Cent’anni a Nordest, terza puntata | Fantasmi sulle montagne

Fantasmi sulle montagne

[WM1] Con la terza puntata si conclude la pubblicazione, sul sito di Internazionale, del mio racconto-inchiesta sulle tensioni a Nordest nel centenario della Grande guerra.

Qui si parla di paesaggio, di montagne, di Trento e Bolzano, degli Alpini, degli Schützen, dei trentini che combatterono nell’esercito austroungarico, dei “relitti fascisti” in Alto Adige, di statue distrutte più volte, di “identità tirolese”, del tasso di suicidi nelle zone alpine e ancora di disertori, i disertori “dell’altra parte”.

Non solo: si tirano i fili delle puntate precedenti. Perché si fa presto a dire «Nordest», ma per spiegare cos’è, bisogna raccontare un po’ di storie. Storie che molti non gradiscono, e dietro al ponte c’è un cimitero, cimitero di noi soldà
(Ta-pum, ta-pum, ta-pum! Ta-pum, ta-pum, ta-pum!)
Quando sei dietro a quel muretto, soldatino, non puoi più parlar
(Ta-pum, ta-pum, ta-pum! Ta-pum, ta-pum, ta-pum!)
Buona lettura, e godetevi la Santa Pasqua. Noi apriremo i commenti qui sotto martedì 7 aprile.
(Ta-pum, ta-pum, ta-pum! Ta-pum, ta-pum, ta-pum!)

Qui tutte e tre le puntate del reportage.

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37 commenti su “Cent’anni a Nordest, terza puntata | Fantasmi sulle montagne

  1. Il Corriere dell’Alto Adige intervista Wu Ming 1, 07/04/2015:

    «GRANDE GUERRA, OCCASIONE PER RIFLETTERE SUL NORDEST»

    di Massimiliano Boschi

    «Fantasmi sulle montagne» è la terza puntata del reportage che lo scrittore Wu Ming 1 ha scritto per «Internazionale». Un racconto-inchiesta sul «Nordest» che si è concluso con un lungo articolo dedicato al Trentino Alto Adige. Un lavoro approfondito scritto con lo stile preciso ed esplicito a cui ci ha ormai abituato il collettivo di scrittori Wu Ming.

    Wu Ming 1, il reportage tocca diversi temi «sensibili», ci chiarisce cosa intende con «Nordest»?

    «Ci sono diversi usi del termine Nordest, uno molto banale, da chiacchiera quotidiana, che è praticamente sinonimo di Veneto e non a caso si usa molto in Veneto, dove tutti i discorsi sono venetocentrici. Ma Nordest è l’Italia nordorientale. Comprende tre regioni che, insieme, compongono l’area che fino a poco tempo fa si definiva comunemente Triveneto, nome che a sua volta aveva sostituito l’obsoleto e nazionalista Tre Venezie».

    E l’Alto Adige fa parte di questo Nord-Est?

    «Se mi chiede a cosa corrisponda geograficamente l’attuale Nordest, rispondo: alle vecchie Tre Venezie ma senza Istria e Dalmazia e con l’aggiunta – alquanto posticcia – del Sudtirolo. Ossia, l’assetto geografico e demografico dell’Italia nordorientale è una conseguenza della Grande guerra. Dire Nordest è come dire il fronte italiano, tanto a nord quanto a est. Questo è ciò di cui parlo nel mio racconto, è il comune denominatore di territori così diversi tra loro. Se non lo capiamo, non capiremo le contraddizioni che oggi attraversano queste terre. È una storia lunga. Una storia che con il centenario torna in primo piano».

    Una terra in cui si scontrano propagande nazionaliste e movimenti indipendentisti…

    «Il fatto che in tutto il Nordest nascano, accanto a quelli storici, nuovi movimenti indipendentisti con tratti comuni (in primis una forte vena austronostalgica) è uno dei sintomi con cui si esprimono mali recidivi per troppo tempo rimossi. Costoro sono l’altra destra, contrapposta a quella “italianissima”. Nel Nordest un’altra destra è sempre esistita, ma per molto tempo è rimasta “in sonno”. Negli ultimi anni si è risvegliata. Può trattarsi di movimenti minoritari (non dappertutto), ma pescano e amplificano discorsi e sensibilità che vanno ben oltre i loro numeri. È ai loro enunciati che bisogna porre attenzione, prima che alle percentuali elettorali, che dicono molto meno di quel che che serve. Quelle del Nordest sono terre dove la propaganda nazionalista ha pestato più duro che altrove e più a lungo».

    E limitandosi all’Alto Adige?

    «In provincia di Bolzano l’altra destra è sempre stata visibile e attiva, quindi in apparenza si potrebbe parlare di una sudtirolesizzazione del Nordest, di una… schuetzenizzazione o anche evaklotzizzazione degli autonomismi. Ma non regge: in Alto Adige le due destre sono rigidamente separate su base etnica, la destra non-italianissima è germanofona. Nel resto del Nordest, invece, entrambe le destre sono composte prevalentemente da italofoni. E’ così a Trento, a Trieste, nella Venezia euganea… Come dico nel reportage, la situazione a Bolzano mi sembra più leggibile. Altrove, le linee di conflitto sono più frastagliate».

    Come valuta le celebrazioni del centenario della prima guerra mondiale?

    «Può essere un’occasione per riflettere su tutto questo, sul fatto che il Nordest ha la sua dannazione ma anche la sua grande potenzialità nell’essere una complicata borderland, una terra di confine creata quasi cent’anni fa dallo scontro tra Italia e Austria e plasmata dalla grande storia del 900. Ma, dopo avere studiato per mesi l’andazzo con cui si va alle celebrazioni, e considerato come siamo messi in Italia in questa fase, temo che l’occasione andrà in gran parte sprecata».

