ALTAI
Il nuovo romanzo di Wu Ming

Una palla da cogliere al balzo: la recensione di Altai su Medioevo

Written on 17/02/2010 – 8:33 pm by Wu Ming

[Da queste parti c'era voglia di tornare in modo più approfondito su alcuni punti "teorici" toccati nelle discussioni su Altai: l'Altro, i rapporti oriente-occidente, stereotipi e preconcetti disseminati nella storia scritta dai vincitori... Pensavamo a una serie di post un po' "densi", però comprensibili. La domanda era: come impostare il discorso senza inutili pesantezze? L'estratto dal prossimo libro di Zizek su antisemitismo e fondamentalismo era un primo, interlocutorio passo nella direzione che avevamo in mente, ma sentivamo la necessità di un input esterno.
Due giorni fa ci è arrivata una lunga recensione apparsa sull'ultimo numero di Medioevo (rivista di grande diffusione), recensione in cui ci si imputa un inconsapevole "orientalismo" (oltre a una scelta di campo... filo-veneziana) e si mettono in fila diverse inesattezze. Era un'opportunità per chiarire alcune cose, e abbiamo colto la palla al balzo. Ogni stroncatura è un'occasione da non perdere. Di seguito, riportiamo il testo del prof. Marco Di Branco, docente di Storia bizantina alla Sapienza, seguita da alcune considerazioni di Wu Ming 4. Ringraziamo Di Branco per l'attenzione e l'opportunità che ci ha concesso.]

Da “Medioevo”, anno 14, n. 2, febbraio 2010:

UN INCONSAPEVOLE “ORIENTALISMO”
Ambientato all’epoca della battaglia di Lepanto, il romanzo storico degli autori di Q sembra riproporre alcuni dei più diffusi stereotipi occidentali legati alla rappresentazione dei musulmani

di Marco Di Branco

Dopo il meritato successo di Q, ambientato all’epoca della Riforma luterana e delle grandi rivolte contadine guidate da Thomas Müntzer, Wu Ming, il collettivo di scrittori che al suo esordio si firmò “Luther Blissett”, torna nel mondo del suo primo libro con un romanzo storico: Altai. Questa volta, al centro della narrazione c’è il sogno di Joseph Nassi (o Nasi), il potente Ebreo portoghese amico e consigliere del sultano ottomano Selim II, deciso a costruire a Cipro la Nuova Sion, “la casa comune dei fuggiaschi e degli spiriti liberi”, fondata sulla tolleranza e sulla concordia. La vicenda, che prende le mosse da Venezia nel 1569, quindici anni dopo l’epilogo di Q, si dipana fra Dubrovnik, Tessalonica, Costantinopoli e, appunto, Cipro, e trova la sua spettacolare conclusione nelle acque di Lepanto, dove il 7 ottobre 1571 avviene lo “scontro finale” tra la flotta cristiana di Don Giovanni d’Austria e quella musulmana guidata dall’ammiraglio Müezzinzade Ali Pasa. Fra intrighi, assedi, battaglie e storie d’amore, il racconto procede in maniera non di rado avvincente verso un finale un po’ scontato, soprattutto per i lettori “informati sui fatti”, così come scontate e stucchevoli sono alcune delle similitudini e metafore di cui il testo trabocca (“l’alba giunse come un riscatto”; “la città era splendida come una sposa”; “Il cielo è un incendio di porpora e oro”…).
Seppur lontano dai vertici narrativi toccati da Q, Altai è comunque un libro di piacevole lettura. Con un’avvertenza, che può forse risultare di qualche interesse per i lettori di “Medioevo”, perché chiama in causa i modi di rappresentare il mondo islamico in Occidente dall’epoca medievale all’età contemporanea. Per molti versi, infatti, il romanzo di Wu Ming sembra riproporre l’intrico di idee e pregiudizi sull’Oriente (dispotismo, splendore, crudeltà, sensualità) elaborato dalla cultura occidentale (e a suo tempo analizzato da Edward Said nel saggio intitolato significativamente Orientalismo; tr. it. di S. Galli, Feltrinelli, Milano 1999).
Se le descrizioni delle “bellezze dell’Oriente”, promananti a un tempo fascino e repulsione, sono in qualche modo giustificate dalla scelta come “io-narrante” di un Ebreo rinnegato cresciuto a Venezia, che apre gli occhi per la prima volta su un mondo nuovo e seducente, meno comprensibile appare il continuo ricorso a stereotipi “orientalistici” nella rappresentazione dei maggiorenti ottomani, descritti invariabilmente come infidi, intriganti, capricciosi e crudeli.

