Tolkien, la fine degli dèi e L’Armata dei Sonnambuli

ragnarok

Wu Ming 4

 

1. Il Ragnarök e la Terra di Mezzo

Su L’Indice dei Libri del mese di maggio è uscita una doppia recensione scritta da Fulvio Ferrari, germanista e scandinavista, insieme al quale l’anno scorso ho partecipato a una bella conferenza, all’Università di Trento, sul riuso del mito nordico.
Ferrari recensisce l’ultimo libro di A.S. Byatt, Ragnarök – La fine degli dèi, insieme a Difendere la Terra di Mezzo.
Della Byatt mi ero già occupato qui su Giap, a proposito del suo romanzo Il libro dei bambiniRagnarök invece non è un vero e proprio romanzo, ma piuttosto un oggetto narrativo non identificato. In parte è una riscrittura dei miti nordici con l’espediente di un personaggio di finzione (ma vagamente autobiografico) che li legge e li interpreta in un momento particolare del XX secolo. Per usare le parole di Ferrari: “una rinarrazione filtrata dalla memoria, ampliata dalla fantasia, integrata dalla cultura personale dell’autrice e rimodellata sulla sua visione del mondo”. Non solo questo, però. Alla fine del racconto, anzi, dei racconti, il libro si conclude con una decina di pagine di “Pensieri sui miti”, in cui l’autrice spiega sulla base di quali suggestioni ha lavorato, su quali fonti, e perfino qual è secondo lei l’allegoria che quei miti possono contenere per il presente. Si crea così una sovrapposizione di allegorie. La “bambina magra”, protagonista-lettrice della narrazione, legge il Ragnarök nordico nel clima da fine del mondo durante la Seconda Guerra Mondiale. E’ una bambina inglese, una di quei “children of the King” mandati in campagna per sfuggire ai bombardamenti sulle città, il cui padre è un aviatore della RAF, partito per la guerra sui cieli d’Africa. A.S. Byatt, che forse è l’alter ego di quella bambina, o la sua versione adulta, suggerisce invece che il mito della fine del mondo, la fine degli déi che periscono nella battaglia contro i mostri del caos, ci racconta la prospettiva dell’autoestinzione che si affaccia nella storia umana contemporanea, grazie all’impatto sempre più insostenibile della specie sul pianeta.
E’ come se l’autrice volesse dimostrarci – e in effetti lo dice in quelle pagine finali – come funziona il mito, qual è la sua forza eterna e il suo carattere di racconto universale: lasciarsi declinare sul presente, in chiave storica o personale. Unknown
Leggendo il libro di A.S. Byatt mi veniva in mente Il Ritorno di Beorhtnoth figlio di Beorhthelm, dove appunto per sostenere la propria interpretazione poetica (di un poema, in quel caso, non di un mito) Tolkien produce sia una nuova narrazione sia l’apparato saggistico-filologico che la compendia.

Questo mi porta alla critica mossa da Ferrari al mio libro, che potrei sintetizzare così: l’intento di liberare Tolkien dalle incrostazioni e dai pregiudizi che gli si sono sedimentati addosso nel corso del tempo non dovrebbe impedirci di sottoporre a una lettura critica i suoi limiti. Dunque il Tolkien “borghese” e “cattolico” va contestualizzato criticamente tanto quanto ogni altro autore. Il mio libro invece tenderebbe a universalizzarlo un po’ troppo. In particolare l’accusa di agnosticismo che rivolgo alla generazione di scrittori di fantasy successiva a quella di Tolkien suonerebbe ingiusta per scrittori impegnati come, ad esempio, Michael Moorcock e China Miéville.
Non a caso, suppongo, vengono citati due autori dichiaratamente di sinistra, impegnati dentro e fuori le pagine di narrativa. I due, pur appartenendo a generazioni diverse, condividono anche il disprezzo per le opere di Tolkien, che reputano reazionarie e in grado di ispirare in negativo la loro stessa produzione letteraria.
E’ il caso di notare che questa è la prima critica seria mossa al mio libro “da sinistra” (alla buon ora, verrebbe da dire) e per di più espressa da un filologo. Vale senz’altro la pena replicare.

2. Epater le bourgeois?

Se la necessità di individuare le ragioni della persistenza dell’opera di Tolkien nell’immaginario contemporaneo ha forse impedito un’analisi più in chiaroscuro, bisogna dire che in effetti tale analisi non era lo scopo che mi ero prefisso. Ciò che intendevo indagare era proprio il motivo per cui l’opera di Tolkien incontra l’ammirazione di lettori delle più varie appartenenze generazionali, ideologiche, culturali, religiose, nonostante sia evidentemente figlia di una visione dell’Uomo e del mondo piuttosto orientata. Proprio l’inserimento in appendice di un saggio di Tom Shippey che polemizza con certa critica letteraria di sinistra, doveva servire, nelle mie intenzioni, a non sottacere gli aspetti citati da Ferrari. In quelle pagine, Shippey ammette e dimostra che i valori positivi nella creazione letteraria di Tolkien sono figli di una visione cattolica e borghese, e tuttavia, aggiunge Shippey, questo non impedisce all’autore di sottoporli a un vaglio critico e di metterli sotto stress attraverso il confronto e l’attrito con altri sistemi valoriali.

