Appunti sul Social-fascismo. La condivisione delle «idee senza parole»

L’articolo che proponiamo è tratto dall’ultimo numero di Nuova Rivista Letteraria, semestrale di letteratura sociale fondato da Stefano Tassinari e pubblicato dalle Edizioni Alegre. Il n.4 della nuova serie è  interamente dedicato al linguaggio, alle ideologie che lo informano, alle sue potenzialità inesplorate, ai suoi usi (anche) politici. Tra gli autori, oltre ai redattori “storici” e ad Alberto Prunetti, ci sono Giuliano Santoro, Girolamo De Michele, Selene Pascarella, Claudio Dionesalvi, Wolf Bukowski… Clicca sulla copertina per leggere l’indice e, se ti va, abbonarti. Due numeri all’anno costano 15 euro (20 se richiedi la spedizione via corriere).

di Alberto Prunetti *

0. Ieri: la lingua del duce

Le retorica teatrale di Mussolini ̶ perentoria, decisionale, volontaristica, carica di iperboli e di allitterazioni  ̶ non doveva convincere ma sedurre: era magia fonetica priva di semantica. Il suo lessico era povero di elementi tecnici ma carico di velleità nominaliste che attingevano ora dal registro spiritualista («idea», «fede», «martirio», «comunione», «credere»), ora da quello militarista («combattere», «battaglia»), come dal volontarismo dell’azione («audacia», «dinamico», «formidabile», «osare»…). Quanto alla sua ironia, era una sarabanda fonetica che irrideva la vittime e strizzava l’occhio al carnefice: suffissi e postfissi, meta e –iolo, «ultrascemo» e «panciafichista», «partitante» e «schedaiolo». Le maiuscole abbondano, come le equazioni farneticanti: «Fascismo uguale Combattimento, uguale Vittoria», con l’enfasi militarista e guerrafondaia. Dopo l’autarchia linguistica, sono guardati con sospetto i forestierismi: «tassellato» per «parquet», «arlecchino» per «cocktail», «scialle da viaggio» per «plaid». Un repertorio indigesto che include la deformazione del nome del nemico; la posa pseudo-dotta satura di latinismi dannunziani, che alimentano l’immagine littoria e imperiale del regime; la confusione ideologica, con la capacità di arruffare dalla semantica di ogni campo ideologico, con l’occupazione strategica e lo svuotamento del campo semantico della sinistra, con la parola «rivoluzione» che viene adottata per privarla di senso. Ecco la «rivoluzione fascista», ovvero una reazione borghese antirivoluzionaria. Ecco la pretesa di andare oltre le vecchie ideologie, «l’essere né di destra né di sinistra», che è il metodo più furbo per far transitare a destra concetti della sinistra, privando quest’ultima di forze e di consenso. Con uno sforzo risibile la lingua si sforza di maschilizzarsi. È una lingua alla ricerca della virilità, proposito che la trasforma pateticamente in lingua morta, piena di forme logore e fatiscenti. Con la decadenza del progetto fascista e la fase cruenta dell’infame Repubblica sociale, l’effetto perlocutivo è spinto all’estremo nel tentativo di «rimettere in riga» e disciplinare in maniera paternalista gli italiani, trasformandoli in soldatini, trattandoli come bambini impertinenti, comunicando al tempo stesso l’immagine di un potere politico che non vuole rappresentarsi allo sbando: un potere risolutivo, imperativo, decisionale, esecutivo. In realtà un potere fantoccio dei nazisti.

1. Oggi: il “social”-fascismo

Avendo tempo e stomaco, sarebbe un buon esercizio analitico seguire le condotte del nuovo fascismo su Facebook, dove si incanala il senso comune destroide. Un’impresa già tentata da Leonardo Bianchi, che per Vice ha seguito la comunicazione di alcuni «personaggi pubblici» che non si affacciano da Palazzo Venezia ma da balconi digitali oggi molto trafficati. Alcuni di loro non sono letteralmente fascisti, sono solo personaggi in cerca di celebrità e di pulpiti digitali, che rincorrono un senso comune sempre più spostato a destra. Scrive Bianchi:

«Il trend del gentismo su Facebook ha ormai messo radici così profonde che al suo interno si possono individuare dei veri e propri sottogeneri: ci sono l’esterofilia bifolca di Lambrenedetto XVI, il nazionalismo autarchico e sgrammaticato di Simone Carabella, ed esempi decisamente più misticheggianti come quello di Davide “Il Vikingo” Fabbri. All’interno di questo mercato c’era però una nicchia di pubblico non ancora del tutto coperta—quella dei millennial che parlano astiosi di “cagne” e hanno come proprio mantra la frase “non sono razzista ma”. Nicchia che da qualche tempo sta riempiendo una “Facebook star” romagnola che fa delle varie declinazioni del testosterone e della voce pressapochista di provincia un vero e proprio copione”.»

