se questo rilievo sia o meno pertinente, se sia l’esito di un volare alto o di un mero zampettare per l’aia.

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