La fine di Marcantonio Bragadin

A questo proposito, vale la pena di soffermarsi più da vicino su una delle scene-chiave del romanzo, quella della tragica fine del coraggioso difensore di Famagosta, il veneziano Marcantonio Bragadin. Costui, dopo aver rifiutato sdegnosamente ogni trattativa con i Turchi assedianti e dopo aver portato avanti la lotta sino all’estremo limite, il 2 agosto 1571, avendo ottenuto condizioni onorevoli, accettò la capitolazione. Tre giorni più tardi, il comandante veneziano, seguito da una schiera di ufficiali e soldati, si recò nell’accampamento turco per consegnare le chiavi della città a Lala Mustafà, capo dell’esercito ottomano. Secondo le fonti veneziane, il generale turco, dopo aver ricevuto Bragadin secondo l’etichetta militare, sarebbe improvvisamente tornato sulle sue decisioni, utilizzando come pretesto un’oscura questione di prigionieri non restituiti. I patti vengono così violati, ed è strage: tutti gli Italiani vengono legati e subito decapitati; la soldataglia turca, senza più freni, entra in città, massacra o difensori, saccheggia le case, oltraggia le donne. A Bragadin vengono mozzate le orecchie ed è tenuto in vita per altri undici giorni; poi, il 17 agosto 1571, è messo a morte in maniera atroce: per scorticamento.
Gli autori di Altai seguono il racconto delle fonti veneziane in maniera totalmente acritica, indugiando con un certo compiacimento sui particolari più truculenti (“con meticolosa lentezza, scuoiarono quell’uomo. Prima la schiena, poi gambe e braccia, poi il tronco e il petto, scollando il grasso dalla pelle (…) Mosche volarono sulla carne viva (…) Poi macellarono il corpo scuoiato e lo disseminarono in pezzi tutt’attorno alle mura”).

Una precisa scelta di campo

In un romanzo (sia pure storico), è del tutto lecito assumere punti di vista particolari e raccontare solo una parte della storia, ma tale opzione costituisce una ben precisa scelta di campo, che in questo caso va appunto nel senso del più classico “orientalismo”. Se solo avessero voluto, i membri del collettivo Wu Ming, che pure sono stati definiti “destabilizzatori del senso comune”, avrebbero potuto infatti sottrarsi al vieto stereotipo della “crudeltà orientale” dando maggior risalto all’altra faccia della verità, che riguarda appunto quell’oscura questione di prigionieri non restituiti a cui fanno velatamente cenno gli storici veneziani. In effetti, secondo le fonti ottomane (la cui versione è riferita, per chi sia interessato, sia nel saggio di Roger Crowley, Imperi del mare. Dall’assalto di Malta alla battaglia di Lepanto, tr. it. di F. Saba Sardi, Bruno Mondadori, Milano 2009, sia nel libro di Niccolò Capponi, Lepanto 1571. La lega santa contro l’Impero ottomano, Il Saggiatore, Milano 2008), Lala Mustafà, dopo aver ricevuto Bragadin con tutti gli onori, gli avrebbe chiesto conto di cinquanta pellegrini musulmani in viaggio verso Mecca, catturati dai Veneziani pochi mesi prima della caduta di Famagosta. Per gli storici ottomani, il trattato di capitolazione prevedeva infatti una clausola – di cui non c’è traccia nelle fonti veneziane – che ne disponeva la liberazione. Bragadin avrebbe allora ammesso che i prigionieri erano stati torturati e uccisi dopo la firma del trattato di pace (“Quei prigionieri musulmani non erano sotto il mio personale controllo. I Veneziani (…) li hanno uccisi il giorno della resa, e io ho ucciso quelli che erano con me”: Peçevi Ibrahim Efendi, Tarih, I, Basbakanlik Matbaasi, Ankara, 1981). Solo a questo punto il pascià avrebbe ordinato l’arresto di Bragadin e del suo seguito.