Si agitano così come insetti, avvinghiati alla ragnatela elettronica, migliaia di aspiranti opinion leader locali che cercano, tra una palestra e un lavoro interinale, di esporsi come vedettes spettacolari sbavando odio contro gli immigrati e promuovendo vulgate «né di destra né di sinistra» che mescolano sentimenti anti-casta, odio contro gli stranieri, islamofobia, «padroni a casa nostra», «prima gli italiani», «non c’è posto negli asili», «se vado io in Marocco mi ammazzano e allora perché dobbiamo rispettarli noi», «Quando c’era Lui», «Quando c’era Oriana», «Danno i soldi ai migranti che c’hanno tutti l’ultimo telefonino di moda»… e così via.

Di queste aspiranti icone dei social gentisti, quelli che non sono esplicitamente fascisti si nutrono comunque in quel trogolo, dove sono miscelati pastoni e retoriche un tempo considerate altamente tossiche, oggi sdoganate e somministrate a incauti consumatori/utenti. Retoriche che danno corpo e alimentano il “social”-fascismo successivo alla mutazione antropologica degli italiani. Una mutazione che forse è postumana, di una specie che ha perso ogni forma di capacità di provare empatia e solidarietà, trasformando individui con labbra al botulino e pettorali gonfiati in caricaturali freak farneticanti odio ombelicale. Ma il “social”-fascismo di oggi rivela la propria filogenesi. Quando il Mascellone roteava le cornee e congiungeva le mani dietro la schiena dilatando la mascella, non era già una caricatura dell’umano?

2. Alcuni tratti distintivi della grammatica “social”-fascista

La lingua militarista e imperativa del vecchio fascismo, piena di costruzioni enfatiche e burocratiche, si trasforma oggi in una lingua appiattita sul parlato, con una sintassi che predilige le coordinate (le subalterne sono troppo difficili da gestire e fanno «intellettuale»), satura di un’ironia che ferisce la vittima e scatena il riso cinico dell’oppressore . La vecchia lingua imperativa, disciplinare e burocratica non si adattava alla modernità. Quella nuova è stata plasmata dalle nuove tecnologie user-friendly, dal fascismo del senso comune, dall’analfabetismo funzionale. Vediamone alcuni tratti distintivi.

Maiuscolo. Le parole che cominciano in maiuscolo diventano un tutto maiuscolo. Le idee senza parole cercano il caps-lock per comunicare la loro granitica essenzialità. Non sono parole polisemiche, cariche di connotazioni, oggetto di critica, di revisione, di dibattito, di contestualizzazione. Il neopopulismo digitale non accetta la pluralità, usa i social moderni per condividere idee antiquate.

Eccessi di possessivi. A livello semantico, gli «eccessi di culture» (vedi gli studi di Marco Aime) poi si traducono grammaticalmente negli eccessi di possessivi, usati come marche identitarie con cui i fascisti social delimitano il loro territorio, come i cani col piscio: «il nostro vino», «la nostra terra», «le nostre tradizioni», «i nostri usi» e, ovviamente, «le nostre donne». Usano i possessivi come manganelli, con cui mettono le mani sull’esistente, appropriandosene.

Un topos diffuso: il buonismo. «Credete che fanno venire una rabbia da spaccare .noi in cerca di lavoro e tasse e tasse ci stanno strangolando loro in panciolle tutto il giorno con il telefonino a urlare tutta la notte pieni d’prove vestiti firmati .viaggiano gratis sui pullman e gratis negli asili e hanno anche la precedenza su di noi..e inoltre molti di loro tanto per arrotondare a quello che già gli passiamo , le ritroviamo nei parcheggi e nelle spiagge a vendere .le donne poi vi lasciò immaginare ..allora io dico che nazione è diventata l’Italia , che lascia morire i propri figli e aiuta i figli degli altri?» È uno stralcio di un comunissimo sproloquio razzista su Facebook:  c’è tutto, il vittimismo, il maldipancismo, l’inversione di vittima e carnefice, il maschilismo, il «noi» non meglio precisato….. e l’italiano che il nostro italianissimo scrivente, che ne pretende la competenza dagli stranieri, non è ovviamente in grado di gestire, inciampando in una semplice concordanza pronominale.

Un altro topos: i “radical-chic”. Se provi a ribattere a queste pseudo argomentazioni (e non è facile, perché si basano su script reazionari che non condividono la logica razionale, ma seguono associazioni di pensiero balzane ma ampiamente diffuse), sei ovviamente un «intellettuale di merda», un «professorino che non sa nulla della vita vera». Anzi, «un radical-chic». Anche se poi sei solo uno che cerca di darsi degli strumenti per interpretare la realtà con un po’ di impegno analitico. Inutile che lamenti la tua distanza «dai poteri forti» e il tuo precario conto corrente, loro non hanno dubbi. Un tempo parlavano di «culturame». Un tempo, quando sentivano la parola cultura, prendevano la pistola.