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China Miéville

C’è dell’altro. La tesi di Shippey ripresa nel mio saggio è che Tolkien scommettesse sulla sopravvivenza di certi princìpi etici – cristiani, ma in parte già “virtuosamente” pagani – in un mondo post-cristiano. Il suo racconto fa anche questo: proietta determinate virtù evangeliche in un mondo ostile e non evangelizzato, creando così un parallelo tra due zone liminari della storia: Alto Medioevo e contemporaneità. In altre parole Tolkien, nelle sue storie, scinde l’etica dalla religione, quindi dalla promessa di redenzione. Non proprio un esercizietto di stile per un cattolico preconciliare come lui, bensì un’affermazione alquanto coraggiosa, che infatti gli attirò non poche critiche da parte degli amici cattolici. Il limite che probabilmente avrei dovuto sottoporre a un vaglio più stringente costituisce anche uno dei punti di forza della sua poetica, e ne sancisce, per così dire, l’universalità. Universalità che ovviamente è da considerarsi tutt’altro che indiscussa, bensì, a sua volta, figlia di un’epoca storica (e di questo ho scritto a lungo).
Ciò che sancisce l’efficacia, la longevità e finanche l’imprescindibiltà di una narrazione, di un mito rideclinato, non è né l’impegno politico-sociale del suo autore (Tolkien non fu affatto un intellettuale engagé), né l’inserimento di determinate tesi ideologiche o allegorie nel racconto stesso, bensì la capacità di raccontare in maniera originale dilemmi epocali, antropologici, culturali, psicologici. In questo senso è ovvio che solo il tempo può essere giudice, e per il momento, piaccia o no, la sentenza è a favore di Tolkien.

Da questo punto di vista un esempio lo offre proprio il libro di A.S. Byatt, con l’allegoria contemporanea da lei proposta per il Ragnarök: il male storico rappresentato dal nazi-fascismo è stato sconfitto, ma il male che la civiltà umana porta con sé ancora oggi è altrettanto se non più pernicioso. Della serie: quanto nazismo continuiamo a portarci dietro/dentro? Non mi viene in mente niente di più tolkieniano, forse perché Il Signore degli Anelli – romanzo che di archetipi mitici ne utilizza un bel po’ – ha un’applicabilità piuttosto calzante con questa riflessione. Poco importa che ciò sia possibile a prescindere o proprio in virtù dei valori morali di matrice cristiana che ne percorrono le pagine.

3. Magia e filologia creativa

Durante la presentazione de L’Armata dei Sonnambuli al centro sociale NextEmerson di Firenze mi è stata rivolta una domanda che ritengo in qualche modo connessa alla riflessione fatta sopra.
Mi è stato chiesto se e come il mio lavoro su Tolkien è entrato nell’elaborazione dell’ultimo romanzo del collettivo. Riporto qui la mia risposta, provando a elaborarla ulteriormente.
Ritengo infatti che almeno sotto due aspetti tra le pagine de L’Armata dei Sonnambuli si respiri aria tolkieniana.

alan-rickman

Severus Snape

Il primo riguarda la “magia”. Già in Manituana la magia era presente. In quel romanzo c’era un personaggio che si trasfigurava in un picchio e perfino un caso di ubiquità. Si trattava però di fenomeni connessi alla cultura dei nativi americani, quindi in qualche modo esotico-ancestrali. Ne L’Armata dei Sonnambuli la magia è portata nel cuore della civiltà europea, in pieno secolo dei Lumi, tanto che qualche lettore ha storto il naso di fronte a quello che è stato definito, non a caso, uno sconfinamento di Wu Ming nel “fantasy” (con l’immancabile accusa di facile commercializzazione, ché si sa, il fantasy mica è narrativa per lettori seri…).
Come è stato discusso nel thread a spoiler libero qui su Giap, è evidente che nel nostro romanzo gli effetti più eclatanti del magnetismo sono soggetti a due possibili letture. Si possono attribuire alla suggestione, alla credenza (“Credete e Volete” è il motto di uno dei magnetizzatori), oppure, se si preferisce, si possono interpretare alla stregua della “forza” degli Jedi di Guerre Stellari. Nell’un caso e nell’altro, ciò che conta è che tale forza, qualunque sia la sua natura, agisce realmente. Era questa la risposta di alcuni sostenitori della teoria del magnetismo animale già alla fine del XVIII secolo, di fronte agli scettici: ciò che conta è che funzioni.
Secondo i magnetisti “democratici” del nostro romanzo, si tratta soltanto di acquisire una tecnica, non c’è bisogno di nessun carisma individuale, non esiste il magnetista, soltanto il magnetismo, che chiunque può praticare.
I magnetisti “elitari” invece ritengono che soltanto una ferrea volontà possa padroneggiare appieno il fluido magnetico, e dunque connettono il magnetismo alla natura del singolo individuo eccellente, che riesce così a imporsi sul prossimo.
Quello che si scopre nel corso del romanzo – e nel corso della storia contemporanea, possiamo dire – è che al lato pratico il confine tra le due interpretazioni è più labile di quanto si pensi, giacché anche il fine terapeutico, o di riscatto sociale collettivo, può celare una forma di controllo e di imposizione paternalistica della volontà sul soggetto debole.
Dunque la magia non è soltanto questione di tecniche acquisite (non si impara a Hogwarts, per intenderci), ma si fonda su un doppio legame tra credenza e volontà. Di mezzo c’è il limite etico che il soggetto forte impone a se stesso oppure no. Personalmente trovo che questo tema, l’esercizio più o meno cauto del proprio carisma e del proprio potere sul prossimo, sia assolutamente tolkieniano (basti pensare alla diversità d’approccio “filosofico” tra Gandalf e Sauron, o alla stessa corruzione di Saruman, tanto per restare in tema di stregoni e negromanti). In altre occasioni ne ho trattato lungamente.