Il trattamento dei prigionieri
Va tenuto presente che nel mondo islamico, sin dai tempi delle crociate il problema del trattamento dei prigionieri era una vera e propria ossessione. Secondo il diritto musulmano, i prigionieri sono considerati parte del bottino, ma è necessario esaminare con attenzione se si tratti di combattenti contro l’Islam, o di donne, vecchi, bambini e infermi. In linea d principio, non è permesso condannare a morte nessuno se non in vista del bene della comunità, e per giunta la “gente del Libro” (ebrei e cristiani) ha diritto di ricevere protezione se acconsente al pagamento di un tributo. Tuttavia, nella pratica, si distingueva: i prigionieri presi in una situazione di guerra aperta venivano in genere uccisi, a meno di essere estranei alla battaglia in corso sia dal punto di vista fisico sia da quello morale; per i prigionieri catturati alla fine delle ostilità, le autorità avevano invece quattro opzioni: la condanna a morte per decapitazione; la riduzione in schiavitù; la richiesta di riscatto in denaro o in prigionieri musulmani a titolo di scambio; la liberazione. Non era comunque permessa l’esecuzione di donne e bambini che non avesser partecipato al conflitto e non avessero ucciso musulmani. In generale, la situazione dei prigionieri crociati era buona, soprattutto perché si tratta perlopiù di personaggi eminenti, dalla cui liberazione ci si attendeva un cospicuo riscatto.

L’esasperazione dei crociati
Al contrario, per i numerosi detenuti musulmani, spesso di umili origini, il soggiorno nelle carceri crociate era generalmente assai duro, soprattutto perché essi venivano utilizzati come forza-lavoro nel programma di incastellamento che caratterizzava i regni latini, o andavano ad alimentare la tratta degli schiavi, che costituiva una delle principali risorse della Cipro “franca”. La presa di Acri da parte dei Mamelucchi aveva certamente contribuito a esasperare i crociati, i quali, dalla loro base cipriota, sfogavano rabbia e frustrazione saccheggiando e terrorizzando la costa egiziana e siro-palestinese, e infierendo sui musulmani catturati.
Ordinando, o non impedendo, l’eccidio dei pellegrini prigionieri, Bragadin ha dunque toccato un nervo scoperto dei musulmani e ne pagherà duramente le conseguenze.
Di tutto ciò gli autori di Altai non tengono il minimo conto: nella loro ricostruzione dell’episodio, Bragadin respinge sdegnosamente tutte le accuse di Lala Mustafà, e viene così implicitamente assolto da ogni responsabilità. Una simile caduta di stile da parte di un collettivo di scrittori normalmente molto attento alle implicazioni politiche e culturali dei propri lavori si spiega soltanto con la forza del pregiudizio “orientalistico” che, come ricorda Said, è spesso del tutto inconsapevole.

***

BRANCOLANDO NEL BUIO
Alla ricerca dell’orientalismo in Altai

di Wu Ming 4

Il professor Marco di Branco, docente di Storia Bizantina all’Università La Sapienza di Roma, ci accusa di essere degli “orientalisti inconsapevoli” e di avere riempito Altai di immagini stereotipate e pregiudiziali dell’Oriente.
Per sostenerlo scomoda il mai troppo compianto Edward W. Said: “Wu Ming sembra riproporre l’intrico di idee e pregiudizi sull’Oriente (dispotismo, splendore, crudeltà, sensualità) elaborato dalla cultura occidentale (e a suo tempo analizzato da Edward Said nel suo saggio significativamente intitolato Orientalismo).”
Benché questa critica sembri bellamente ignorare il dibattito sviluppatosi finora intorno al romanzo, nondimeno offre l’occasione per sviscerare meglio certi passaggi e visioni che si collocano a monte del testo e possono essere rintracciati nelle pagine di Altai. La cosa curiosa infatti è che proprio il libro di Said è stato una bussola nella stesura di Altai (come già di Stella del Mattino, romanzo solista del sottoscritto), fin quasi a poter essere considerato una delle sue fonti concettuali.