    • Sono un grande ammiratore del collettivo Wu Ming. Mi piacciano i loro libri e come scrivono. A volte invidio la loro scrittura ed è sempre stato per me un mistero la loro capacità di amalgamare i tanti in un unico. Forse per quello la delusione nell’incontrare lo scritto di Wu Ming 1 , “Cent’anni a nord est” è stato tanta e non può bastare l’etichetta, un po’ ‘banalizzante’ e forse un po’ ‘furba’, di racconto-inchiesta a smorzarla. Molte le cose da dire. Troppe e così non vorrei affrontare il merito, ma il metodo. Perché penso che affrontare il ‘merito’ – come a tanti piace soprattutto a Nord Est – senza prima di affrontare il metodo ci porti in una stanza senz’aria e non ci faccia uscire da quelle paludi, vischiose, in cui tanto a Nord Est si è trascinati. Noioso e complesso affrontare le questioni di metodo, ma ci si può fare bene poco; il fare storia è una disciplina e da questo non si scappa. Neppure con un sottotitolo.
      Per arrivare alla storia, però, prima devo passare dal romanzo storico. Un percorso obbligato. Un percorso che faccio come un semplice lettore non avendo in nessun modo le competenze per affrontare la questione da un altro punto di vista. Molto difficile per me, forse perché sono uno che fa lo storico di lavoro, forse per una banale questione di gusti, forse per pedanteria, apprezzare i romanzi storici. Si avverte lo stridio di contesti mal costruiti e di personaggi fuori tempo che si muovono, figure standardizzate uscite dalla commedia dell’arte, su scenari fissi. Eppure quelli scritti dal collettivo Wu Ming mi piacciano. Da un lato per la capacità di ricreare contesti credibili, dall’altra di costruire personaggi complessi che mi spingono ad accettare l’inganno; a credere – nonostante la quantità notevole di ponderosi volumi, saggi, documenti d’archivio, lezioni, convegni ecc. che ho ‘subito’ – che siano veri. Perché quello che cerco in loro, e penso che sia quello che danno, è il messaggio ‘universale’ che forniscono. Non chiedo loro l’esatta ricostruzione degli eventi, dei contesti e delle razionalità e irrazionalità degli attori coinvolti, chiedo loro una costruzione di senso. Per questo mi lascio ingannare. ‘Q’ – per me, a mio gusto – è il miglior romanzo storico che ho letto. Lo è per la sua capacità di ridare il senso di aspettative, delusioni, confusioni, dolori, errori, pazzie, sofferenze, calcoli, miserie, sogni, cattiverie, bontà ecc. che stanno dietro un grande episodio della storia come la riforma protestante e la rivoluzione contadina.
      La capacità di dare conto di tale senso e di un contesto credibile sta anche, credo – non è il mio mestiere – nella capacità di scegliere le fonti e usarle. In questo caso, ancora suppongo, fonti bibliografiche, cioè edite, più o meno recenti. Opera di altri autori, al più se disponibili cronache e diari. Nell’enorme infinita produzione disponibile immagino ci sia bisogno di un po’ di capacità di scelta e di fortuna e anche di molto lavoro. Però, dato che l’esito non è quello della ricostruzione ‘storica’, ma della riproduzione narrativa di un senso, esistono margini di manovra un po’ flessibili. Ad esempio, penso all’ultimo libro di Wu Ming, L’armata dei sonnambuli. Confesso non l’ho letto tutto. L’ho comprato, trepidante, e lo stavo leggendo e poi mia figlia lo ha preso in prestito e da allora, alcuni mesi, lo sto inseguendo, a centinaia di chilometri di distanza, nel suo girovagare nel mondo degli studenti fuori sede, restio a fare un nuovo investimento in un ulteriore copia finche c’è una speranza che torni a casa. Tuttavia è sufficiente per quello che voglio scrivere. Nella logica del romanzo non è necessario rincorrere il dibattito su quella rivoluzione arrivando, ad esempio, al concetto elaborato da Régine Robin di rivoluzione dei proprietari (concetto che tanto a mio parere può spiegare di tale evento) o mettere in discussione i successivi miti della separazione tra stato e società. Anzi, forse bypassare molto della storia analitica e modellistica – spesso banalizzante – prodotta dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso può aiutare nello scrivere un romanzo. Ricorrendo, magari, a quella produzione erudita e cronachistica del secolo precedente che da tanto più spazio al racconto, alla narrazione, alle vite di donne e uomini, alle lacrime e al sangue. Ad esempio, mi viene in mente ‘La Rivoluzione francese’ di Jules Michelet, scritta a cavallo della metà del XIX secolo. Proprio perché obiettivo e manufatto sono diversi. Così diversi che qualche tempo fa sono apparse quasi ridicole le obbiezioni di un altro storico professionista, che ha rischiato di apparire un po’ pedante, il quale, volendo opporsi al senso di un romanzo come ‘Altai’, fa le pulci, in modo azzardato, ai dati storici che contiene. Non è questo il punto è ovvio.
      Infatti, poiché sono all’antica, penso che il fare storia sia un procedimento assai diverso. Non perché non conosco gli annosi e profondi dibattiti che in merito sono avvenuti, ma proprio perché li conosco penso che compito dello storico sia altro. Sia quello di cercare di ricostruire quanto più possibile la ‘realtà’ degli avvenimenti. Ovvio in base a quello che le fonti, documentarie, permettono. Questo perché le vite, il sangue, le lacrime, le sofferenze sono vere e vanno rispettate nella loro dignità.
      Ben vorrei io che la storia non fosse vita reale, ma letteratura e nient’altro, Ma la storia è stata vita reale quando ancora non si poteva chiamare storia (Josè Saramago, Storia dell’assedio di Lisbona, Bompiani, Milano, 1990, p. 13)
      Quindi bisogna rispettare quelle storie e le fonti e avere la capacità di costruire ipotesi e analisi, tenendo ben distinti e riconoscibili, i dati ricavabili dalle fonti. A quello servono le noiose note a piè di pagina. Niente di nuovo da quanto scritto nella prima metà del Novecento da Marc Bloch in ‘Apologia dello storico o mestiere di storico’. Tuttavia innovare non sempre è un miglioramento, lo vediamo tutti i giorni, e se una tradizione è giusta va difesa.
      Per questo mi posso permettere la delusione per quest’ultimo racconto-narrazione. Ancora ripeto senza entrare nel merito, ma restando sul metodo per indicare quelli che ritengo essere i principali errori fatti. Senza stare nascosti dietro il sottotitolo. E muovendomi con enorme grezzezza perché non mi è facile condensare tali concetti.
      Innanzitutto ripropone, sostanzialmente, l’idea che fare storia sia raccontare fatti già noti. Una vulgata che inizia ad affermarsi negli anni Ottanta e che mette insieme persone di un ampio spettro politico; partiti di destra e di sinistra e un mondo culturale e politico che si trovano a condividere l’idea che sia necessario limitarsi a raccontare un mondo che non deve più mutare e quindi non si deve analizzare, ma descrivere. Invece, fare storia è soprattutto studiare e analizzare le fonti e su queste costruire ipotesi e analisi. La narrazione è parte minoritaria. Non si deve trasformare la storia in una sorta di ‘telefono senza fili’ – non il cellulare, ma il gioco che facevano generazioni vecchie – da cui esce una vulgata sempre più innocua e sgangherata. La storia è così una disciplina debole, manipolabile, malferma e fare lo storico, avere capacità di rapportarsi al passato, è la cosa più semplice del mondo. Questo è il punto centrale e la trappola fondamentale.
      Se si cade in tale trappola si ha una storia fatta di contesti dati e immobili in cui si muovono attori dati, di cui occorre soltanto ricostruire le azioni. Compito dello storico è invece quello di smontare i contesti e gli attori nei loro fattori primi. Si tratta, ad esempio, di smontare le appartenenze e le identità; capire perché e come sono state costruire e perché e come sono state immaginate e utilizzate. Non ci si può limitare a descrivere quali azioni hanno fatto italiani, slavi, austricanti, comunisti, fascisti ecc., ma si tratta di smontare quelle identità e come state costruite e mobilitate. Invece nel racconto-narrazione si ripropone una storia di fattori dati. Lo stesso procedimento viene usato nella ricostruzione dei contesti ricostruiti utilizzando vulgate e miti, presi come dati. Scenari immobili. Miti. Le identità degli attori, le storie pregresse veneziane, imperiali o altro il passaggio dall’economia austriaca a quella italiana, l’uso delle memorie ecc. Senza domandarsi cosa mai fossero tali manufatti, che erano creazione umana e non fattore naturale.
      Da qui la ridondanza dei dibattiti intono al merito; perché nella misura in cui è preso per dato si rafforzano le posizioni dei contendenti che utilizzano la storia come campo di battaglia e clava. Di fatto specchiandosi e cercando di conquistare, sui diversi tavoli, la forza per imporre la propria visione. Il tutto si trasforma nella fissazione di linee di tempo (dell’età dell’oro, della nascita, della primogenitura, del primo atto, della prima pietra) e di linee morali: il più cattivo, il più buono. Una storia che diventa ideologica e che non ha via d’uscita. Su cui, però, sono state costruite e si costruiscono importanti ruoli di mediazione e importanti narrazioni.
      Solo la decostruzione di tutto ciò può far uscire dalle vischiosità. Affrontarlo come prodotto umano e non della natura nei sui fattori primi e partendo sempre dalle fonti.
      L’autore non è uno storico, ma la sua ambizione lo è e deve essere quindi sostenuta da un agire congruo. E come tale può essere discussa. Così il suo procedere rivela un vizio di fondo. Se il presente è studiato in modo critico, l’approccio al passato non è mosso da curiosità. Non si confrontano ipotesi, si prende tutto per dato. Non si tiene conto del fatto che la ricostruzione del passato è frutto di procedure complesse, sia nella sua successiva ricostruzione, sia nel momento stesso in cui avviene. Gli attori la manipolano da subito. Ci sono rapporti di forza, equilibri di potere, vinti e vincitori. Di fatto, nell’accettare il terreno di gioco proposto da quanto pare si voglia superare, rimane tutto immerso nella logica stabilita. Ha perso in partenza. La visione della storia accettata, le vulgate accolte, gli strumenti utilizzati testimoniano il suo essere nel labirinto. Avvalla, di fatto, letture, silenzi e omissioni. Non cerca le ipotesi alternative.
      Questo sfocia nella riproduzione di vulgate banalizzanti. Riduttive. La ricostruzione del passato non rivela una logica; è forse determinata dai miti più famosi o da circostanze apparentemente casuali, dalle conoscenze personali, o da alcune rilevanze proprie del mondo accademico e culturale? Forse la fama? Se fosse, strano metodo se si parte da una critica, attenta e spietata, dell’oggi. Un oggi che viene letto con lo sguardo del dubbio e un passato che viene accolto come un tutto, un tutto pret a porter. Una qualcosa di facile utilizzo al fine di sostenere prospettive per l’oggi. Questo è l’errore di metodo più grave.
      A concludere Wu Ming I afferma la mancanza e la necessità di mediatori culturali tra Nord Est e il resto d’Italia. Questo mi pare la prova dell’orizzonte in cui si è mosso. Ancora una volta, di fatto, è affermata l’insularità. Tuttavia tutto il mondo ha avuto storie complesse, difficili e dolorose. Non è una specialità del Nord Est; la sua specificità è semmai la collocazione nel tempo e la vicinanza a noi di queste storie. Non c’è bisogni di mediatori che mettano in comunicazione due mondi separati e dati. Bisogna ricostruire le strutture e le vicende degli spazi, iniziando, mi ripeto, dalle strutture profonde che sono intessute di relazioni e scambi. Per cui Il Nord Est, come ogni altra parte del mondo, ha bisogno di bravi storici – che facciano quanto scritto da Marc Bloch – e di bravi divulgatori, che sappiano evitare mitizzazioni, romanticismi, vuote retoriche e vulgate. E sappiano vagliare e cercare le loro fonti, confrontando e comparando le diverse ipotesi. Perché è pessima presunzione dei nostri giorni pensare che non esista quello che non si conosce e rischiare o di ignorare possibili risposte o di pensare di aver scoperto, come avviene spesso nel mondo accademico, il già noto. Invece, a mio parere, i bravi divulgatori, qualora vogliano occuparsi di storia, dovrebbero sapere dare il senso del lavoro degli storici e della storia, diverso, questo, da quello proprio dei romanzi, ma comunque esistente.
      Lo so; corro il rischio di fare la figura del pedante frustrato. Tuttavia ho fatto figure ben peggiori. Peggio, però, far correre sta volta – non ne ho voglia – e rischiare che, legittimate anche dal timbro di importanti romanzieri ‘alternativi’, si rafforzino narrazioni vischiose, narrazioni che in questi spazi si avvitano oramai da troppo tempo. Questo perché incapaci di affrontare le questioni del metodo e desiderose di rifugiarsi nelle congiunturali questioni di merito. Svilendo la storia. La delusione, così, genera acidità. La scrittura notturna e frettolosa aiuta ulteriormente in questo.
      La storia è, invece, ‘tanta cosa’. È, un po’, “il viaggio dell’elefante” che ci narra Josè Saramago.
      Daniele Andreozzi

      • «Corro il rischio di fare la figura del pedante frustrato.»