Asserti falsi. Sempre più spesso gli asserti “fattuali” condivisi dai social vengono da siti produttori di bufale, ovvero siti di informazione tarocca che parodiano altri siti famosi come il Fatto quotidiano o Repubblica.it; siti clone per occhi distratti che maneggiano compulsivamente gli schermi perché «la gente deve sapere» e «i giornali dicono solo bugie». Queste pseudo testate diffondono notizie deliberatamente false per cavalcare il successo delle derive reazionarie facendo click-baiting e attraendo visitatori dai social. Spesso le loro bufale vengono viralizzate e poi, talvolta, riprese dalla stampa mainstrem. Che a quel punto dice davvero le bugie. Alcuni di questi siti che propagano bufale contro gli immigrati e agitano lo spettro del degrado urbano non hanno un foglio di stile che rimandi apertamente all’iconografia fascista: nelle loro homepage non troverete caratteri gotici o gagliardetti romani. Apparentemente sembrano siti di cittadini indignati che non ne possono più, che sono stati «abbandonati dalla casta dei politici» e si mascherano dietro la retorica del civismo e l’ideologia del decoro. Però se si prova a seguire i nomi dei direttori responsabili e i link attivati con più frequenza, non si tarda ad arrivare a etichette della fascio-sfera. Il nuovo fascista non può andare in giro in orbace: per cercare consenso, deve mimetizzarsi da «cittadino indignato», da «gente stanca dell’arroganza» (dei politici, degli immigrati o degli intellettuali). Così il fascio uscito dalla porta dell’antifascismo costituzionale entra dalla finestra del senso comune, dove fa molto più danno: distrugge l’attivismo di base, lo allontana da ideali di solidarietà sociale e dentro ai «comitati di cittadini comuni stanchi del degrado» finisce irrimediabilmente per portare acqua al vecchio mulino nero del duce.

3. Il “social”-fascismo è una variante dell’Ur-Fascismo profondo

Il moderno “social”-fascismo, (dal camerata digitale all’attitudine gentista, «né di destra né di sinistra», che butta spazzatura sulle vittime del presente) è una forma di Ur-Fascismo, un’attualizzazione contemporanea di un fascismo profondo. Il concetto è stato definito da Umberto Eco in un famoso articolo, «L’Ur-Fascismo (Il fascismo eterno)», poi raccolto in Cinque scritti morali (Bompiani). Adesso colgo solo alcune delle sue suggestioni anteponendo una mia chiosa al corsivo virgolettato di Eco:

  • L’ur fascismo ha come brodo di cultura le classi medie frustrate.

«L’Ur-Fascismo scaturisce dalla frustrazione individuale o sociale. Il che spiega perché una delle caratteristiche tipiche dei fascismi storici è stato l’appello alle classi medie frustrate, a disagio per qualche crisi economica o umiliazione politica, spaventate dalla pressione dei gruppi sociali subalterni.»

  • A queste classi medie fornisce un farmaco coagulante di identificazione. Il farmaco ha tra i propri ingredienti le teorie del complotto mentre la xenofobia ne è il principio attivo. Il coagulante della marca Blut und Boden, sangue e suolo, ha però delle controindicazioni: garantisce le scalate nell’agone politico ma rischia di formare nel corpo sociale degli emboli fascisti. Quanto alle teorie del complotto, ormai diffuse tra rossobruni e qualunquisti, vanno intese come puro fascismo, ancorate come sono a «idee senza parole», come scriveva Furio Jesi, ovvero a idee che non ammettono dibattito o replica, verso le quali bisogna solo abbassare lo sguardo, pieni di riverenza. Parole come «Italianità», «Patria», «Tradizione», del fascismo di ieri, o «Sovranità» e «Geopolitica» del nuovo fascismo, contro le quali non si deve osare di argomentare una critica. Parole che servono a chiudere la bocca agli «avversari».

«A coloro che sono privi di una qualunque identità sociale, l’Ur-Fascismo dice che il loro unico privilegio è il più comune di tutti, quello di essere nati nello stesso paese. È questa l’origine del nazionalismo. Inoltre, gli unici che possono fornire una identità alla nazione sono i nemici. Così, alla radice della psicologia Ur-Fascista vi è l’ossessione del complotto, possibilmente internazionale. I seguaci debbono sentirsi assediati. Il modo più facile per far emergere un complotto è quello di fare appello alla xenofobia.»

  • L’ambito in cui si costruisce questo nuovo populismo non è più la piazza, dove si radunavano le masse del passato. È un populismo che può darsi appuntamento su internet.

«Per avere un buon esempio di populismo qualitativo, non abbiamo più bisogno di Piazza Venezia o dello stadio di Norimberga. Nel nostro futuro si profila un populismo qualitativo Tv o Internet, in cui la risposta emotiva di un gruppo selezionato di cittadini può venire presentata e accettata come la “voce del popolo”.»

Infine, Eco si sofferma sulla neolingua ur-fascista, sostenendo che «tutti i testi scolastici nazisti o fascisti si basavano su un lessico povero e su una sintassi elementare, al fine di limitare gli strumenti per il ragionamento complesso e critico.»