9780618640157_custom-bd5c36cb700fafac72208e5f622a6d1a9ca85489-s6-c30Il secondo aspetto riguarda la relazione tra fonti e fiction. Abbiamo detto che il quinto atto de L’Armata dei Sonnambuli contamina le fonti storiche con la narrativa e addirittura fa entrare noi autori, il nostro lavoro, dentro il testo.
E’ un passaggio ulteriore rispetto a quello praticato in Altai, ad esempio. Alla fine di quel romanzo compariva un memoriale, sorta di autobiografia scritta da uno dei personaggi, che raccontava le avventure di un eretico ribelle nell’Europa del XVI secolo fino al suo approdo alla corte del Sultano. Se si considera il fatto che Q è scritto in io narrante, con la voce di quello stesso personaggio, non ci vuole molto per collegare il manoscritto finzionale al romanzo pubblicato nel nostro piano di realtà.
L’espediente del manoscritto ritrovato non è certo una novità né una rarità, e non basta quindi ricordare che l’intero ciclo tolkieniano dell’Anello si basa su questo per stabilire una connessione. Credo infatti che il legame, o l’influenza indiretta, sia d’altro tipo. Trattare le fonti storiche alla stregua di quelle finzionali è una scelta narrativa che mi ricorda – sia detto ex post – proprio la filologia creativa di Tolkien. Confrontando le Appendici del Signore degli Anelli e il quinto atto de L’Armata dei Sonnambuli si possono riscontrare due elementi in comune: l’idea che i racconti proseguono oltre il finale del romanzo e che quindi il volume che si ha in mano contenga altri potenziali romanzi; e l’idea che quelle storie si inscrivano in un quadro storico più allargato assolutamente coerente. Coerente con le fonti attestate, nel nostro caso; ma nel momento in cui andiamo a riscriverle o, appunto, a contaminarle, ci avviciniamo proprio alla produzione del Tolkien “storico” della Terra di Mezzo, che agisce da filologo creativo, fornendo un’infinità di apparati, notizie biografiche, elementi di contesto, sequel e prequel.
Sospetto che esista un ulteriore piano di affinità, che però pertiene più strettamente alla poetica tolkieniana e wuminghiana, ma non tocca a me inerpicarmi per quella salita. Mi fermo qui, nelle basse brughiere del Riddermark.

4. Credits + postilla

Grazie a Fulvio Ferrari, per la cordialità e per la bella recensione di Difendere la Terra di Mezzo.
A Marco Meacci, per aver formulato la domanda che mi ha dato l’occasione di riflettere sui legami tra il mio saggio e L’Armata dei Sonnambuli.
Ad Antonia Susan Byatt, per avere scritto tutto ciò che ha scritto.
Agli spoileristi e trap-hunters che in questo blog animano la discussione su L’Armata dei Sonnambuli.

A mo’ di postilla vale la pena ricordare che sta per essere pubblicata in Gran Bretagna e Stati Uniti la traduzione in inglese moderno del Beowulf fatta da Tolkien negli anni Trenta. Si tratta della sua traduzione di lavoro, ad uso dell’attività di docente, incompleta, con un lessico ormai obsoleto, e della quale erano già stati pubblicati stralci nel corso degli anni. Un’operazione editoriale che ha lasciato perplesso più di un commentatore e che a me fa nascere spontanea la domanda: a quando la pubblicazione della lista della spesa di Tolkien? Ne parla con dovizia di particolari Roberto Arduini QUI.