        Magari! :-)

        Più che altro, temo tu faccia la figura di chi scrive una critica generale e astratta, girando intorno al nocciolo della questione, senza mai scendere nel concreto. Forse è un limite mio, ma non ho capito quale sia – dietro la disquisizione meno paludata che paludosa (nel senso che non sembra avere argini) sul metodo e dietro la muraglia di riferimenti vaghi come “narrazioni vischiose” (quali?) – l’oggetto preciso della critica.

        Dici che non ho “decostruito le identità”; a me sembra di aver dato, nei modi del reportage narrativo, molti elementi che consentono a chi legge di capire che le identità sono costruite, di capire quando e come certe identità siano state costruite, e come tuttora vengano costruite, negoziate, ri-negoziate. Ho parlato di miti tecnicizzati e tossici, di passato ridotto a “pappa”, di veri e propri “fantasmi”, di costruzioni culturali fatte con materiale di risulta della Grande guerra.

        Dici che avrei affermato “l’insularità” del Nordest; mi sembra di aver fatto precisamente il contrario: ho scritto che per capire l’Italia tutta e le sue rimozioni (rimozione dell’esistenza e operatività di un imperialismo italiano, in primis) si deve partire dal Nordest, che è un osservatorio privilegiato su quel che siamo, perché “siamo noi questi tramonti a Nordest”, “siamo nella stessa lacrima”. I fili da dipanare hanno il loro capo nell’Italia nordorientale. Non si comprendono davvero l’Italia, la sua storia novecentesca e il suo presente se non si capisce il Nordest. E purtroppo, la stragrande maggioranza degli italiani non sa nulla del perché oggi abbiamo dentro i nostri confini Trieste, Gorizia, Trento e Bolzano, e perché invece non abbiamo più Pola e Fiume, e quali conseguenze questo comporti nel nostro presente. Ad esempio, se chiedi in giro per quali motivi precisi Friuli-Venezia Giulia e Trentino-Alto Adige siano “a statuto speciale”, la maggior parte degli interlocutori non saprà spiegarlo. Lo riscontro da anni, da quando ho cominciato a raccontare storie del Nordest. Ho incontrato migliaia di lettori di Point Lenana (libro che mi sembra tu non conosca, come anche Timira e il nostro lavoro di non-fiction degli ultimi anni, perché vedo che salti direttamente dai romanzi storici a questo reportage) e moltissimi/e mi dicevano di aver letto per la prima volta nel nostro libro le vicende che io e Santachiara abbiamo raccontato, relative a Trieste e alla storia del confine orientale.

        Dici che avrei parlato di “mancanza” di mediatori culturali; io ho scritto che sono “drammaticamente pochi”, ma ci sono, tant’è che nel reportage ne ho nominati, incontrati, citati svariati. Chiamo “mediatori culturali” persone in grado di far capire la storia e le contraddizioni del Nordest a chi non ci vive e anche a chi ci vive.

        Tra l’altro, il Nordest di “bravi storici” ne ha eccome, alcuni li ho citati qui, altri in Point Lenana, altri in svariati post qui su Giap.

        Insomma, davvero mi sembra che tu abbia compiuto una lunga danza (elaborata nelle intenzioni, ma caotica nella realizzazione) intorno a qualcosa che non hai voluto esplicitare. Il risultato è che non ho capito cosa in concreto tu stia criticando e perché.

        • Non so se questo sia lo spazio adatto a un dibattito ‘personale’. Ma visto che siete voi che decidete, io scrivo e valuterete l’opportunità. In ogni caso, faccio una sola replica e dopo mi limiterò a leggere con attenzione.
          Sono un po’ stupito. Perché comprendo il disaccordo e magari anche il dileggiare, ma no il non capire. Tuttavia, forse, questo è il punto. Il problema sta nel metodo diverso in cui ci si approccia alla storia. Tutto qui, anche il non capire.
          Quindi cercherò di fare qualche esempio. Anche se non è il mio mestiere il divulgare e quindi sarò grezzo al limite della banalizzazione.
          Il ribadire la tradizionale vulgata sulla collocazione di Trieste nel sistema economico imperiale prima, e italiano dopo non fa altro che confermare le solite mitizzanti e scontate tirate filo austriache, a volte filo naziste, e anche filo italiane. La pratica corretta è analizzare i sistemi economici di questi spazi e la loro evoluzione. Ci sono ipotesi alternative che consentono di uscire dalla secca di un dibattito in cui la scelta è considerata solo un ‘atto di fede’. Perché non darne conto invece di infilarsi in sterili dibattiti da histoire éventementielle (il rimando è a Fernand Braudel)? Perché ribadire solo miti ed età dell’oro che altro non fanno che perpetrare asfissie e posizioni di un dibattito politico frustro? Non si conoscono o non le si ritengono degne? Non posso condividere la scelta fatta.
          Perché parlare di sistemi economici letti solo nella loro dimensione verticale (intercetuale o interclassista)? Essere fuochista del Lloyd, portuale, o banchiere/assicuratore poneva le persone in ottica assai diversa rispetto all’economia di Trieste o alla sua evoluzione. Perche invece proporre solo una lettura verticale, come se questi spazi fossero un tutto? Ipotesi alternative esistono e consentono panorami (e autocoscienze) altre. Non capisco perché ignorarle nell’approcciare la storia di queste zone.
          Lo stesso si può dire del rapporto tra Trieste e il suo porto e dei legami tra Vienna, Trieste e le altre parti che compongono la regione. Non condivido il non seguire queste tracce e limitarsi a riproporre una visione unica: per altro molto cara a tradizioni forti – come la ‘sinistra storica’ e la destra, ma qua il discorso è molto complesso e rischio di essere io fuorviante – ma forse non più fertili.
          Per non parlare della lettura del sistema economico della Serenissima; mi limito a definirla eccessivamente semplicistica e quindi inutilizzabile, forse si fuorviante.
          Ma torniamo alla Regione. In un area caratterizzata, anche per motivi geografici e mobilità, da continui incroci matrimoniale e spostamenti frequenti, ripetuti e veloci, come etichettare le persone nelle caselle identitarie? Chi è triestino, slavo, austriaco ecc ? Scelta non facile, ma forse è da qui che bisogna partire, come dai modi, continuamente cangianti, di funzionamento dei confini. Anche qui ci sono ipotesi altre di cui non trovo eco. Ma che noioso rimanere dentro i soliti paletti.
          Potrei continuare. Ma, appunto, sono lungo. Un ultima annotazione, quindi.
          L’enfatizzazione continua del ruolo della guerra, in cui schieramenti dati sono protagonisti di scenari mondiali dati, non fa altro che confermare le catalogazioni precostituite (magari proprio immaginate – secondo il significato che ne da Benedict Anderson- con e in quelle guerre). Il dibattito è sempre solo su chi ha cominciato, chi è stato più crudele ecc. La guerra produce mostri, sofferenze, e a volte i più cattivi vincono o per vincere bisogna essere cattivi (quanto avvenuto in Giappone?) … direi che si sa. Spostare l’attenzione sugli elementi strutturali di questi spazi non significa dimenticare le sofferenze o negarle. Queste, di donne e di uomini, rimangono qualsiasi interpretazione si possa dare. Significa, però, togliere il campo all’uso politico della storia e non continuare ad alimentare pratiche non corrette. Significa cercare i reali atti, le reali motivazioni, le reali dinamiche. Significa creare una funzionale coscienza di sé in questi spazi. Invece, tale ridondanza significa anche perpetrare un dibattito in cui la storia è inutile, orpello e banderuola di posizione preesistenti, e in cui a determinare età dell’oro e miti fondatori è il potere di turno. Arbitrariamente. Cosa che qui ha fatto tanto comodo.
          Forse continuo ad essere oscuro. Me ne dispiaccio. Tuttavia il problema continua ad essere il metodo con cui ci si approccia alla storia. Tenendo conto del fatto che l’accettare, sostanzialmente, i mattoni della nostra storia costruiti da altri, significa rafforzarne la validità. Significa dargli potere. Significa, anche, di fatto rendere accettabile l’uso acritico e strumentale della storia. Accettare la scelta del campo di gioco. Specie se a farlo è una posizione visibile e forte, credibile.
          E questo in un dibattito e clima culturale che penso sia evidente a tutti, anche nelle sue tendenze. Un fatto su cui bisognerebbe riflettere. Solo questa è la motivazione del mio intervenire, anche se forse a sproposito visto che si tratta solo di una narrazione-inchiesta. Ma è che non capisco come mai, se si è critici e dubbiosi nel ricostruire il presente, ci si accontenta, per il passato, di sguardi ‘disattenti’. Proprio non pensavo di aver girato intorno al nocciolo, ma di essere andato al cuore. Perché credo che l’unica strada sia l’affrontare strumenti, concetti e significati. Mi sembra una critica ‘in concreto’ e direi esplicita.
          E siamo in un mondo in cui le parole hanno un significato, in parte dipendente da chi comanda, come ci ricorda Humpty Dumpty. Ma non solo. E quindi intermediario significa intermediario. Mi viene in mente una domanda: che ne sanno del Nord Est della storia della Sicilia, del brigantaggio ecc ecc. Non farei classifiche.

          • Insisto: “In un[‘]area caratterizzata, anche per motivi geografici e mobilità, da continui incroci matrimoniale e spostamenti frequenti, ripetuti e veloci, come etichettare le persone nelle caselle identitarie? Chi è triestino, slavo, austriaco ecc ? Scelta non facile, ma…”: in Point Lenana si discute a lungo proprio di questo (oltre che di molto altro), al punto che la mamma austriaca del protagonista afferma, in dialetto, che solo la guerra la rende consapevole di avere sposato un italiano e averci fatto dei figli. Per quanto riguarda la stratificazione sociale, in Point Lenana c’è un’interessantissima discussione su chi sotto il fascismo potè permettersi di conservare un cognome slavo (i più facoltosi, vedi Cosulich) e chi no.