Ma oggi l’impoverimento non riguarda solo i codici testuali, il repertorio lessicale o le forme della sintassi. Sono le strutture stesse della competenza grammaticale che stanno arrugginendo, corrose dalle tossine delle scorie degli pseudo-commenti ur-fascisti, che ripetono e viralizzano coll’ossessione del maiuscoletto le idee senza parole. La lingua muore di demenza social-fascista.

4. Un’altra variante di Ur-Fascismo: i rossobrunismi

Il rossobrunismo è un’altra variante di Ur-Fascismo. La formula rossobruna occupa un campo semantico trasversale ma è di fatto una forma fascista. Un’alternativa reazionaria alla strategia «né di destra né di sinistra» che si realizza nella forma «di destra e di sinistra». Qui le teorie del complotto sono pervasive e spinte in senso apparentemente anticapitalista. L’anticapitalismo è in realtà coniugato come una forma di antiatlantismo/antiamericanismo. Le formule avversative sono fondanti. Sul quadrato semiotico, contradditori e contrari sono valorizzati: «il nemico del mio nemico è il mio amico». Tra le peculiarità dei rossobruni spiccano il primato della geopolitica, che permette di scavalcare la critica dell’economia politica; il culto della tradizione, che rivaluta l’iconografia sovietica; l’antimperialismo d’accatto forgiato con gli stampi campisti presi in prestito dalla nuova destra; l’attitudine identitaria, che si riflette nella macchina mitologica dell’uomo forte (un tempo Stalin o Mao, oggi Putin).  Il rossobrunismo come strategia politica è un cavallo di troia. Temete i rossobruni anche quando portano doni.

5. Reazione digitale

Il fascismo social contemporaneo è una trasformazione reazionaria di una sedicente rivoluzione digitale. Pertanto non si presenta in orbace ma adopra delle maschere accattivanti. È l’apologia di un gluteo femminile («le nostre donne», ovviamente) contro la hijab delle donne musulmane. Usa la liberazione sessuale, conquistata dalle femministe, contro le donne, come usa gli spazi che la democrazia gli concede con la speranza di sopprimerla.

Il fascismo in realtà è una poltiglia indigesta di idee reazionarie che si mangia qualsiasi cosa, che usa la «rivoluzione tecnologica» delle piattaforme social per la «reazione semantica» del linguaggio: riportando il discorso politico alle idee senza parole di cui parlava Furio Jesi.

Una caratteristica del nuovo fascismo è la trasformazione della liberazione dei corpi o della critica del lavoro da pratiche sovversive in pratiche edonistiche e commerciali: turismo, vacanze, vita quotidiana e sessualità spettacolarizzate, comprate, vendute, trasformate in merce. In questi giorni ad esempio è fascismo la rivendicazione del «diritto» delle «nostre donne» di mettersi a nudo: un recupero autoritario e mercificato del diritto delle donne (sovversivo) al controllo sul proprio corpo, trasformato in un diritto dell’edonismo patriarcale, ovvero dello sguardo maschile sul corpo delle donne. Ogni sedicente «rivoluzione fascista» del contemporaneo, per quanto glamour, è in realtà reazione. Ovvero è un attacco ai diritti o un recupero reazionario di pratiche sovversive.

6. Questioni di frame

È utile considerare la riflessione del linguista cognitivo George Lakoff sul framing, la rete semantica che incornicia il nostro modo di pensare e di parlare. Chi aderisce al framing reazionario non prova empatia per gli esseri umani oppressi. Anzi. Sarebbe ingiusto dire che chi è conservatore è immorale. Ha una moralità, ma è una moralità che non conosce la solidarietà e si nutre solo di obbedienza verso l’autorità e il potere. L’autorità implica la formazione di consenso top-down, dall’alto verso il basso. Il potere chiede disciplina e obbedienza. L’obbedienza si impone con la punizione. Nello sguardo del reazionario, è la gerarchia a strutturare la società, non la solidarietà.

Eppure i nostri giorni, più fluidi, sono lontani dalle rigidità dei fascismi storici. Il fascismo contemporaneo è in effetti una maschera, una configurazione di superficie attivata dal neoliberismo. Lo schema profondo può adattarsi alle logiche più liquide dei nostri tempi. Il frame si riconfigura allora sul mercato, che è il duce liberale della modernità. Il mercato è il padre che impone una disciplina, premia chi lo rispetta e punisce chi si ribella. Se sei ricco, hai rispettato il padre, hai una posizione, sei eticamente una persona morale. Se sei povero, te la sei cercata, sei un indisciplinato, ti meriti di morire per strada, senza empatia. È questa la struttura analitica profonda del fascismo social, un fascismo di abbronzati che si gonfiano in palestra, che non si vestono in orbace e in camicia nera, ma che spandono odio con gli smartphone, sperando di conquistarsi un po’ di notorietà. È il micro fascismo degli aspiranti famosi, che fanno dell’hate-speech un manganello digitale.