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12 commenti su “Tolkien, la fine degli dèi e L’Armata dei Sonnambuli

  1. Salve,
    per una strana coincidenza ho letto questo intervento poche ore dopo aver terminato la lettura di ‘L’albero filosofico’ di Jung (Boringhieri), dove viene descritto il rapporto tra l’alchimista ed il processo alchemico esattamente nei termini che tu usi per riferirti al rapporto con la magia. Più in generale, avendo letto il tuo libro su Tolkien e avendo seguito ‘dalla prima ora’ quanto avete scritto come wuming, ma anche le riflessioni sulla letteratura di genere (qui ed altrove: per esempio su Carmilla), mi sono posto più volte la domanda se ci fosse mai stata una riflessione da parte vostra sugli aspetti che coinvolgono la teoria e la ricerca psicoanalitica rispetto a questi temi. Jung è stato uno dei primi a riflettere in modo serio e approfondito sulla letteratura e le rappresentazioni simboliche ‘di genere’ (in particolare della fantascienza) o ad occuparsi di fenomeni di massa ‘pop’ che coinvolgevano l’inconscio collettivo (dagli UFO, alla parapsicologia, fino agli oroscopi sui giornali). In fondo la capacità di ‘reggere’ al tempo della mitologia tolkieniana confermerebbe, nella prospettiva di Jung, l’esistenza di un inconscio collettivo i cui archetipi (condivisi dall’intera umanità al di là delle differenze culturali e temporali), tramite la creazione di simboli generano miti e mitologie continuamente riadattati ai tempi ma che sempre si richiamano a quel patrimonio di archetipi originari. Anche Freud aveva riconosciuto il permanere di ‘arcaismi’ che l’inconscio riconosceva per via simbolica. Non pensi che la letteratura di genere abbia molto a che fare con tutto ciò?

    • Non sono un esperto di Jung (ma ho letto alcuni “junghiani”). Tuttavia credo che il modo in cui io – ma vale per Wu Ming in generale – uso il termine “archetipo” sia piuttosto diverso dal suo. Non credo cioè che gli archetipi siano qualcosa di indelebilmente inciso nella psiche umana ab origine, bensì frutto della storia della specie. L’archetipo per me è una costante mitica, cioè connessa al racconto. Siccome l’esperienza umana è per molti versi uguale per tutti (tutti nasciamo, proviamo certe pulsioni, moriamo, ci confrontiamo con l’altro da noi, con l’idea di infinito, ecc.) è evidente che tra i miti ci sono somiglianze e perfino coincidenze trans-culturali, ma al tempo stesso ci sono anche differenze. Può sembrare una sfumatura, ma in realtà non lo è: spostare l’accento su un aspetto o sull’altro cambia la prospettiva. Io rimango legato a una visione immanente, mentre ho il presentimento che quella di Jung tenda al trascendentale. Non occupandomi di psicanalisi continuo a parlare di archetipi mitici, intesi come costanti narrative che affrontano determinati temi. Gli arcaismi riconosciuti per via simbolica aprono la strada al simbolismo appunto, alle letture simboliste, che trovo fondamentalmente tautologiche: chi cerca il simbolo lo trova, scrivevo nel mio libro su Tolkien.
      Un esempio mi viene proprio dalla letteratura secondaria su Tolkien.
      La casa editrice Marietti pubblicherà finalmente il saggio di W.H. Green su Lo Hobbit. E’ una delle cose migliori e più accessibili che siano state scritte su quel romanzo, a mio avviso, eccetto per le parti in cui l’autore dà sfogo al proprio junghismo (di matrice statunitense). Mentre quando analizza la struttura del racconto, le figure che vi compaiono, i riferimenti letterari e mitici, riesce a dare un senso di profondità e a svelare le interrelazioni e il lavoro sottesi alla narrazione, quando invece si lancia alla ricerca degli archetipi inconsci non lo si segue più. Ci sono pagine in cui Green rintraccia l’archetipo della Grande Madre un po’ dovunque. Non gli basta dire, con grande acume, che il personaggio femminile del romanzo è Belladonna Tuc, la madre del protagonista; non gli basta, cioè, il racconto. Deve andare oltre e aggiungere che c’è la Madre Terra su cui i personaggi camminano (questo però vale per qualunque storia). Oppure deve rintracciare un elemento materno in Gandalf, nel vestito che porta, cioè il sottanone degli stregoni… E via così. Sono riflessioni che suonano davvero forzate, per non dire attaccate con lo sputo, in un saggio – ripeto – assolutamente valido.
      Un altro esempio potrebbero essere certe letture junghiano-femministe di Tolkien fatte negli anni Sessanta, dove la ragna gigante Shelob simboleggia la vagina, mentre lo spadino Pungolo brandito da Sam un pene eretto che viene conficcato là dentro… E giù a dare addosso a Tolkien maschilista, ecc. ecc. Certo che Shelob incarna un archetipo, è un mostro ctonio di genere femminile, che minaccia i protagonisti, come ne compaiono in moltissime favole, leggende e miti. Quando ne L’Eroe Imperfetto ho scritto che è una delle facce della Triplice Dea, mi riferivo ancora a una costante narrativa, cioè al tema mitico dei tre aspetti del divino femminile, ma senza staccarmi da quella dimensione, cioè senza stabilire collegamenti tra questa figura e l’inconscio (sessuale) collettivo, del quale, sinceramente, non mi azzarderei a dire nulla.
      Insomma, io ho sempre prediletto un approccio tutt’al più “gravesiano”, mitico-poetico, piuttosto che simbolista.