          • «Forse continuo ad essere oscuro. Me ne dispiaccio.»

            In realtà sei piuttosto chiaro, se uno sa leggerti. Ma andiamo con ordine.

            1) non citi nessun passaggio preciso del testo che in teoria stai analizzando, ed è fortissima l’impressione che tu stia mettendo in fila argomentazioni “strawman” per distruggere quelle al posto del mio reportage.

            “Ribadire miti ed età dell’oro”?
            Il reportage denuncia a ogni passaggio le rimozioni e semplificazioni binarie su cui si basa ogni retrospezione rosea.

            Lettura “verticale” e “interclassista”?
            Nel reportage si fa notare che la retrospezione rosea sull’impero asburgico rimuove la complessità, le divisioni interne, lo sfruttamento e la repressione delle lotte operaie.

            Ragionare “come se questi spazi fossero un tutto”?
            Nel reportage si dice, per esempio, che la società trentina d’anteguerra era percorsa da fratture ideologiche e la questione nazionale si intrecciava con quella sociale; si fa notare che oggi la questione dell’identità è più spinosa in Trentino, dove la contraddizione non segue minimamente una linea etnica, rispetto all’Alto Adige, dove la segue (sempre fermo restando che anche la comunità germanofona è divisa in classi).

            “Letture del sistema economico della Serenissima […] semplicistiche”?
            Della Serenissima il reportage non si occupa punto, viene menzionata en passant solo per toglierla dal quadro.

            Impostazione “evenemenziale” (grazie per aver precisato che il riferimento era Braudel, qui les Annales prima di te non le aveva mai sentite nominare nessuno)?
            Sarebbe “evenemenziale” lo spunto persino caricaturalmente strutturalista che propongo per comprendere il filo-putinismo degli austronostalgici? Sarebbe evenemenziale l’approccio impostato sulle “persistenze di mentalità”? Sarebbe “evenemenziale”, per fare un altro esempio, il concetto di borderland?

            “Rimanere dentro i paletti [etnici]”?
            Nel reportage si denuncia, nell’apologia del multiculturalismo di cent’anni fa, il sottotesto ostile al meticciato di oggi.

            Ecc. ecc.

            2) Introduci tu stesso parole per poi dire che non vanno usate, come qui: «siamo in un mondo in cui le parole hanno un significato, in parte dipendente da chi comanda, come ci ricorda Humpty Dumpty. Ma non solo. E quindi intermediario significa intermediario.»
            Sure as hell. E “mononucleosi” significa “mononucleosi”, ma nel reportage non compaiono né “mononucleosi” né “intermediario”. Quest’ultima parola, essendo piatta e ben poco evocativa, era inservibile. “Mediatore culturale” era invece perfetta per la metafora che volevo utilizzare.

            3) I tuoi commenti essudano una certa sufficienza verso chi usa la storia senza essere un cattedratico: tutta la prolusione iniziale del primo commento serviva a dire che noialtri “romanzieri” è meglio se stiamo al nostro posto e scriviamo romanzi; poi è tutto un “è solo una narrazione-inchiesta”, “non è il mio mestiere il divulgare” (e si vede, scrivi in modo criptico e corporativo) ecc. ecc.

            4) L’altra cosa che viene fuori è il solito adagio “non ci sono più destra né sinistra”, sterile elencare le ragioni e i torti ecc. ecc.

            5) Mentre proponi quest’armamentario, annunci già che, comunque ti si risponda, non scriverai più.
            “Ho detto tutto”, ripeteva Totò in un celebre film.
            “E che hai detto?” lo incalzava Peppino.
            Qui, però, non t’incalzerà nessuno.

            Un’ipotesi plausibile è che tu abbia letto solo la prima puntata del reportage, in fretta e furia, gettandoci uno sguardo tipo test di Roschach, e poi sia partito per la tangente, riprendendo con me chissà quali conversazioni pregresse… avute con altri.

            Un’altra ipotesi plausibile – non necessariamente alternativa all’altra – è che tu voglia prendere me e chi ci sta leggendo, come suol dirsi, per i fondelli.

            • Non volevo più scrivere per non annoiare, non mi ritengo particolarmente rilevante da influire più di tanto nel dibattito.
              Nel mio scritto indico alcuni autori solo per rispetto di chi può leggere senza essere obbligato a saperne (mi hanno insegnato così).
              Vero, mediatore culturale. Ero scivolato nell’intermediario. Ma forse mediatore culturale è ancora peggio. Trieste e il Friuli Venezia Giulia non erano isole, ma parte di una rete (di relazioni, scambi, movimenti) già mondiale. Ripeto, quindi, non c’è bisogno di mediatori, ma di divulgatori e storici in grado di situare Trieste in quegli spazi.
              Non difendo l’accademia. Non vedo, nel mio scritto almeno riferimenti ossequiosi, all’accademia o ad accademici, ma alla storia come mestiere (cito Bloch, scusate) che può essere appunto proprio di chiunque ne abbia gli attrezzi.
              Non ci sono differenze tra destra e sinistra … vorrei sapere dove l’ho scritto. Così come le diverse ipotesi, direi che sono fantasiose. Sembra quasi mi si accusi di lesa maestà, quando sarebbe assai più semplice discutere, se interessano, per liquidarli i punti che pongo al dibattito. Non credo che occorrano grandi dietrologie. Neppure strumenti retorici un po’ banali (vedi destra e sinistra e accademia). Ma forse appunto sono oscuro oppure, anche se a questo punto non lo penso, irrilevante.
              Riprovo.
              Io non liquido il reportage, che in gran parte condivido. Non metto in discussione la lettura, sincronica, del presente. Per fare questo, però, non è necessario mobilitare il passato. Il presente, come ogni momento, si avvera nel suo contesto in base alle sue logiche, relazioni, equilibri, poteri. Questo non significa che non vi siano eredità e vischiosità, ma queste sono narrate, costruire, mobilitate nel contesto. Il ricorso al passato non è una necessità e una scelta. E ovviamente l’iper mobilitazione del passato che avviene in quest’area è di per sé oggetto di studio.
              Lo stesso vale per il passato. Non anticipa e prepara il futuro, teleologicamente, ma gioca la sua partita nel suo contesto all’interno dei propri conflitti ed equilibri di potere.
              Quello che metto in discussione nella ricerca-narrazione è l’uso del passato, dal punto di vista metodologico, nello spiegare il presente.
              Due i motivi principali. L’utilizzo di miti e narrazioni che sostanzialmente, a mio parere, confermano gli architravi delle vulgate tradizionali (in misura sempre maggiore quanto più viene usato un passato lontano dall’oggi). In modo, per me, poco critico. Poi l’utilizzo della storia come pezza d’appoggio della spiegazione del presente. Questo uso della storia di fatto può legittimare l’uso dello strumento della storia da parte dei poteri, un uso strumentale slegato dal contesto. Per rendere questo difficile la storia deve essere dotata di una forza propria che sia in grado di renderla più difficilmente utilizzabile. Questo sta nel mestiere/metodo (non nell’accademia). Per questo non si può fare un confronto tra ipotesi partendo dai dati quali fatti slegati dai contesti, ma dagli strumenti (critici, interpretativi, analitici ecc), dalla decostruzione dei concetti e catalogazioni e dall’utilizzo accordo e corretto delle fonti.
              La cosa mi ha stupito – a questo punto è chiaro che non è piaggeria – perché fatto da autori che ritengo assai sensibili alla storia. Per questo ho scritto; non perché li ritengo indegni – come non vorrei, tra l’altro, essere descritto io -, ma degni
              Esemplifico; un elemento della storia
              Il sistema economico di Trieste tra Impero e Italia.
              Nel XIX secolo il sistema economico di Trieste di Trieste è modellato in gran parte dalle sovvenzioni che arrivavano a Trieste da Vienna, nella forma di aiuti alle compagnie di navigazione e da qui alla cantierista. Un’industria protetta, l’ha chiamavano patriottica. Nel suo complesso quel sistema si presentava come un sorta di modello Torino. Alcune grandi imprese con alcune migliaia di occupati ciascuna e molte centinaia di piccole e medie imprese, al loro servizio, ma anche della città e della navigazione. Il comparto secondario occupava la gran parte delle persone e affiancava quello terziario (banche e assicurazioni e commercio). A partire dalla seconda metà dell’Ottocento, per i limiti di capitalizzazione della piazza – chiamo triestino quel capitale che liberamente sceglieva non di operare sulla piazza, ma di radicarsi in essa quale centro decisionale – Trieste venne sconfitta nello scontro tra i capitalismi localizzati a Vienna e a Praga. Piano piano tutti i centri decisionali (Lloyd, porto ecc) vennero trasferiti altrove; alla vigilia della Prima guerra mondiale in città non vi era più alcuna banca riferibile al capitale triestino, ma solo a quello viennese e praghese; il capitale triestino era stato di fatto espulso anche dal settore secondario (perfino i cantieri Cosulich erano di fatto proprietà delle grandi banche viennesi), rinserrandosi in alcuni comparti marginali di questo e nel settore assicurativo, settore che però già aveva iniziato, nei suoi effetti, a lasciare la città. Stava avvenendo un veloce gerarchizzazione (una volta si diceva incapsulamento) di Trieste nel quadro dell’Impero (molto bello il libro di Good, spero di non sbagliare a scrivere il nome a memoria). Le élite locali e i ceti proletari vivano tale processo in modo diverso, ma in un qual modo questo venne assorbito dal protagonismo dei nazionalismi giocati anche all’interno di quella competizione tra centri economici imperiali. In ogni caso era evidente una marginalizzazione dei ceti dirigenti triestini (che uso nel modo detto sopra).
              L’esito della prima guerra mondiale non è determinato da Trieste, ma questa si adegua. Si trova in un sistema economico molto simile a quello in cui era (supremazia dello stato, monopoli, cartelli, assenza di un mercato interno, preponderanza dei settori strumentali). Certo adesso non è l’unico sbocco verso l’Adriatico, ma non ha più la concorrenza delle aree interne, molto più prossime al potere politico imperiale (il numero dei passeggeri che si potevano imbarcare a Trieste per andare nelle Americhe, ad esempio, era deciso da un cartello che si riuniva a Vienna). Quindi rigioca la sua partita, nelle sue diverse componenti. Le élite avviano un nuovo confronto con le classi dirigenti del nuovo stato. L’esito, per gli stessi problemi di capitalizzazione è identico al precedente; gerarchizzazione. Tuttavia, tali esiti non sono solo, e soprattutto, frutto delle vicende locali. Anche se in questi un ruolo forte avrà la sua, anche precedente, dipendenza dello stato
              Scoppia la crisi del 29 che con i suoi affetti metterà fine al castello, finanziato dalla stato italiano, e si avvia l’irizzazione. Il Mediterraneo, e i circuiti di traffico in cui Trieste era inserita, mutano e diventano quella realtà (Nord/Sud) la cui fine sembra sancita dai recenti avvenimenti che hanno interessato (interessano) la costa meridionale. Anche i traffici Est/Ovest, per altro, hanno avviato la trasformazione. L’Impero asburgico non c’è più e le economia dell’Europa continentale si sono trasformate, polverizzate e impoverite. In Europa, poi, si avviano gli sconquassi economici che keynes aveva profetizzato e si avvia la corsa al riarmo che, con la ripresa, sfocia nella Seconda guerra mondiale. Questi sono i fattori determinanti gli esiti dell’economia triestina riguardo al quale l’italianità è in gran parte irrilevante.
              Non vi è dubbio che si tratta di un’ipotesi. Tuttavia penso che il ragionare da ipotesi simili possa essere utile nei dibattiti Austria, Italia, Territorio Libero e simili. A mio parere molto più utile che incentrare il confronto su alcune dati e episodi ‘notevoli’.
              Quindi mi sono limitato solo a porre una questione di metodo; sull’uso della storia e sul perché la narrazione-inchiesta non si sia aperta alle diverse letture esistenti nel suo, non obbligato, ricorrere al passato. Tutto qui; nessuno scherzo, nessuna difesa dell’accademia, nessuna lesa maestà. Mi pare, la mia, una posizione assai banale … e di merito