Pochi di loro si travestono da fascisti “tutti d’un pezzo”. La maggior parte sono bi-concettuali, ovvero attivano scenari progressisti e reazionari nello stesso tempo, o in campi diversi o addirittura nello stesso campo. Questa è la ragione per cui nei moderni populismi, inclusi quelli gentisti, si sovrappongono nella retorica di un militante discorsi progressisti e discorsi apertamente fascisti. Il bi-concettuale può dichiararsi progressista ma in realtà fa riferimento a retoriche, metafore e sceneggiature conservatrici. Ad esempio, può farsi le canne e odiare gli immigrati. Sognare di viaggiare in moto fino alla fine del mondo con una bandana in testa e pretendere muri alle frontiere e respingimenti per chi scappa dalla guerra. Sono finiti gli anni in cui i fasci avevano i Ray-Ban o la giacca e cravatta e i compagni l’eskimo o i dread: adesso le forme del pensiero e del vestire, la semiotica dell’abbigliamento e degli stili di vita è diventata più complessa. Solo scivola lentamente verso valori reazionari. Si può ascoltare i Pink Floyd, mangiare a chilometro zero e, al tempo stesso, fregarsene della morte di un operaio straniero schiacciato durante un picchetto. Si dà tutto e il contrario di tutto, perché negli ultimi tempi i modi di vestire, di parlare, di vivere e di pensare stanno slittando verso un bi-concettualismo virato alla reazione. Visioni libertarie e visioni autoritarie convivono nell’immaginario delle persone, ma la bilancia pende pesantemente a destra. Sono anni di passioni tristi.

Il “social”-fascista usa il manganello digitale, per quanto sgrammaticato, per bastonare virtualmente i migranti («l’immigrazione clandestina»), le donne che rifiutano gli stereotipi patriarcali («cagne»), gli adolescenti che scoprono di avere identità sessuali molteplici («froci»). Il fascismo social è cyber-bullismo. Nei commenti di Facebook i social-fascisti aggrediscono sistematicamente ogni forma di diversità che vada contro l’idea di edonismo aggressivo, muscolare e predatorio alimentata dai media. Usano l’ironia virtualmente, ma i loro commenti saturi d’odio fanno cose con quelle parole. C’è chi viene respinto, chi si suicida, chi viene marginalizzato, chi viene pestato. Il fascismo se la prende sempre con chi non si può difendere.

Visitate alcuni dei profili dei populisti beceri di questi giorni. Troverete continui meme che stigmatizzano le vittime, che soffiano sulle braci sempre calde dell’omofobia, che attizzano i carboni ardenti delle persecuzioni razziali e religiose, che si fanno beffe dell’operaio travolto da un tir durante un picchetto, delle donne “che se la sono andata a cercare”, che magari subiscono lo slut-shaming, ovvero la criminalizzazione dei loro comportamenti sessuali quando non rispettano le aspettative di genere.

Tra un gattino e un altro, scompaiono dalle bacheche dei social la solidarietà, l’empatia, la capacità di commuoversi per gli oppressi, sostituite dalla forca «per quelli che in Cina mangiano i cani», dallo spregio «per i paesi musulmani in cui la pedofilia è legale», dalla scoperta dell’ultimo complotto che accusa i cripto-poteri forti (e proscioglie il padronato e i ceti benestanti), dall’elogio rossobruno a Putin. Seguono consigli per curarsi in omeopatia, un post sulle scie chimiche, un adesivo contro la casta dei professori del ‘68 e un consiglio antivaccinista contro il monopolio delle multinazionali del farmaco. Nessun vaccino contro le tossine che aggrediscono un pensiero critico in esponenziale metastasi, soffocato da tonnellate di spazzatura digitale. Nessun rimedio omeopatico per sostenere il sistema immunitario della critica radicale.

Poche convinzioni ma ben radicate: la vittima la deve pagare, è il meme che condividono sul loro profilo a ogni giro di hate-speech con cui chiosano i fatti di cronaca, sia l’ennesimo attentato o uno sbarco di profughi o una rapina in villa. Inutile fare sociologia coi numeri, indicare tabelle, statistiche, comparare dati. Inutile il debunking e la statistica comparativa, inutile distinguere tra percezione del crimine e numero dei reati. Loro presidiano il commentarium come troll accaniti contro i «buonisti». Come squadristi compiono raid virtuali alla ricerca di professori che propugnano fantomatiche «teorie gender». Sbraitano contro chi sta dal lato sbagliato del mercato, che è il duce di questi fanatici del quattrino perlopiù impoveriti, palestrati, gonfiati, depilati col laser, incattiviti, impauriti e incapaci di esprimersi in forma argomentata. Dicono che gli stranieri «devono sapere l’italiano», lingua che vituperano sistematicamente a ogni incrocio di commenti nei vomitatoi dei social, dove si riproduce e trionfa una comunicazione pecoreccia e ombelicale, tanto più pervasiva tanto meno si riesce a fare esercizio di complessità, a procurarsi degli strumenti per la comprensione analitica del presente. Ecco la generazione seconda del mutamento antropologico stigmatizzato da Pasolini, i figli di Adamo ed Eva che dopo aver mangiato la mela della società mercantile hanno subito una mutazione dei corpi che ha risemantizzato l’edonismo sovversivo («vogliamo tutto») in un edonismo commerciale. Vogliono tutto quel che gli propinano, sognano di comprare tutto sulle piattaforme digitali, passano con la ruspa di un immaginario infetto su empatia, solidarietà e diritti umani. E intanto il padrone della piattaforma ghigna: è free, è social, ma lo pagherete caro, lo pagherete tutto.