Nel suo celebre saggio del 1978, Edward Said definiva l’orientalismo come una modalità d’approccio e una forma mentis occidentale nei confronti dell’Oriente, ovvero un discorso basato sul senso di superiorità europeo e su alcuni specifici concetti che hanno poi prodotto determinate istituzioni filosofiche e culturali. L’Occidente ha una tendenza storica a inquadrare l’Oriente in base ai propri parametri, a comprenderlo nel senso di volerne comporre la narrazione (Said partiva proprio dall’analisi di testi letterari del XVIII e XIX secolo), finanche a definire la propria identità culturale in contrapposizione a esso. L’Oriente diventa così una proiezione negativa della mente occidentale.
Said affermava che l’orientalismo ha due facce. La più evidente e “manifesta” è data dall’insieme delle ipotesi e delle concezioni esplicitamente espresse dal pensiero occidentale sull’Oriente, atte a mantenerlo in una posizione subalterna. Esiste però anche una faccia meno identificabile dell’orientalismo, perché diffusa nell’immaginario collettivo in maniera implicita, come discorso comune indiretto sull’Oriente. Focaultianamente si tratta di una forma più subdola di dominazione, che Said definisce “orientalismo latente” (e il prof. Di Branco chiama “inconsapevole”, attribuendolo appunto a noi Wu Ming).
Secondo Said gli elementi generali che compongono questa vulgata sull’Oriente sono i seguenti:
- alterità assoluta rispetto all’Occidente;
- sensualità e passività della donna;
- decadenza;
- tendenza al dispotismo;
- stile di pensiero impreciso e illogico;
- rifiuto del progresso e passività sociale.

Per capire se sia possibile rintracciarli nelle pagine di Altai occorre leggere il romanzo in maniera non frettolosa. In questo modo ci si accorge facilmente che:
1) Le complesse interrelazioni e commistioni culturali, politiche e linguistiche tra Oriente e Occidente sono uno dei temi portanti del romanzo (tutto il contrario di qualunque ipostatizzata “alterità”);
2) Le donne dell’impero ottomano vengono rappresentate come agenti politici e sociali attivi, tant’è che la sottovalutazione del loro ruolo è uno dei fattori che porta alla rovina i piani dei protagonisti maschili. Nello specifico le donne orientali che vengono caratterizzate sono due, una sola delle quali, Dana, è “sensuale”, ma nient’affatto passiva e anzi, piuttosto indisposta alla sottomissione, nonostante sia una semplice domestica e un’ex-concubina dello harem;
3) L’impero e la società ottomani non sono rappresentati come “decadenti”, ma al contrario come una delle realtà culturali e geo-politiche più solide e dinamiche del mondo;
4) In una delle scene cruciali del romanzo (II parte, cap. 2) ha luogo una discussione in cui alcuni europei teorizzano che l’impero ottomano si regga sul dispotismo e l’esercizio del terrore, e vengono confutati dal co-protagonista, Yossef Nasi, il quale definisce l’impero ottomano come una koiné fondata sul “tahammül“, cioè la reciproca tolleranza tra diversi.
5) L’unico personaggio che nelle pagine di Altai manifesti un pensiero all’apparenza “illogico” è Ali Hassan al-Najib, che in effetti è un mistico sufi.
6) Non v’è traccia di passività nella società ottomana come viene descritta nel nostro romanzo, e anzi si evoca a più riprese la rivolta zaydita, definendone le cause non già in termini meramente religiosi, ma sociali e politici. Tanto meno compare il “rifiuto del progesso”, ma anzi, viene messo in scena l’inventore più importante del XVI secolo, l’egiziano-siriano Takiyuddin, il cui lavoro era finanziato e incentivato dal Sultano, e a lui viene attribuita l’invenzione del cannocchiale (con trent’anni d’anticipo rispetto all’olandese Hans Lippershey).