              • Dopo il bizzarro rimprovero – su cui avevo preferito non infierire – per l’«enfatizzazione continua del ruolo della guerra» in un reportage sul centenario della Grande guerra, adesso arriva il rimprovero per il «mobilitare il passato» in un pezzo che parla dei fantasmi culturali di quel passato.

                E parla di “fantasmi” perché l’oggetto non è, come dici tu, il passato che «anticipa e prepara il futuro teleologicamente» (?), ma, all’opposto, il presente che guarda al passato e lo reinventa, rimuovendone le parti scomode.

                Detto questo, rilevo che, cocciutamente, anche questa volta non hai citato un solo passo del mio testo.
                Nemmeno una riga, nemmeno una parola tra virgolette.
                Con la tua rispettabilissima e magari esatta ricostruzione, avrai certo risposto brillantemente a un testo su strutture e spazio dell’economia triestina tra Impero e Italia…

                …solo che il mio reportage non è quel testo.

                È quanto io e altri stiamo cercando di farti notare da ieri.

                Il ridimensionamento dell’economia e della portualità triestine rispetto a ciò che erano anteguerra l’ho evocato in cinque righe cinque, per dire che questa percezione e questo rimpianto sono alla base della retrospezione rosea «in cui si crogiola una parte della cittadinanza». Retrospezione che subito prima avevo definito «semplicistica, reazionaria e ridicola», ma che nondimeno è importante esaminare, pena il non capire cosa stia bollendo nella pentola dell’immaginario nordorientale.

                Questo dentro un paragrafo dove l’argomento centrale è la persecuzione dei non-italofoni a partire dal 1918.

                Addirittura, ieri parlavi di “lettura semplicistica dell’economia della Serenissima”, della quale il pezzo non si occupa per niente.

                In parole povere, il reportage non parla di quello che dici tu, è incentrato su tutt’altro. E se permetti, gli argomenti su cui scrivo li decido io, non tu.

                Sul fatto che avrei descritto il Nordest come “insulare” sei recidivo, ma io ti ho già risposto. L’ho fatto per cortesia, perché non ce ne sarebbe stato bisogno, essendo tutto il reportage costruito sulla premessa che capire il Nordest significa capire l’Italia, i suoi rimossi e i suoi ritorni del rimosso.

                «Tradizioni forti […] come la ‘sinistra storica’ e la destra, ma qua il discorso è molto complesso e rischio di essere io fuorviante – ma forse non più fertili» l’hai scritto tu, e più che fuorviante direi fuorviato, nel senso che sei andato proprio in una direzione che con il nocciolo del reportage non c’entra nulla.

                Inoltre, continui a usare le parole che vuoi tu dicendo che le ho usate io. «Riferimenti ossequiosi all’accademia» è roba tua, io ho scritto che leggo nei tuoi commenti «una certa sufficienza verso chi usa la storia senza essere un cattedratico». Se poi questa sufficienza non corrisponde al tuo reale sentire, fossi in te mi porrei il problema di come comunico.

                Quale possa mai essere l’utilità di un approccio del genere, ulteriormente peggiorato dall’incaponimento, resta per me un mistero.

          • Scusa, ma mi pare che ti sfugga il fatto che questo reportage non è un pezzo di testo isolato, ma si inserisce in un discorso che wm1 e altr* stanno portando avanti da anni qua su giap e altrove. Ci sono Point Lenana e Timira, ci sono le inchieste sul neoindipendentismo (qua e su Carsica), c’è tutto il lavoro sulle mistificazioni e falsificazioni intorno al nodo del confine orientale (Cristicchi, wikipedia, falsi fotografici, giorno del ricordo, D’Annunzio…), ci sono gli interventi di wm1 e wm2 in occasione del 150. anniversrio dell’unità d’Italia… Ci sono intersezioni con temi più “attuali” (la moda del né destra né sinistra, il feticismo della tecnica) e riflessioni sulla tecnicizzazione dei miti, sulla genesi dei fascismi…

            Ora è evidente che tutto questo non possa entrare in un reportage in tre puntate. Ma è altrettanto evidente che senza tutto questo lavorio il reportage non ci sarebbe stato.

            Infine dico una cosa: Internazionale è un’ottima rivista. Ciononostante quando si parla di confine orientale, pubblica anche schifezze come questa scheda sulle foibe:

            http://www.internazionale.it/notizie/2015/02/10/giorno-del-ricordo-foibe

            Quindi un reportage come questo, anche per Internazionale, è un poderoso ribaltamento di paradigma rispetto a quelle narrazioni vischiose di cui parli tu.

          • Non mi pare che nelle tre puntate del reportage ci sia “La solita vulgata” o “uno sguardo disattento”. Mi pare che invece che sia stato un tentativo di far arrivare al grande pubblico la complessità della storia e della realtà di un’area che a causa del centenario è e sarà ancora per un po’ sotto i riflettori.
            Di operazioni come queste direi che ce n’è un gran bisogno, come di “mediatori culturali”.
            Tanto per fare un esempio ci sono migliaia di turisti che rimangono stupiti quando girano per Trento e si rendono conto che vi sono lapidi che ricordano anche i caduti con la divisa austroungarica indosso. Ho conosciuto persone anche colte sinceramente stupite del fatto che qui in Trentino non stiamo tutti in processione con i tricolori al vento a portare fiori sulla tomba di Cesare Battisti. Direi che è questa (assieme a quella locale del “con Ceco Beppe si che se stava ben”) la vulgata di cui preoccuparsi.
            Un reportage non è un libro di storia in più volumi e neppure gli atti di un convegno, è un’opera divulgativa che si muove sia nel presente che nel passato e mi sembra lo faccia al meglio.
            Se poi si vuole far notare una lacuna o una imprecisione per favore la si esponga chiaramente in modo che chi legge possa capire di cosa parliamo e magari scoprire altre fonti o altri punti di vista. Insomma va bene problematizzare ma per favore si problematizzi su qualcosa di ben definito altrimenti è difficile capire cosa si rimprovera a questo testo.

      • Tendo a vedere questo reportage su Internazionale sostanzialmente come una tappa di un lavoro di WM1 (che ben inteso ha altri mezzi più cogenti e precisi per rispondere in merito) che parte da lontano e, immagino, proseguirà. WM1 fa proprio quanto auspicato qui in Point Lenana per quanto riguarda Trieste nel primo dopoguerra, per non parlare della riflessione collettiva che va avanti da tempo su Giap. Quindi la prendo personalmente come un risultato parziale e soprattutto momentaneo, da non confondere con i romanzi di Wu Ming, e attendo la prossima tappa che sicuramente elaborerà ulteriormente la vicenda. Trovo molto serio, tra l’altro, l’approccio a un lavoro di documentazione su realtà diverse (il Tri-Veneto per brevità anche se l’espressione è orrenda, benché significativa di una certa temperie e momento), che viene portato avanti, proprio per la consapevolezza che mostra delle differenti realtà e contesti che affondano, questo è vero, in passati più lontani ben diversi: il passaggio dal principato di Trento all’Austria è un pelo diverso dalla storia di Trieste… e condiziona l’oggi, come ha condizionato le vicende di ieri, a mio parere.