      • Sì, capisco cosa intendi dire e penso che per chi scrive sia un bene ‘non porsi il problema’ e non caricare di simboli ciò che scrive, simboli che del resto hanno un valore quando sorgono spontanei (e bene o male, nei vostri libri se ne possono individuare). Penso, però, che tutto sommato Jung applicasse le sue idee con più saggezza ed intelligenza degli ‘junghiani’: tanto per fare un esempio, quando smontò l’interpretazione di Leonardo in chiave omosessuale da parte di Freud. Ad ogni modo, grazie per le tante, e gradevoli, ore di lettura (personalmente resto un fan di 54, anche per la presenza di Bao Dai).

  2. Ti ringrazio per la citazione, è sempre un immenso piacere partecipare alle vostre presentazioni e la parte più interessante è sempre quella del dialogo con il pubblico presente.
    Sono un amante di Tolkien e non avevo notato il collegamento tra Quinto atto e le Appendici del Signore degli Anelli. Interessante il fatto che questo collegamento non sia stato voluto da te/voi in partenza, ma lo abbia scoperto anche tu analizzando a posteriori (almeno così mi è sembrato di capire). Ma del resto come dicevate l’AdS è figlia delle vostre suggestioni.

  3. Casualmente ho letto Ragnarök poche settimane fa, con un personale senso di immedesimazione avendo scoperto la mitologia nordica da preadolescente, attorno ai 12-13 anni, insieme alla mitologia greca classica (mentre a Tolkien mi sono avvicinato molto più tardi, ormai adulto) e questo articolo mi induce a chiedervi un vostro parere su una questione per me ancora irrisolta: ho da sempre subito il fascino di queste narrazioni (da lettore appassionato ma non come filologo o “esperto”) in quanto imperfette, con lo stesso animo che credo possa avere l’archeologo che si imbatta in rovine che dicano molto ma ancor più nascondano o soltanto suggeriscano, mostrandoci, – parafrasando Montale – “ciò che non siamo, ciò che non possiamo” in quanto ormai irrevocabilmente separati.
    Ma la domanda che mi frulla in testa è: da quando e perchè di questi miti si è impossessata la destra (non dimentichiamo che negli anni settanta i campi di addestramento per i neofascisti si chiamavano “campi Hobbit”) quando l’afflato spirituale e viscerale che ne promana spesso nulla a che fare con la maggior parte delle frescacce destrorse?

    • Si tratta di coincidenze e concorsi di colpa, per così dire, ovvero di un misto di casualità, negligenza e paraculaggine.
      Da “Difendere la Terra di Mezzo”, cap. 4:

      “È noto, infatti, che negli anni Settanta la destra italiana scoprì in Tolkien un autore escluso dalla critica di formazione gramsciana, ignorato dall’accademia e apprezzato dai lettori, quindi spendibile contro l’egemonia culturale di sinistra.
      Il Signore degli Anelli si ambienta in una sorta di Medioevo fantastico; si incentra sulle figure archetipiche della fiaba e del romance; racconta la resistenza di antichi popoli d’Occidente contro l’invasione di un potere tirannico.
      Su queste premesse si sviluppò una lettura che, partendo dalla presenza nel Signore degli Anelli di certi tòpoi mitico-letterari, e interpretando le avventure dei protagonisti del romanzo come metafore di un cammino iniziatico verso l’elevazione spirituale, pretendeva di fare di Tolkien una sorta di cultore del “simbolismo tradizionale”, ovvero della forza metastorica della Tradizione (con la T maiuscola), e un campione della battaglia culturale contro la modernità.
      Secondo queste linee di interpretazione, sviluppatesi soltanto in Italia – per così dire, sotto vuoto, cioè senza alcun confronto serio con le principali correnti di studio nel mondo anglofono –, Tolkien condividerebbe una poetica reazionaria, devota ai valori di un ideale Medioevo ibrido e al paganesimo nordico appena ammantato di cristianesimo.
      Per molti anni questa chiave di lettura (o forse si potrebbe dire di “non-lettura”) ha gettato una pesante ipoteca sulla ricezione di Tolkien nel nostro paese, potendo contare su un buon alleato: il disprezzo di certa critica di sinistra nei confronti della letteratura fantastica e fantasy in particolare, che, con rare eccezioni, ha sostanzialmente sottovalutato l’importanza di questo autore.”