Da questo breve excursus si evince che una delle possibili letture metatestuali di Altai è proprio la scoperta dell’Oriente da parte di un occidentale “orientalista”.
Tuttavia secondo Di Branco il pregiudizio si anniderebbe nel “continuo ricorso a stereotipi orientalistici nella rappresentazione dei maggiorenti ottomani, descritti invariabilmente come infidi, intriganti, capricciosi e crudeli”.
Fortunatamente i notabili ottomani messi in scena in Altai non sono molti e si fa presto a passarli in rassegna.
Il primo che compare è Solomon Ashkenazi (c.1520-1602). Nel nostro romanzo non è un personaggio “capriccioso” né “crudele”, ma senz’altro “intrigante” e “infido”. Questo medico e commerciante ebreo si aprì una brillante carriera diplomatica agendo su due fronti e gestendo le comunicazioni sottobanco tra i veneziani e il Gran Visir Sokollu durante la guerra di Cipro, nonché facendo le scarpe a Yossef Nasi dopo averlo affiancato e rimpiazzato nelle grazie del Sultano. I lettori di Altai possono giudicare da sé quanto la nostra rappresentazione sia stereotipata o piuttosto improntata alla verosimiglianza storica.
Un altro maggiorente ottomano che compare nel romanzo è il Gran Visir Mehmet Sokollu (1506-1579). Che la sua posizione sulla guerra di Cipro sia stata ambigua e abbia potuto celare manovre segrete per eliminare gli avversari politici nel Divano non è un fatto acclarato. Tuttavia, come il professor Di Branco certamente sa, ci sono alcuni storici turchi (e sottolineiamo “turchi”) che hanno sostenuto questa ipotesi, tra i quali I.H. Danişmend (1948), suggerendoci così un’ottima soluzione narrativa. Non c’è bisogno di nutrire pregiudizi orientalisti per immaginare che un potente della levatura di Sokollu potesse “intrigare” un bel po’ per gestire la politica di un impero esteso su tre continenti. Del resto nella nostra storia la sua controparte veneziana, il Consigliere Bartolomeo Nordio (personaggio di pura fantasia), non è certo da meno in quanto a manipolazioni e perfidia, pur non essendo un orientale. Questo a dimostrazione del fatto che in Altai intrighi e tradimenti sono caratteristiche connotative del Potere, a qualunque longitudine esso si trovi, e non attributi esclusivi dei notabili levantini. Resta il fatto che nel romanzo nemmeno Sokollu è un personaggio crudele o capriccioso. Anzi, l’ultimo discorso che rivolge a Yossef Nasi nell’epilogo del romanzo testimonia al contrario una visione lungimirante, fredda quanto paradossale, e a suo modo perfino saggia.
Ci sono poi altri dignitari di contorno: il Gran Falconiere Hassan Agha – un uomo all’apparenza sincero e fuori dai giochi -, il Grandammiraglio Müezzinzade Alì Pasha e il Visir Piyale Pasha, i quali però presenziano troppo poco sulla pagina perché di loro si possa trarre un quadro psicologico di qualche tipo.
Resta il personaggio di Lala Mustafa Pasha (1500-1580), il conquistatore di Cipro, che in definitiva sembra essere il vero bersaglio degli strali di Di Branco. A guardare bene è questa l’unica concreta pezza d’appoggio da lui prodotta a sostegno dell’accusa di orientalismo nei nostri confronti e sulla quale infatti argomenta per tre quarti dell’articolo.
In buona sostanza Di Branco ci imputa di avere usato in modo sprovveduto le fonti sulle trattative di pace tra Lala Mustafa e Marcantonio Bragadin che seguirono la resa di Famagosta, prediligendo cioè quelle veneziane e producendo così una ricostruzione dei fatti non solo di parte, ma anche di netto stampo orientalista. In particolare avremmo stereotipizzato Lala Mustafa facendone un perfido e capriccioso carnefice, mentre dalla nostra narrazione dei fatti Bragadin uscirebbe “implicitamente assolto da ogni responsabilità”. Secondo Di Branco avremmo dovuto sottrarci allo “stereotipo della crudeltà orientale, dando maggior risalto all’altra faccia della verità”, cioè quella sostenuta dalle fonti ottomane. Sì, perché – precisa il professore – le ragioni del generale Lala Mustafa erano forti: il terribile supplizio inflitto a Bragadin e ai suoi uomini, con tutto quello che seguì, sarebbero stati provocati da un grave atto di empietà commesso dai veneziani prima della capitolazione, cioè l’eccidio di cinquanta pellegrini musulmani fatti prigionieri in precedenza. Bragadin avrebbe quindi pagato le conseguenze di un crimine del quale, sempre secondo le fonti ottomane, si sarebbe dichiarato reo confesso.
Ecco dunque in cosa si risolverebbe l’orientalismo di Wu Ming: nel non avere preso per oro colato la versione dei vincitori.
Viene da dire che peggio dell’orientalismo c’è soltanto l’occidentalismo.