Alcuni testi di riferimento

G. Lakoff, Pensiero politico e scienza della mente (Bruno Mondadori, 2009);
G. Arduino, L. Lipperini, Morti di fama (Corbaccio, 2013);
E. Golino, Parola di duce (Rizzoli, 1994);
U. Eco, Cinque scritti morali (Bompiani, 1997);
F. Jesi, Cultura di destra (Garzanti, 1993),
M. Aime, Eccessi di culture (Einaudi, 2004).

* ALBERTO PRUNETTI (Piombino, 1973) ha pubblicato i libri Potassa, Il fioraio di Perón, Amianto. Una storia operaia e PCSP. Piccola Contro-Storia Popolare. Traduttore e lavoratore culturale free-lance, scrive su Letteraria, Giap, Il manifesto e altre testate.

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17 commenti su “Appunti sul Social-fascismo. La condivisione delle «idee senza parole»

  1. articolo molto interessante, da cui possono partire moltissime riflessioni.
    comincio facendo un piccolissimo (e forse pedante) appunto: il concetto di ‘idee senza parole’ non è stato pensato da Jesi ma da Oswald Spengler che Jesi cita nell’introduzione a Cultura di Destra. riporto la citazione completa perché è molto interessante:

    “L’unica cosa che promette la saldezza dell’avvenire è quel retaggio dei nostri padri che abbiamo nel sangue; idee senza parole”.

    Partendo da qui, ha ragione Prunetti a paragonare la destra social a quella di Spengler: sui social corre una nostalgia di un passato inesistente che, appunto, non ha bisogno di essere spiegato o di essere dimostrato vero, basta *condividerne* le premesse fallaci. Il classico esempio è l’Europa pre-immigrazione, l’età mitica degli anni ’50 (di cui parlava lo stesso Breivik nel suo manifesto) quando l’Europa era razzialmente omogenea e i papà tornavano a casa dalle mogliettine adoranti che avevano preparato l’arrosto.

    Restando nell’introduzione a Cultura di Destra, Jesi poco dopo aver citato le idee senza parole fa questa riflessione sugli ideali delle SS:

    “Essi disponevano di un vero e proprio linguaggio letterario adatto alle ‘idee senza parole’, cioè fatto di parole tanto spiritualizzate, tanto lontane dal ‘materialismo’, la loro bestia nera, che evidentemente potevano fungere da veicolo appropriato per le ‘idee senza parole’ “.

    Seguendo questo ragionamento, ha ragione Prunetti a notare come il linguaggio della destra social non può essere minimamente scalfito dalle analisi rigorose o dal fact checking: il linguaggio di destra nasce proprio in opposizione al materialismo citato da Jesi e alla cultura di sinistra che tende invece a destrutturare la realtà e i concetti, non fidandosi dell’epica monumentale del ‘caps lock’ di cui parla l’autore.

    Condivido in tutto e per tutto la riflessione finale di Prunetti, e tutto ciò mi spinge ad una riflessione abbastanza amara, cioè che ai bot si può rispondere solo coi bot, ai troll si può rispondere solo con troll più aggressivi, alle provocazioni si può rispondere con provocazioni di segno opposto. Purtroppo la rete premia l’assenza di empatia e l’ironia beffarda su qualsiasi argomento, bisogna trovare il modo di inserirsi in questo discorso e rovesciarlo.

    D’altronde, solamente negli ultimi anni la destra social ha preso il sopravvento e “l’egemonia culturale” su internet: dai tempi di Indymedia il pallino era rimasto in mano alla sinistra ma l’avvento di piattaforme come Facebook e Twitter che spingono al conformismo di massa ha purtroppo cambiato radicalmente le cose nell’ultimo decennio.

  2. Parto dalla fine, dalla serie di comportamenti “inutili” di fronte al “social”-fascismo: cosa fare quindi? Quali strategie si possono mettere in campo? E’ possibile interagire, arginare, contrastare questo fenomeno o è per sua natura impossibile da influenzare?

  3. Davvero un articolo, lasciatemi dire, “importante”. Ricchissimo di spunti, a partire dal paragrafo 5, illuminante.

    Quello che mi colpisce sempre è però lo stretto legame tra fascismi e la pseudo-cultura del “complottismo”. Se n’è già parlato su Giap credo, ma mi preme sottolineare quanto la realtà “social” abbia incrementato il fenomeno con i vari siti di “informazione alternativa”, parenti strettissimi di quelli “bufalogeni”: si va dai mai dimenticati Protocolli di Sion, ai vangeli apocrifi, alle varie massonerie finanziarie, alle scie chimiche, fino alle colonizzazioni aliene.