      • Vero che solo in Italia Tolkien ha avuto quella connotazione, però va ricordato che non accadde casualmente. Tolkien venne introdotto al pubblico italiano da case editrici come Rusconi e Adelphi che negli anni ’70 si proposero una vera e propria ‘kulturkampf’ contro l’egemonia culturale di sinistra. La promozione di Tolkien da parte di una cultura ‘alta’ di destra e tradizionalista fu conseguenza di una scelta consapevole: mentori dell’operazione, oltre a Citati, furono intellettuali di destra come Quirino Principe e Elemire Zolla. D’altro canto, mentre altrove Tolkien ha impiegato alcuni decenni per essere apprezzato nei termini di una letteratura ‘alta’ e non semplicemente come letteratura per ragazzi o di genere, in Italia fu subito presentato con l’etichetta di ‘letteratura colta’ e quasi ‘iniziatica’ (vedi Zolla). Non è vero però che venne fatto proprio solo dalla destra: gli ‘hobbit’ erano presenti anche al ‘famigerato’ festival del Parco Lambro e, in generale, furono subito accolti nella cultura ‘frikkettona’. Divenne, tra gli altri, a fine anni ’70, una lettura diffusa tra gli ‘arancioni’ italiani di Bagwan (oggi meglio noto come Osho: peraltro all’epoca anche lui seguito con attenzione dalla cultura ‘tradizionalista’, vedi il solito Zolla e il milieu della Adelphi), di cui erano esponenti due ex leader del movimento come Rostagno e Valcarenghi (entrambi ‘tolkieniani’ della prima ora): tra questi nacque anche un gruppo musicale che si ispirava al Signore degli anelli e che musicava canzoni prese dai libri di Tolkien. Così come faceva Branduardi, che però inserì Tolkien in un suo percorso personale verso l’esoterismo tradizionalista.
        Personalmente, negli anni ’70, mi avvicinai alla mitologia norrena prima di conoscere Tolkien, attraverso i fumetti di Thor: solo una ventina di anni dopo ho letto l’Edda. E solo pochi anni fa ho scoperto come la mitologia nordica, con i suoi arcaismi, in realtà, avesse probabilmente subito un’influenza cristiana: evidente in una serie di rappresentazioni, leggende e simboli, rielaborati e apparentemente lontani ma in effetti coincidenti con tematiche e simbologie cristiane.

      • Tolkien è un autore che conosco poco, anche se seguo con molta simpatia l’operazione critica condotta da Wu Ming 4 per liberarlo dalle misinterpretazioni della destra italiana. Quando Wu Ming 4, nel brano qui sopra, dice che Tolkien è “autore escluso dalla critica di formazione gramsciana”, dice sicuramente il vero, però non posso trattenermi dall’osservare che questa disattenzione da parte di certa critica è in realtà molto lontana dalla lezione di Gramsci e dalla attenzione che il comunista sardo riservò nei “Quaderni” alla letteratura popolare. Mi viene da dire che se si fosse letto Gramsci con la dovuta attenzione, forse non si sarebbe commesso l’errore di lasciare alla destra un autore importante come Tolkien.

  4. Semmai, invece di chiudere la questione inchiodando Tolkien tra i reazionari, per rispondere compiutamente alle critiche poste al Tolkien “borghese e reazionario”, bisognerebbe aggredire la questione di fondo delle potenzialità progressive dell’ispirazione evangelica del medesimo e complessivamente di quel pensiero della religione. La potenzialità politica di queste idee travalica la dottrina da cui sono ispirate come la potenzialità comunicativa di un’opera d’arte travalica le proprie premesse sia storiche che soggettive. Non di tutte, forse, ma di quelle grandi come il Signore degli Anelli, sì. Senza quindi nulla levare alla constatazione della fondatezza di numerose “critiche” a Tolkien, io vedo nella sua opera una certa tensione dialettica e soprattutto, oltre il senso della storia di cui parla wm4, ci trovo una profonda e vivida “speranza”. Come disegno complessivo e come molla psicologica dei personaggi. La letteratura dovrebbe alimentarsi di questo e quando vedo autori dichiaratamente di sinistra come Moorcock che scrivono cicli letterariamente validissimi come quello di Elric, ma dove la grande assente è proprio la speranza, il problema politico me lo pongo. Ma non per Tolkien.

    • Infatti personalmente non vedo perché la presenza di princìpi cristiani nell’opera di Tolkien dovrebbe rappresentare un problema o un limite di per sé. Fatto salvo che ogni autore e ogni opera ha dei limiti contingenti, si potrebbe perfino dire che potenzialmente proprio la presenza di elementi cristiani impedisce la chiusura su una visione specificamente “borghese” e di classe, e invece la allarga e la apre oltre quel limite. Ma poi, ripeto, nella misura in cui nella Terra di Mezzo non c’è Avvento né Redenzione, restano i princìpi morali, la riflessione sul potere, sulla vita e la morte, sul male, ecc. E soprattutto resta, appunto, la “speranza senza garanzie”, di cui parlava Tolkien stesso.

      • Oltretutto, se uno volesse, potrebbe prendere come un poderoso contributo all’esplorazione delle potenzialità di liberazione di determinati elementi proprio Q, il vostro romanzo di apertura. Che si chiude, per l’appunto, senza avventi e redenzioni ma con una speranza.