      • @ daniandi
        scusa, ma se devo dirla tutta, io di questo commento non ci ho capito niente. Quali sarebbero le narrazioni vischiose che uscirebbero rafforzate da questo reportage?

      • Mi accodo a Tuco: non c’ho capito granche’ neanche io. Anche la parte sulle questioni di metodo non mi e’ chiara: sembra che lamenti una sorta di scorretto uso delle fonti, senza precisare e, soprattutto, mostrare in che modo, pero’.

  2. Bella l’idea di questo paragone tra destre e autonomismi lungo le Alpi, che parte da Trieste e arriva a Trento, ma con ben diverso spirito, per fortuna, dall’irredentismo. E’ vero che a Bolzano c’è proprio una statua equestre, il che è forse anche peggio, ma almeno li’ discutono, mentre a Roma, al Foro italico, i monumenti del fascismo splendono al sole indisturbati se non forse, molto forse, da un piccolo pannello “esplicativo” in un angolo…
    C’è una cosa secondaria che forse non è chiarissima in tutto il discorso, magari perché non ho letto tutte le puntate: i “recuperanti” non hanno sempre e forzatamente una connotazione politica. Nascono nel primo dopoguerra come raccoglitori anche in alta quota di materiali abbandonati dagli eserciti, specialmente metalli come il rame, che riportano a valle e rivendono. Anche i contadini del posto saccheggiano all’epoca quelle risorse che utilizzano per farne attrezzi di ogni tipo, dalle roncole ei torni (se ne trovano ancora tanti nelle valli). Oggi puo’ capitare che si usi questo nome per indicare chi cerca reperti, a scopi commerciali, collezionistici o di raccolte museali. Lo spirito puo’ essere il lucro, la memoria, la conoscenza storica, la passione per i congegni meccanici (sono zone in cui c’è un’altissima manualità diffusa), o a volte, per le armi (il che non significa, di nuovo, che esse vengano poi sistematicamente usate a scopi offensivi, ma che puo’ capitare che in un sottoinsieme ulteriore qualche idiota si faccia saltare una mano maneggiando bombe inesplose o altre amenità).
    Usare il termine in senso politico è un ulteriore slittamento del suo significato.
    Tutti costoro non sono necessariamente un insieme omogeneo in collegamento o in accordo tra loro.

    • Nell’inchiesta cito un’associazione del Trentino denominata «I Recuperanti», che naturalmente non coincide con i recuperanti in generale.
      Nemmeno quell’associazione ha intenti strettamente politici, è però tangente al milieu che ho descritto (quello dove si elaborano strategie discorsive per imporre il frame di una “identità tirolese”), risulta molto vicina a Baratter (uno dei teorici e leader del Patt) e risulta co-organizzatrice di iniziative non solo con gli Schuetzen (ça va sans dire) ma anche con l’associazione “La Torre”, palesemente di estrema destra (cattolica integralista e filo-Putin).
      Il discorso, in soldoni, è: il Patt è un partito “centrista”, non è sul piano immediatamente politico che si riscontra il “buon vicinato” tra autonomismo mainstream ed elementi più radicali, ma su quello dell’associazionismo e della battaglia culturale. È qui che tutto si mescola, è qui che avvengono le reazioni chimiche importanti.

      • Per carità, sono assolutamente d’accordo con te. E’ che nell’articolo è persino saltata la maiuscola (cosa che certo non dipende da te).
        Quanto ai partiti “democristianoidi” potrebbero essere forse la manifestazione locale di una Lega che non ha mai attecchito veramente neanche nella sua primissima fase, ma adesso la situazione, anche sociale, sta mutando. Brescia con il Trentino ci confina, quindi le idee passano il confine, ma allo stesso tempo il bresciano che viene a rubare i funghi in Trentino è un classico della diplomazia interprovinciale…
        Altra cosa, quando parli dell’invenzione della montagna come purezza: l’associazione che la purezza porta con sé è la sofferenza. Sofferenza che si manifesta nella compiaciuta scomodità e fatica della pratica alpinistica dell’epoca, anche quando non strettamente necessaria: il mito del rifugio che “non dev’essere un albergo” e meglio è quanto più scomodo è (purché ci siano tutte le grappe dell’arco alpino a lenirla, poi, quella scomodità..), il mito del male ai piedi per via degli scarponi, o la fatica, il mito appunto di una pratica neppure tanto vagamente iniziatica che eleva attraverso il dolore. Una cosa che puo’ stare vicina allo “sperimentarsi allo stremo” di cui parli per Benuzzi giovane, ma che puo’ anche finire nell’ascesi mistica della sofferenza di lunga data – con eventualmente tutte le cattoimplicazioni del caso.

  3. Per rendersi conto di come sia ben concreta la descrizione di tutta una certa galassia (neo)indipendentista come “l’altra destra del nordest”, può essere molto utile richiamare la vicenda dell’avvocato evoliano del Movimento Trieste Libera:

    https://carsica.wordpress.com/2013/10/28/lavvocato-guerriero-e-quellinutile-giornale-sloveno/

    • Ed ecco come l’avvocato evoliano recensiva nel 2006 un libro del fascistissimo Pirina sull’Adriatisches Kustennland:

      (…) Nel 1943/45 il Litorale Adriatico (l’area all’incirca compresa tra Venezia e Fiume) ha conosciuto una delle più accese fasi di lotta antimondialista. In quegli anni, crollato il regime fascista a causa degli innumerevoli compromessi con le forze reazionarie e per colpa del colpo di grazia infertogli dalla reazione borghese laico-massonica, nella cruciale area geopolitica veneto-giuliana, (centro di incontro-scontro fra Occidente ed Oriente d’Europa – crogiuolo di etnie e storie fra loro non assimilabili) si verifica un assoluto vuoto di potere politico, proprio mentre la lotta per l’Ordine Nuovo Europeo si faceva più serrata.
      Nasce così il progetto nazionalsocialista di creare una area politica autonoma, una sorta di zona franca a spiccato carattere etnico, conforme ad indole, natura e storia di queste popolazioni di comune lontana matrice celtica.
      Nacque così l’effimera stagione di uno Stato che voleva rinverdire i fasti della Mitteleuropa coniugandoli al socialismo rivoluzionario antiborghese elaborato dal nazionalsocialismo.
      Progetto questo improponibile nei foschi bagliori dell’ultima, fase del conflitto mondiale. Progetto, comunque, che i detentori del potere della restaurazione democratica postbellico hanno tenuto nascosto per quarant’anni. Perché? Le pagine di questo documentatissimo libro, nella loro ricca, inedita, esplosiva documentazione, svelano retroscena e misteri del progetto hitleriano dell’Adriatische Kuestenland.
      Perché in questa periferica area d’Europa si svolsero così accaniti scontri ideologici, razziali militari?
      Forse è ancora presto per cogliere tutte le valenze di questo convulso periodo storico, ma, certo, questo libro, costituito in gran parte da documenti inediti mai resi noti al pubblico e gelosamente custoditi negli archivi di Stato (scoperti con tenacia ammirevole da parte degli Autori, anche a costo di gravi rischi personali), può dar spunti di riflessione ad un ricercatore attento.
      Allora si potrà intuire la grandiosità -tragica e disperata nel contempo- del progetto della Nuova Europa a base etnica che il più eroico e sfortunato nazionalsocialismo volle progettare nelle fosche e corrusche pagine conclusive della propria tragica epopea.

      http://web.archive.org/web/20060207215447/http://aurora.altervista.org/08recensioni.htm

      • Non saprei se mi esalta di più “la comune lontana (un poema nel poema) matrice celtica” o “i gravi rischi personali” corsi negli Archivi di Stato, il massimo rischio di quei luoghi essendo la gastrite per la rabbia data dalla loro gestione, ahimé. Brrrr…. SaintJust, se ci sei, ché non ti si vede più con questa nuova grafica!!!

  4. Per chi fosse interessato alle 2 destre presenti in Trentino segnalo il dossier sulle azioni squadristiche di Casa Pound a Trento realizzato dall’osservatorio contro i fascismi del Trentino Alto Adige: http://www.globalproject.info/it/produzioni/dossier-un-anno-di-casapound-a-trento-storie-di-squadrismo-propaganda-e-blackout-mediatici/18805

    Segnalo anche il sito de “I recuperanti” http://www.recuperanti.it/ di cui si parlava prima e quello di un’associazione di estrema destra ultra-cattolica “La Torre” http://www.associazionelatorre.com/.
    Ora, le attività de “I recuperanti” non sono certo assimilabili a posizioni di estrema destra in quanto tali, il problema (se spulciate nel sito) sono i loro legami con “La Torre”. Diciamo che si tratta di un problema non certo nuovo, soprattutto in Italia: la mancanza di una netta e solida distinzione tra “conservatori”, “moderati” e chi invece è un vero e proprio fascista. Questa mancata distinzione consente alla “elaborazione politico-culturale” dell’estrema destra di presentarsi in abiti rispettabili dinnanzi al grande pubblico e di venire accettata come “normale”. Un pò lo stesso giochetto de “Il sangue dei vinti”, Pansa ha fatto il copia-incolla da Pisanò diffondendo sui media mainstream cose che sino a quel momento erano circolate solo tra i neofascisti o comunque all’interno di un pubblico di destra.
    Segnalo anche una piccola inchiesta sull’antigiudaismo sul web, con particolare riferimento a “La Torre” e alla destra ultra-cattolica in Trentino https://avanguardiedellastoria.wordpress.com/2014/11/20/san-simonino-prega-per-noi/#more-47

    Infine consiglio questa intervista allo storico trentino Quinto Antonelli che credo inquadri bene lo sviluppo della storiografia sulla grande guerra sia a livello nazionale che locale, anche lui sottolinea le similitudini tra le retoriche “nazionaliste italiane” e “austronostalgiche” http://www.questotrentino.it/articolo/14126/una_guerra_buona_per_tutti_gli_usi.htm

  5. voglio solo ringraziare Wu Ming 1 per il reportage. Questo blog è stato (ed è) la mia fonte principale di conoscenza del nord-est. Articolo dopo articolo (e anche grazie ai vostri libri) inizio a conoscere questa parte di italia che mi era sconosciuta (a parte Venezia, che non sono sicuro se si possa considerare nord-est).
    Grazie

  6. Prendo spunto da quel che ha scritto @daniandi qua sopra a proposito dell’economia triestina, per fare alcune considerazioni sulla borghesia triestina e sull’intreccio tra economia (assistita) e identitarismo. Ribadisco però che di queste cose si era parlato in lungo e in largo nell’inchiesta sul neoindipendentismo.