Ma andiamo a leggere le pagine di Altai accusate di tanta unilateralità (pagine che su questo blog sono già state oggetto di intenso dibattito, a seguito della recensione di Altai scritta da un altro storico, Alessandro Barbero).
Si tratta delle pagine 339-341, quelle in cui ha luogo il confronto tra Lala Mustafa e Marcantonio Bragadin.
Il primo momento di tensione tra i due si verifica quando il generale ottomano chiede a Bragadin di lasciargli in ostaggio uno dei suoi capitani, a garanzia del fatto che le navi turche messe a disposizione dei veneziani per evacuare Famagosta vengano in seguito restituite. Una richiesta alla quale Bragadin oppone un cavilloso rifiuto, sostenendo che negli accordi di pace non si è mai parlato di ostaggi. A questo punto Lala Mustafà ribatte che se è per questo dall’accordo sono state omesse anche altre cose per agevolare la resa e l’evacuazione dalla città. Ad esempio i “duecento prigionieri turchi” che mancano all’appello e che sulla base delle testimonianze di tre superstiti sarebbero stati uccisi poco prima della resa. In effetti non si specifica che potesse trattarsi di pellegrini, la definizione è generica (non si dice nemmeno il contrario, però), ma certo il numero dei trucidati messi in conto ai veneziani è addirittura quadruplo rispetto alla cifra accreditata dal prof. Di Branco.
Andiamo avanti e vediamo come Bragadin ribatte all’accusa:

- Questo è falso, signore. Non ho mai dato un ordine del genere.
- Dunque avrete l’accortezza di dirmi dove sono finiti quegli uomini, – lo incalzò il generale.
- Non ne ho idea, signore. Ho trascorso gli ultimi giorni dell’assedio chiuso nel palazzo del rettorato. Posso solo dirvi che non ho mai dato l’ordine di assassinare i prigionieri.

(Altai, pag. 340)

Questo rapido scambio di battute dice già tutto. Bragadin inizia negando che il fatto sia successo, ma subito si preoccupa di ribadire più volte la propria estraneità ai fatti, finendo quindi per confermarli implicitamente.
A questo punto Lala Mustafa accusa i veneziani di disumanità, cioè di avere ucciso i prigionieri per eliminare bocche da sfamare, per risparmiare razioni di cibo.
Ed ecco la reazione della delegazione veneziana alle sue parole, come è narrata a pagina 340 di Altai:

Il silenzio che seguì fu grave di imbarazzo. I capitani guardavano in basso. Solo Bragadin sostenne lo sguardo di fuoco del pasha.

Viene da chiedersi se il prof. Di Branco non si fosse temporaneamente assopito mentre leggeva queste righe fin troppo esplicite: Bragadin è l’unico che – essendosi voltato dall’altra parte mentre la strage di prigionieri aveva luogo – riesce a sostenere lo sguardo accusatore del generale ottomano; gli altri ufficiali veneziani rispondono con un imbarazzato silenzio e lo sguardo basso, cioè assumono l’atteggiamento universalmente noto come quello di chi ammette la propria colpa.
E’ evidente che da parte nostra si è trattato di una scelta estetica, drammaturgica, che non allevia di un milligrammo la responsabilità veneziana nell’eccidio di duecento (!) prigionieri inermi. Dove Di Branco rintracci i segni di un approccio filo-veneziano nella nostra narrazione dei fatti è un mistero sempre più fitto (tant’è che finora Altai era stato accusato dell’esatto contrario, cioè di essere un romanzo pregiudizialmente anti-veneziano). Ma andiamo avanti nella lettura.
Con le sue ultime parole Bragadin si limita a ripetere ottusamente la propria estraneità ai fatti, senza più nemmeno provare a negarli (“Vi ripeto che non ho mai dato quell’ordine”), ed è proprio questo atteggiamento reticente a mandare in bestia Lala Mustafa e a scatenarne la furia (“a differenza di voi, io non mi nascondo” dice il generale mentre mostra a Bragadin la testa mozzata del suo capitano). Lala Mustafa ordina quindi l’uccisione di tutta la delegazione veneziana e della scorta, e lascia che la città sia saccheggiata dai suoi soldati. Infine infligge a Bragadin un supplizio atroce e ne fa impagliare il cadavere.
Ora, se circa lo svolgimento della trattativa esistono molte testimonianze contrastanti, sull’efferatezza di quanto seguì, invece le fonti sono più o meno concordi. Quella che il professor Di Branco chiama “l’altra faccia della verità” non cancella infatti l’uccisione a sangue freddo degli ambasciatori durante una trattativa di pace e la riduzione in schiavitù dei profughi dell’assedio (in gran parte donne e bambini) a cui il capitolato garantiva la salvezza. Proprio perché, come riconosce lo stesso Di Branco, siamo un collettivo “normalmente molto attento alle implicazioni politiche e culturali dei propri lavori”, ci siamo ben guardati dal trovare attenuanti all’operato di Lala Mustafà. La crudeltà del generale ottomano non è uno stereotipo orientalista, nasce dal resoconto di chi ha assistito agli eventi, nonché… ehm, di chi li ha prodotti.
Ecco infatti cosa scriveva lo stesso Lala Mustafa Pasha a Pertev Pasha nella missiva intercettata dai veneziani insieme alla nave che da Cipro la trasportava a Costantinopoli, e in seguito tradotta in italiano (Archivio di Stato di Venezia, Annali.1571):