  5. Ecco qua invece una stroncatura “da sinistra” del mio lavoro su Tolkien, in cui vengo accusato di “giustificazionismo tolkieniano” (e chissà che non mi meriti un processo politico…):
    http://www.xepel.altervista.org/index.php/arte/44-letteratura-e-fumetti/127-lhobbyt-della-reazione-note-a-margine-del-giustificazionismo-tolkieniano-di-wu-ming.html

    Qui sotto la mia replica:

    Caro X,
    il tuo articolo si inserisce pienamente nella linea intrepretativa di Gianfranco De Turris & soci, dei quali sposi completamente le tesi. Riesci al contempo a sposare anche l’interpretazione cattolica di destra di certi lettori di Tolkien, come l’ex-nazista, oggi cattolicissimo, Joseph Pearce.
    Direi che io e te ci troviamo proprio su barricate contrapposte, ma ti ringrazio ugualmente, perché dimostri ancora una volta quanto ci fosse bisogno del mio libro.
    Siccome hai speso tempo a scrivere del mio lavoro, ricambio lo sbattimento facendoti almeno notare le dieci mistificazioni e falsità più plateali contenute nella tua critica. Ovviamente parto dal presupposto che tu sia in buona fede, cosa che però, non conoscendoti, non posso dare per certa.

    1) “Middle-Earth” non è un sinonimo né un riferimento al Medioevo. “Middle-Earth” è il modo in cui nella mitologia norrena viene definito il mondo degli uomini, che sta “in mezzo” tra quello degli déi e gli inferi, o – in una versione cristiana – tra Paradiso e Inferno. Tolkien equiparava il concetto di Middle-Earth a quello greco di οἰκουμένη, che significa “la casa dove tutti viviamo”, cioè il nostro mondo (lettera 211).

    2) Tolkien non ha mai difeso acriticamente i valori dell’aristocrazia medievale. Tali valori, che vigono in alcune società della Terra di Mezzo, come Gondor e Rohan, non vigono invece in altre, come presso gli Hobbit o i Drùedain. Per altro, Tolkien, nella sua narrativa e nel suo lavoro di filologo, ha cercato di mostrare come i valori dell’eroismo aristocratico siano un’arma a doppio taglio. Per rendersene conto basterebbe leggere “Il Ritorno di Beorhtnoth figlio di Beorhthelm”, o focalizzare i moventi di alcuni personaggi tolkieniani, come Bilbo, Frodo, Sam, Faramir (vedi Difendere la Terra di Mezzo, cap. 6).

    3) Tolkien non ha mai pensato che il passato potesse essere riportato in vita e ha precisamente stigmatizzato quest’attitudine nostalgica negli Elfi (lettera 154). Criticò altresì il tentativo nazista di riportare in auge la mitologia norrena, e lo fece proprio sul terreno della sua materia, la filologia, tanto nel “Ritorno di Beorhtnoth figlio di Beorhthelm” (1953), quanto già nel suo “Beowulf: i mostri e i critici” (1936).

    4) Tolkien non ha mai preso le difese dell’impero o dell’imperialismo britannico, che considerava responsabile di grandi nefandezze in Africa e in Asia, insieme all’imperialismo americano (lettera 100). Rimase inorridito dallo sgancio delle bombe atomiche sul Giappone (lettera 102). Tutto questo lo portò ad affermare, negli ultimi mesi di guerra, di avere perso anche l’ultima briciola di patriottismo (lettera 100). Era altresì avverso al concetto di Gran Bretagna e di Commonwealth (lettera 53), quindi anche alla colonizzazione di Galles, Scozia e Irlanda. In particolare odiava il regime di apartheid del suo paese natale (vedi lettera 61 e 183 e soprattutto il discorso di commiato dall’università di Oxford, 1959). Sono stati i fascisti italiani e alcuni britannici – ai quali tu ti accodi – a sostenere una lettura arbitrariamente razzista, imperialista, e guerrafondaia del Signore degli Anelli.

    5) Tolkien ha sempre respinto al mittente le interpretazioni allegoriche cristiane della propria opera: Frodo come Cristo, Galadriel come Maria, gli hobbit come i santi, ecc. Ha sempre affermato che i valori positivi nelle sue storie sono di evidente derivazione cristiana e cattolica, ed è innegabile, ma si è sempre opposto a chi pretendeva di leggere i suoi romanzi come metafore evangeliche (lettere 142, 153, 156). I cattolici di destra si accaniscono a farlo ancora oggi. Tralasciando ovviamente un dettaglio che i cattolici degli anni Cinquanta – forse meno opportunisti – imputarono invece al correligionario Tolkien: nel racconto della Terra di Mezzo non c’è Avvento, non c’è Incarnazione né Resurrezione, non c’è Buona Novella, e di conseguenza non c’è Redenzione. Cristo supera la tentazione, Frodo no. Cristo alla fine dice: “La Tua e non la mia volontà sia fatta”. Frodo alla fine dice: “L’Anello è mio!”. Tanto come eroe pagano quanto come santo cristiano Frodo fallisce. Ed è soltanto la provvidenza a fare in modo che il suo sacrificio non sia vano. Provvidenza + fallimento di Frodo => visione cristiana della storia, ma senza santità.