    Una costante della borghesia triestina è quella di essere alla perenne ricerca di un protettore, di un’autorità esterna forte che la garantisca e le permetta di gestire i propri interessi senza correre eccessivi rischi.

    Fedele agli Asburgo prima della guerra, la borghesia triestina si reinventò italianissima dopo il 1918, al punto da venir sbeffeggiata dal comico Angelo Cecchelin, che, in occasione del primo veglione di carnevale dopo la “redenzione” tenuto al Politeama Rossetti, si travestì da Francesco Giuseppe e, osservando le nuove onorificenze italiane sfoggiate dai maggiorenti triestini, mise in imbarazzo molti dei presenti motteggiando: “Herr cavalier, vardè che dovè aver sbaglià giacheta!” o “Caro amico! Gavè cambià idea? No me riconossé più?”

    Fascistissima ancor prima dell’avvento ufficiale del fascismo, si riscoprì poi austronostalgica quando i nazisti presero possesso della città nel settembre ’43. Delle ignominie del collaborazionismo confindustriale ha scritto molto Galliano Fogar. Lo stesso Fogar poi spiega come nel maggio ’45 una delegazione di quella stessa borghesia, dopo l’arrivo della IV armata dell’Esercito di Liberazione jugoslavo, si fosse addirittura recata a Lubiana col cappello in mano e avesse brindato con Kidric alle fortune di Trieste autonoma nella nuova Jugoslavia.

    Nel giugno ’45 la borghesia triestina si dipinse il volto a stelle e strisce, per poi riscoprirsi italianissima nel ’53. Dopo Osimo (1975) temendo di perdere i privilegi che le derivavano dall’essere sentinella d’Italia, si buttò sul municipalismo e/o autonomismo, come arma di ricatto per sollecitare nuove misure assistenzialistiche da Roma. Il testimone del municipalismo venne raccolto in modo molto furbo da Illy, nel vuoto del ’92/’93. Ma dopo il ’93 arrivò il ’94, e col ’94 Berlusconi, che si tirò dietro Fini e Menia.

    A questo punto la schizofrenia della borghesia triestina deflagra, tra parate militari, tricolori e giorni del ricordo da una parte, e spinte austronostalgiche, risvegliate dalla cometa Haider, dall’altra.

    Sempre e comunque alla ricerca di un padre-padrone.

    Questo è il background del neoindipendentismo triestino, e a questo punto forse sarà più chiaro come sia possibile che la nostalgia del duce e quella di Cecco Beppe possano convivere non solo nella stessa città, ma anche, spesso, nella stessa persona.

  7. Esprimo anch’io i doverosi ringraziamenti a WM1 per il suo reportage narrativo ed anche la convinzione che Marc Bloch e Fernand Braudel non avrebbero avuto nulla da eccepire in merito (detto da “annalista” di stretta osservanza). Da abitante a Trento poi confermo la puntualità e la lucidità con cui è stata esposta la situazione locale. Naturalmente ci sono annessi e connessi ulteriori, com’è inevitabile. Però la chiave di lettura offerta è molto utile, molto più della vulgata soporifera che di solito riguarda queste contrade.

    Vorrei sottolineare la fecondità di questo approccio anche in termini più ampi. Da sardo ho a che fare con una mitologia identitaria che è pesantemente inquinata dalla retorica della Grande guerra (Sa Gherra, la guerra per antonomasia, dalle nostre parti). L’epopea della Brigata “Sassari” ne è un elemento portante. Si tratta di un mito tecnicizzato della specie più pura, benché di segno diverso da quello patriottardo, reazionario e/o filoasburgico relativo al Nord Est italico. Sono questioni che inevitabilmente stentano a varcare i confini dell’isola, ma possono essere a loro volta messe in risonanza con altre analoghe, nel ragionamento sulla costruzione dell’immaginario, dell’egemonia culturale e degli assetti di potere (con la loro base materiale e sociale). Il mito tecnicizzato para-nazionalista sardo costituisce la base teorica e pseudo-storica del sardismo (emerso – lo ricordo – nel contesto del movimento dei reduci della Grande guerra, quello che diede vita al Partito Sardo d’Azione). Il neosardismo attuale riprende tale mito e lo ripropone, in chiave normalizzatrice, per evitare che il dibattito sull’emancipazione sociale e politica in Sardegna assuma tinte pericolose per gli assetti di potere economico dominanti (sto semplificando molto, ma è per dare qualche elemento informativo, senza il quale il discorso risulterebbe incomprensibile). C’entra anche qui – per citare Tuco – “l’intreccio tra economia (assistita) e identitarismo” ed anche il problema di una borghesia “alla perenne ricerca di un protettore, di un’autorità esterna forte che la garantisca e le permetta di gestire i propri interessi senza correre eccessivi rischi”. Fenomeno che discende direttamente, nelle sue strutture portanti, dal fallimento della Rivoluzione sarda (1793-1812). Non c’è solo questo, beninteso, però tale componente ha un grande peso. Ma non voglio divagare troppo.

    Altro tema strettamente legato ai contenuti del reportage (e col discorso di cui sopra) è quello dei popoli europei, del loro rapporto con gli stati nazionali da una parte e con le istituzioni comunitarie dall’altra. Siamo in un momento piuttosto preoccupante, in cui al capitalismo assoluto e cleptocratico che domina la politica europea si contrappone – in modo strumentale e in funzione normalizzante – il nuovo nazionalismo destrorso, razzista e violento, a cui non sono estranei gli approcci rossobruni, eurasiatici, filoputiniani. Se ne avverte il sentore persino nell’ambito indipendentista sardo. Su questo terreno occorrerebbe uno sguardo laico e rivelatore, che sapesse cogliere tutta la complessità della situazione, senza accomodarsi dentro le cornici imposte dal mainstream politico e mediatico. Una comparazione tra i vari indipendentismi europei sarebbe un primo passo. Non ci sono solo il Movimento Trieste Libera e la Lega, o il Front National e lo UKIP, ma anche lo Scottish National Party, i partiti catalani, quelli baschi, e varie altre realtà in movimento, non ascrivibili a ideologie strettamente nazionaliste o reazionarie e quasi sempre antifasciste. In Italia (lasciando da parte la Sardegna) questo ambito politico manca o è debolissimo. Gli stessi movimenti anti-unitari o neo-borbonici del Meridione – per quel che posso osservare – pendono prevalentemente a destra (una sorta di contraltare delle nostalgie mitteleuropee del Nord Est). Ci sono altre realtà, è vero, ma sono marginali e sostanzialmente irrilevanti.

    A tutti questi discorsi non sono estranei la riformulazione dei rapporti di forza e di produzione, le nuove forme di divisione del lavoro, gli interventi dei grandi capitali anche di provenienza malavitosa (dal Fondo sovrano del Qatar alle varie consorterie di tipo mafioso), con fenomeni evidenti di landgrabbing, di accaparramento rapace delle risorse, di consumo del territorio e dell’ecosistema, di precarizzazione del lavoro (col conseguente ricatto occupazionale), di impoverimento culturale (a partire dalla scuola). Del resto il TTIP è lì che incombe. Un quadro fosco, mi rendo conto, a cui però il reportage di WM1 in qualche modo allude. Tutta materia che non si può abbandonare alle semplificazioni mitologiche di comodo o ai vari populismi e poujadismi in servizio permanente effettivo, pena un indebolimento esiziale della sfera dei diritti, delle garanzie democratiche e delle possibilità di vita concrete di una grossa parte della popolazione europea.

    • Interessante questa cosa della Brigata Sassari. A Trieste la Sassari è ricordata per la repressione dei moti operai del 1920, per aver cannoneggiato il rione di San Giacomo insorto contro i fascisti. L’insurrezione di San Giacomo a sua volta viene oggi “riletta” dai neoindipendentisti in modo deformato, in chiave identitaria, cancellando il suo carattere antifascista e di classe.

      • La “Sassari” venne utilizzata in funzione poliziesca anche contro l’occupazione delle fabbriche a Torino, nel “biennio rosso”. I soldati erano infarciti di una particolare retorica “di classe” secondo cui gli operai che protestavano erano “signori” o “imboscati”, né più né meno dei gran borghesi, degli accaparratori e di tutti gli altri padroni. Il caso volle che a fronteggiare gli schioppi dei fanti sardi ci fosse un certo Nino Gramsci da Ghilarza, che imbastì lunghi conversari (in sardo) con i suoi conterranei, seminando più d’un dubbio. Gramsci ne parla in qualche suo scritto (su due piedi mi è difficile recuperare la fonte precisa, ma è materiale piuttosto noto).
        I leader sardisti che provvedevano all’indottrinamento dei soldati (e dei reduci) in buona parte confluirono poi nel PNF, tra 1923 e 1926, dando vita al sardo-fascismo.