    È stato qui già detto: evidentemente la volontà di descrivere la realtà come monolitica e priva di contraddizioni interne (vd. classi), non può concepire che quel poco di verità che ci è concesso conoscere vada setacciato tra le maglie della vita e delle sue menzogne (un poco di verità e un poco di vita, direbbe Foucault).

    Molto più semplice e semplicistico riporre ogni speranza di verità in mi(s)tici altrove nello spazio e nel tempo (la pre-colonizzazione aliena del pianeta Terra!!!) o far derivare tutto il male del mondo a complotti finalmente svelati di gruppi sociali “estranei” che non si conoscono mai davvero.
    Oltre che assolutamente funzionale al discorso del potere: sostituire in toto una verità “ufficiale” con una “alternativa” non sposta di un millimetro gli equilibri del\dei potere\i.

    Inutile sottolineare il legame di questo background con Grillo e (almeno) i Grillini della prima ora.

    • In che senso Giacobbo è razzista quando tira in ballo gli alieni? Avevo analizzato qui la continuità del suo discorso con quello eurocentrico ottocentesco: http://www.marianotomatis.it/blog.php?post=blog/20140320

    • L’autore cita l’ur-fascismo di Eco, ed in effetti l’articolo sembra un’efficace e importante attualizzazione in chiave social di quelle riflessioni.
      Eppure, dopo l’ultima riga, mi è rimasta la bocca (per quel che vale la mia bocca) asciutta; senza peraltro capire subito perché.
      Ci ho pensato un po’, e più che di un limite dell’analisi in sé, si tratta imho della presenza di un “di piu” che “cannibalizza” l’analisi stessa (non sto parlando di contraddizioni) e che può risultare fuorviante nelle menti di molti. Cerco di spiegarmi meglio.
      Sostanzialmente, mi pare che si sia indugiato troppo nell’indicare la sottocultura del tronista/bomber/padroncino, e i rossobruni, quasi come uniche “classi social” a comporre il social-fascismo.
      Questo (magari è un film che mi faccio: ditemelo) potrebbe portare i progressisti borghesi a vedersi nuovamente nello stesso nostro campo, sia pure solo nella dimensione social, quando non è così.
      Il social-fascismo può essere rozzo in alcune forme, ma anche insidioso e ripulito nei discorsi di tanti liberals, direi anzi che ne è un aspetto importante: spugnette, legalismo e discorsi su “Il Nostro Paese” – al posto di “Patria” – sono nati anche in questi ambienti (virtuali). Se, come rileva giustamente l’autore, il Duce ora è il mercato, sinceramente non ritengo che la grammatica divida liberals e social-fascisti più di quanto le Leggi (col maiuscolo, appunto) del capitale li unisca.
      Forse nel caso dei primi non ci saranno cose come razzismo e omofobia, ma ce ne sono le premesse.
      Non vorrei essere frainteso: la mia è un’osservazione puntacazzista, nulla più, perché condivido del tutto il contenuto del post.

      • Non era mia intenzione colpire solo questo sottoproletariato. Che poi è un sottoproletariato che può essere anche borghesia. Lumpen-borghesia, cetomediume, la borghesia più ignorante d’Europa di cui diceva Pasolini. Bisognerebbe parlare anche del caso italiano, l’assenza tipicamente italiana di una borghesia giacobina. E poi tentare di raccontare anche quella che tu chiami borghesia liberal, che è poi quella borghesia progressista che, dimenticando la centralità operaia del passato, il conflitto e la lotta di classe, naviga oggi a vista: costretta ad accettare la società dei consumi, predica un capitalismo ben temperato, un consumo critico, equo e responsabile, ecologico ed accorto. Certo che è dura fare egemonia mangiando pane di kamut… Ma per questo ci vorrebbe un altro articolo, più che un commento.