    6) Tolkien si arrabbiava molto anche con chi diceva che nelle sue storie non c’erano donne e che i pochi personaggi femminili non contavano nulla. Basta fare un ricerca su Wikipedia con i seguenti nomi (i primi che mi vengono in mente): Varda, Yavanna, Melian, Luthien, Erendis, Baccador, Arwen, Eowyn, Shelob. Tutti questi personaggi femminili hanno un ruolo strategico e provvidenziale nella vicenda di Arda e della Terra di Mezzo, e specificamente nelle imprese degli eroi maschili, ai quali sono complementari e indispensabili. In certi casi superano i loro partner e guadagnano un protagonismo solitario, come fanno Luthien, Galadriel ed Eowyn.

    7) Tolkien ha altresì respinto al mittente – e perfino sfottuto – le letture della Guerra dell’Anello come metafore della lotta anti-comunista e della guerra fredda. Anche in questo caso si tratta di libere intepretazioni allegoriche. I fascisti in giro per il mondo sono padronissimi di farle, ma non di attribuirle all’opera stessa. Tolkien ha già risposto a costoro nel 1957: “Chiedere se gli Orchi sono i Comunisti per me è come chiedere se i Comunisti sono Orchi” (lettera 203).

    8) La concezione democratica dell’eroismo è quella che Tolkien afferma a proposito degli hobbit. Se uno scrive che il suo intento nell’assegnare agli hobbit il ruolo di protagonisti è “to show up, in creatures of very small physical power, the amazing and unexpected heroism of ordinary men ‘at a pinch'”, sta dicendo che chiunque può essere un eroe, anche l’essere più piccolo, fisicamente debole e ordinario, e non solo i nobili cavalieri di sangue blu. E’ precisamente ciò che avviene ne Lo Hobbit e nel Signore degli Anelli, dove sono i piccoli a salvare la baracca. Ergo quella che si afferma è una concezione “democratica” e non oligarchico-elitaria dell’eroismo.

    9) Robert Owen era un socialista utopista e propugnava un sistema economico a bassa industrializzazione, basato su piccole comunità agricole collettiviste (una versione utopistica e meno statalista di quelli che in Russia sarebbero stati i sovchoz). William Morris era contro la diffusione indiscriminata dell’industria e difendeva la socializzazione del lavoro artigiano, non di quello operaio industriale, ovvero la produzione artigianale di tipo cooperativistico. Fondò una celebre scuola di produzione artigianale di design, un’altrettanto celebre casa editrice artigianale, e promosse il lavoro artigiano come attività formativa per uomini e donne nell’arco di tutta la sua vita. Si definiva anche marxista. Insieme alla figlia di Marx fondò la Lega Socialista nel 1884. E’ considerato una delle figure di spicco del socialismo britannico del XIX secolo.
    Pensare che i socialisti fossero tutti concordi nell’individuare nella socializzazione dell’industria la soluzione ai contraccolpi della grande trasformazione è un difetto di prospettiva figlio della storia politica del socialismo del XX secolo.

    10) Che Tolkien proponesse la Terra di Mezzo come modello sociale è un’altra attribuzione indebita. Sono ancora i fascisti evoliani e i cattolici tradizionalisti a proporre le società della Terra di Mezzo – di volta in volta quelle guerriere o quelle agricole o entrambe – come modelli sociali e a leggere l’opera di Tolkien come un manifesto socio-economico. Tolkien ha sempre sostenuto il contrario, anche e soprattutto per quanto riguarda la Contea: «Gli Hobbit non sono una visione utopica, e non vengono nemmeno raccomandati come l’ideale nella loro epoca o in altre. Essi, come tutti i popoli e le loro caratteristiche, sono un accidente storico […] e anche temporaneo, alla lunga» (Lettera 154). Il fatto che qualcuno tratti Tolkien alla stregua di un propagandista non significa che lo fosse. E infatti non lo era.

    In conclusione, se certe letture dell’opera di Tolkien come la tua avessero una qualche pretesa di verificabilità, si dovrebbe dare per implicito che Tolkien fosse uno schizofrenico, cioè uno che pensava e diceva alcune cose, e poi nella sua narrativa si impegnava a dire tutto il contrario. Il punto è che invece non si tratta di schizofrenia dell’autore, ma di mistificazione di certi lettori distratti (o fin troppo attenti).
    Ecco, tanto mi sentivo di risponderti. E penso di avere già dedicato alle tue teorie più tempo di quanto tu non abbia dedicato alla lettura del mio libro… o a quella di Tolkien.

    Arrivederci sulle (opposte) barricate ;-)
    Wu Ming 4