  8. “Certo non si può dire che i tempi siano particolarmente mansueti”.

    Il 23 maggio casaclown organizza a Gorizia un corteo per celebrare il centesimo anniversario dell’entrata in guerra dell’Italia.

    Perché a Gorizia e non a Trento o a Trieste? Perché Gorizia fu l’unica città conquistata con le armi. Vediamo allora *cosa* fu conquistato.

    Questa non è Mostar, è Gorizia “redenta” (1918):

    e questo è “il mio Carso” (cit.):

    Secondo il censimento del 1910 Gorizia aveva 30.000 abitanti, di cui 15.000 italiani, 11.000 sloveni e 3.000 tedeschi. Quando i fanti italiani entrarono a Gorizia il 9 agosto 1916, la città era distrutta e abbandonata, e a sopravvivere barcamenandosi tra le macerie erano rimasti appena in 3.000. Gli sloveni furono subito internati in Sardegna. E’ bene che si sappia che chi celebra il 23 maggio, celebra esattamente questo. Vale per gli scorreggioni di casaclown e vale per i personaggi più “presentabili” che nei prossimi mesi scoreggeranno con un filtro al carbonio attivo posizionato sul culo.

    Denunciare le condizioni disumane in cui dovettero vivere e morire i “nostri fanti” e la condotta folle e sadica dei “nostri generali” è sacrosanto. Eccola, la “bella morte”, in queste foto esposte al museo della guerra di Kobarid/Caporetto.

    Ma non basta. Questa è solo una parte della storia. Bisogna denunciare anche il carattere imperialista di quella guerra, il disegno italiano di espansione nei balcani, la persecuzione delle minoranze cominciata mentre ancora si combatteva, la repressione del dissenso, e il fascismo già in incubazione nella militarizzazione *totale* della società.

    Insomma, casaclown o meno, contestare il 23 maggio è di per sé una pratica antifascista. Non si tratta di impedire che casa clown si impadronisca della ricorrenza. Si tratta di radere al suolo la ricorrenza.

  9. È ufficiale, «Cent’anni a Nordest» uscirà presto in libro, in una versione ampliata, aggiornata e provvista di molto wuminghiani “Titoli di coda”. Maggiori dettagli a seguire.

    • Cent’anni a Nordest arriva al momento giusto! in mesi caldi, a partire dal 23 maggio a #Gorizia, cosa sulla quale stiamo lavorando sul territorio per un grossa mobilitazione che non solo si opporrà alla schifezza organizzata dai casapoundisti ma in generale, appunto, ad ogni,esaltazione,celebrazione,militarismo,irredentismo,nazionalismo,ecc pro #grandeguerra. Se tutto va bene nascerà qualcosa di importante,forse di nuovo,che coinvolgerà anche l’oltre confine… che abbinerà cultura,storia alla mobilitazione e quello che su giap si produce è fondamentale.
      Insomma, è iniziato lo stato di agitazione antinazionalismo.

  10. Sarebbe bello accostare a questa “scoperta del nord est” post 1918 la seconda scoperta del nord est che è avvenuta negli anni ’80 con la fabbrica diffusa e tutta l’etica degli sghei che ancora sono abbastanza dominanti.

  11. Ieri a Ronchi dei Partigiani c’è stata la prima del reading musicale di Piero Purini “Io rifiuto la guerra”, dedicato ai fantasmi della diserzione.

    https://drive.google.com/file/d/0B5GeV249UR9NVEwycVhkMVBvbzQ/view?usp=sharing

    Lo spettacolo è costruito alternando reading e canzoni (“o gorizia tu sei maledetta” è da brividi). Le canzoni sono in italiano, tedesco, sloveno, inglese. Gli spiegoni sono una sapiente miscela di storie individuali, testimonianze, lettere dal fronte, e inquadramento storico generale. Il racconto parte dall’iniziale entusiasmo creato dalla propaganda, e attraverso i primi germi di rivolta, conduce fino alla diserzione generalizzata che provocò di fatto la fine della guerra. L’impostazione dello spettacolo è assolutamente non italocentrica: il respiro è europeo, e non solo. Le storie narrate ci portano fino al Texas, dove i coscritti afroamericani si rifiutano di partire e furono decimati.

    Consiglio a tutt* di andarlo a vedere, a Trieste e dintorni, e speriamo anche fuori dal TLT ;-)

    p.s. OT me neanche tanto. A proposito di afroamericani: nel librone di Alan Lomax sulla storia del blues c’è un passaggio molto interessante sugli afroamericani arruolati nella WW2, e sul loro scetticismo (eufemismo) rispetto alla parola d’ordine “combattiamo il razzista Hitler”: loro, gli afroamericani, Hitler ce l’avevano in casa…

  12. rispetto al nordest e all’immaginario legato alla serenissima, mi ha stupito (ma non troppo) uno strano corto circuito che si è creato per il 25 aprile tra il comune di padova e il comitato no grandi navi (ma la galassia dei centri sociali del nordest è da qualche tempo che strizza l’occhio alla simbologia legata al leone alato):

    http://www.nodalmolin.it/Venezia-Occupato-il-tetto-del#.VT4FDmZLIl4

    “Il Comitato No Grandi Navi – Laguna Bene Comune ha occupato per oltre due ore il tetto del Terminal Passeggeri del Porto di Venezia. Nel giorno della Liberazione e della festa di San Marco il Comitato ha voluto ribadire che oggi bisogna liberarsi non solo dei residui fascisti e xenofobi della nostra società, ma anche da quei “poteri forti” che continuano ad imporre su territori e cittadini modelli di sviluppo criminali, insostenibili da ogni punto di vista, economico, ambientale e sociale”.

    http://www.padovanet.it/dettaglio.jsp?schedatipo=E&tassid=1043&id=5737#.VT4RwWZLIl4

    “Il Comune di Padova organizza, come ogni anno, la consueta cerimonia in occasione del 70° anniversario della Liberazione.

    “Ogni storia è storia contemporanea in quanto la ricerca sul passato è sempre frutto di interessi, domande, curiosità, che nascono dall’oggi. Ed è, insieme, il metodo per il quale ogni storia, per particolare che sia il problema preso in considerazione, è sempre storia universale”.

    A 70 anni dal 25 aprile 1945, dalla Liberazione dal nazi-fascismo, le parole di Benedetto Croce, che definì quell’esperienza una “necrosi spirituale”, ci illuminano e ci invitano ancora una volta a ricordare quei giorni terribili.

    Il 25 aprile ricorre anche una tradizione ben più antica per tutti i veneti: è la festa di San Marco, santo patrono di Venezia, il cui simbolo di evangelista divenne lo stemma della Serenissima e accompagnò la storia e il legame esclusivo tra il nostro popolo e i valori di pace e fratellanza che sono il cuore del messaggio evangelico.

    Il carattere di un popolo è “la sua storia”, sosteneva Croce, e ricordare significa anche elaborare il passato, per guardare al futuro: questa è la sfida che oggi riproponiamo, a 70 anni dalla riconquista della libertà.

    La cerimonia è in collaborazione con il Comando Forze di Difesa Interregionale Nord e le Associazioni partigiane, combattentistiche e d’arma.

    • A proposito, infatti. L’indipendentismo a Nord-Est affascina davvero (in modo a mio parere tossico) non solo la galassia delle destre ma anche – perlomeno un annetto fa, ignoro se ancora oggi – l’area dei centri sociali “storici” del nordest (che hanno molto a che fare con le ex tute bianche di Casarini, poi “disobbedienti”). E qui è la macchina mitologica della Serenissima ad aver fatto da tentatrice. Si confezionarono bandiere in cui il leone di San Marco appariva con il passamontagna alla subcomandante Marcos ( http://www.sherwood.it/articolo/4269/sherwood-festival-indipendenti-per-essere-piu-liberi-uguali-solidali ), si invitò a conferenze quell’ancora più ambiguo Franco Rocchetta fondatore della Liga veneta, della Lega nord, legato all’episodio dell’occupazione del campanile di San Marco nel 1997 con il famigerato tank (nell’intervista al link di cui sopra c’è lui che si lamenta, in rigoroso dialetto veneto, di come le corrispondenze tra l’autonomismo veneto e quello messicano del Chiapas vengano sistematicamente rimosse, a suo dire, dalla pagina wiki dedicata a quell’episodio) (tra l’altro è da leggere la sua biografia su wikipedia, pare scritta da lui stesso). O si scrissero articoli come questo, http://www.globalproject.info/it/in_movimento/la-nostra-indipendenza-non-ha-confini/16853, in cui si auspicava un “Veneto libero, in un’Europa democratica, in un mondo senza confini”. Mi limito a segnalare la cosa e non approfondire i funambolismi che ci erano voluti per paragonare le spinte autonomiste venete al Chiapas o ai paesi Baschi. Ma tant’è. Giusto per dire che in veneto succede anche questo.

  13. Alessandro Anderloni forse avrà giustizia?
    http://www.corriere.it/cronache/15_maggio_21/grande-guerra-onore-perduto-ma-restituito-soldati-fucilati-grande-guerra-95e68902-fffd-11e4-8e1b-bb088a57f88b.shtml

    PS
    ma Dino Martirano forse si è letto bene il vostro cent’anni a nordest. a tratti sembra un ctrl-c ctrl-v …