        • Giusto, richiederebbe unampia trattazione a parte. In Francia si scrive molto sui “bobos” (bourgeois-bohémiens), libri interi, seri o faceti, soprattutto ora che la categoria è in evoluzione (e si sposta a destra). Il punto mi sembra questo, vediamo se riesco a esprimerlo bene.
          Diciamo che ho voluto coinvolgere la sinistra borghese nel tuo discorso sul social-fascismo – riconosco la forzatura concettuale che però spero feconda – perché mi sembra che la sua responsabilità non stia solamente nell’estraneità ad ogni discorso di classe che non sia paternalistico, ma anche nel proporre una versione “di sinistra” di patriottismo, legge&ordine, merito, ecc., variazioni di un tema che deve rimanere uguale a sé stesso, quello del capitale.
          È questo che imho dà la stura anche alle oppressioni più plateali sul web da parte dei social-fascisti più reazionari: se ora pure i socdem dicono X, i fasci dovranno dire X+.
          È tutto il fronte che avanza, non so se mi spiego.
          Meritocrazia può essere il rutto in faccia al povero sulla bacheca del bomber, ma anche la pontificazione di un piddino con la pezza d’appoggio Alesina-Giavazzi-Ichino, per dire.
          Senza contare che il rovescio dell’antiintellettualismo più rozzo è il classismo insito nello scherno di una presunta intellighenzia di sinistra, che giustifica il proprio compiacimento con la colpevolizzazione liberale dell’individuo. Se sei ignorante (o povero, o…) è colpa tua: la facile morale del privilegio.
          (Da par mio, sono con Tronti: la cultura è sempre borghese. Il sapere poi è una questione diversa.)
          Ora che il libero mercato è un punto (più o meno) fermo in buona parte della sinistra, molti non si accorgono che il capitalismo necessita precisamente di quella ideologia per esistere, che se c’è questa è solo perché c’è quello. A volte per trovare un paradossale materialismo bisogna leggere il sole 24 ore, mentre del macinare ideologia borghese si occupano la sinistra, i sindacati e perfino Landini.
          Poi come dici tu è tutto molto fluido nelle identità politiche oggi, quindi anche a sinistra c’è un continuum ideologico che va dai vendoliani (e anche certi comunisti) ai liberaldemocratici con varie mescolanze, che si arresta però bruscamente dove comincia una prospettiva di classe.

  4. Grazie delle riflessioni: è quello che penso anche io da un po’ sebbene sia, allo stesso tempo, affascinato anche dalla “variante populista” (cfr. Carlo Formenti) come prospettiva possibile per la sinistra italiana (e non solo) di uscire dalle sabbie mobili contemporanee e prospettare una nuova “egemonia”.
    Ma di quella prospettiva non mi convincono le sirene sovraniste: ciò che parla di nazione puzza di etnicità e di fascismo sempre. C’è un modo per coniugare populismo di sinistra e processo di integrazione europea?

  5. Nel frattempo, da appendere al paragrafo “asserti falsi”, è uscita questa inchiesta di Matteo G.P. Flora su siti che spacciano pseudonotizie. Non a caso dietro a tutto sembra esserci un tizio così tanto di estrema destra che perfino FN lo ha buttato fuori…

    http://www.agi.it/cronaca/2016/12/16/news/libero_giornale_fake_news_siti_italiani_grillo_movimento_5_stelle_matteo_ricci_mingani-1318432/

  6. Come chiedeva qualcuno in questa discussione: che fare per contrastare questo neofascismo nemmeno tanto latente. Silone, nel suo Fontamara, contro l’opprimente dittatura fascista chiude il suo capolavoro con la stessa domanda: che fare?

    • Ho provato a fornire elementi di risposta qui.
      Quando irrompono lotte vere, che attaccano la contraddizione primaria, tutti i fascismi (compreso quello “social”) sono spinti in secondo piano.

  7. […] ■ Dall’ultimo speciale su Un viaggio che non promettiamo breve sono successe tante cose, piccole e grandi, dentro e intorno al libro e alla lotta che il libro racconta. Avvolto dal silenzio dei media mainstream nazionali, o al massimo da resoconti frammentari e superficiali, il tribunale di Torino continua a macinare processi ai No Tav. Due, relativi a vicende che fecero scalpore, si sono conclusi con piene assoluzioni. Tutto è bene quel che finisce bene? In parte sì. Peccato solo che gli assolti, in questi anni, siano stati coperti di merda a mezzo stampa ed esposti ai trattamenti pece-e-piume del «fascismo social». […]

  8. […] Un comunicato che andava a rimarcare le parole pronunciate il giorno dell’arresto dal procuratore capo di Modena, Lucia Musti: “Abbiamo il sospetto che altri imprenditori siano stati vittime di questo sistema estorsivo. A loro chiediamo di farsi avanti. La pace sociale non può essere merce di scambio”. (Pare proprio che i magistrati con l’elmetto non frequentino solo la Val Susa.) […]

  9. […] educazione. Ed è, inoltre, la prova provata dell’uso massiccio, nei suoi testi, di “idee senza parole“, di idee e concetti che non necessitano di ragionamenti e spiegazioni per generare un […]

  10. Articolo da incorniciare.
    L’unica cosa sulla quale dissento è relativa all’ includere il termine “sovranità” tra quelli tipici impiegati dai fascisti. Non che non lo sia. Anzi.
    Oggi però dovrebbe essere un valore condiviso da ogni parte. Mi riferisco a quella monetaria grazie alla quale ad esempio se avessimo ancora adesso la lira avremmo potuto svalutarla evitando di svalutare il costo del lavoro. Saremmo stati in grado di esportare le merci con una valuta non sopravvalutata (lo dice Standard & Poor). Questo immagino avrebbe evitato di bruciare molto posti di lavoro.

  11. […] questa infiltrazione capillare nell’immaginario collettivo, e che legame abbia con fenomeni come lo squadrismo da social network e le aggressioni a colpi di spranghe davanti alle discoteche di provincia. O con la reticenza dei […]

  12. […] Prunetti, 2016, Appunti sul Social-fascismo. La condivisione delle «idee senza parole» | Wu Ming Foundation […]