[…] la notte che dovevan partire hanno dato la morte molto crudelmente a tutti li turchi che tenevano per schiavi, presi in diverse occasioni; tre de qual schiavi fugirono scalando la muraglia et vennero a me, et io li ho tenuti in ascoso, et il terzo giorno venne il Capitano [Bragadin] per portarmi le chiavi della fortezza, et era con tutta la sua corte armati tutti, e con gl’arcobusi, e stopini impiciati, et vedendoli a quel modo li giannizzeri dissero: ma che tregua è questa? Si vien a questo modo armati? Et loro li smorciarono et io dissi al cap.no: sta bene due giorni dopo fatta la tregua ch’abbiate fatto ammazzar tutti li turchi che tenevi per schiavi nella fortezza? Et lui negò, et scusandosi diceva che li soldati havevano ammazzati senza sua commissione. Consideri dunque V.S. che tregua è stata questa, e se l’havevano osservata. [Seguono il resoconto dell'ulteriore rivendicazione avanzata da Lala Mustafa riguardo ai turchi che volontariamente erano saliti sulle navi veneziane in partenza per Candia, che lui sospettava potessero essere fatti schiavi, e la sdegnosa replica di Bragadin] …il che inteso da me ho commesso che tutti li soldati ch’erano venuti in sua compagnia fossero presi, alli quali immediatamente ho fatto tagliar la testa, et tutti quei soldati ch’erano imbarcati con le mogliere et figlioli ho fatto far schiavi […].

Questa è la fonte di cui ci siamo avvalsi per il nostro romanzo. Le parole del diretto interessato non contengono alcun accenno a “pellegrini”, né all’ammissione di correità nel loro assassinio da parte di Bragadin, ovvero confermano una sua responsabilità indiretta, nonché il successivo ordine dato dal pasha di eseguire la mattanza e sottomettere i veneziani.
Verrebbe da chiedere al prof. Di Branco se a suo giudizio anche il generale in capo delle forze imperiali ottomane non fosse per caso afflitto da “orientalismo inconsapevole” ante litteram mentre offriva la versione dei fatti alla quale noi ci siamo ispirati.

In conclusione, più che la presenza di un elemento orientalista in Altai, Di Branco riesce a dimostrare soltanto la propria predisposizione a esporsi con argomenti pretestuosi e infondati. Evidentemente tanta era la voglia di dimostrare la “caduta di stile” altrui che ha finito per non accorgersi della propria.
Se, come sosteneva Benjamin Disraeli, “l’Est è una carriera”, ci si può soltanto augurare che l’approccio alla storia e all’insegnamento da parte del professor Di Branco sia meno superficiale di quello alla letteratura.


SI VEDA ANCHE:

Wu Ming 4, Da Camelot a Damasco
Come si debbano comporre i Miti affinché il Fare vada a buon fine“. Influenze letterarie e persistenza del mito nella costruzione dell’icona di Lawrence d’Arabia. Testo della lecture tenuta da Wu Ming 4 all’Hammam Al Malik Al Zahir, nella Città Vecchia di Damasco, il 17 Ottobre 2008.

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